K-Pax di Iain Sofley – USA – 2001

6 Gennaio 2019 | Di Ignazio Senatore

Un uomo con gli occhiali scuri (Kevin Spacey) si aggira per la Grand Central Station di New York. Fermato dalla polizia, sostiene di chiamarsi Prot, di essere un alieno proveniente dal pianeta K- Pax della costellazione della Lira. Ricoverato all’Ospedale Psichiatrico di Manhattan, è affidato al dottor Mark Powell (Jeff Bridges). Lo psichiatra è immediatamente affascinato da questo strano paziente che senza scomporsi, risponde in maniera esauriente a tutte le domande che gli sono poste sul suo pianeta di provenienza.

Questo personaggio pacifico e gentile afferma inoltre, di essere ritornato sulla Terra ( pianeta allo “stadio iniziale d’evoluzione” e dal “futuro incerto”) per svolgere un’inchiesta e che ha già fissato per il 26 luglio la data del suo ritorno a K-Pax. Prot possiede, inoltre, delle caratteristiche inquietanti: ha uno spettro visivo differente dagli umani (può vedere i raggi ultravioletti) ed è a conoscenza di alcune informazioni di astrofisica top-secret. Ma, al di là  di questi straordinari poteri, quello che più colpisce in Prot è la sua empatica capacità di entrare emotivamente in contatto con gli altri ricoverati. Nella seconda parte, il film si snoda su due registri differenti: il primo (di chiaro stampo fantastico) teso a dimostrare le prove “dell’alienità” di Prot; il secondo (ispirato al più classico degli psico-thriller) orientato a svelare quale identità si nasconde dietro questo strano personaggio. Il finale è lasciato volutamente “aperto”.

Softley (mago dei videoclip) confeziona una suggestiva favola metropolitana, arricchita da un’ottima fotografia e da una convincente prova dei due attori protagonisti. A parte il deludente finale, il film non è esente, da limiti e da imperfezioni. Il regista, nella seconda parte del film, appesantisce, inutilmente il testo con una storia altamente drammatica e ripropone l’ennesima seduta ipnotica che “catarticamente” libera il paziente dal trauma. Di maniera, infine, le caratterizzazioni dei due protagonisti; da un lato il dottor Powell, il classico psichiatra incapace di mettere ordine nella propria vita privata (è separato dalla prima moglie, non parla da anni con il figlio che frequenta il college in un’altra città…) e dall’altra Prot che puntando dritto al cuore degli altri ricoverati, funziona da catalizzatore dei loro cambiamenti emotivi; la paziente che si rifiutava di uscire dalla stanza di degenza riannoda i contatti con gli altri ricoverati; il paziente patofobico (armato di guanti e mascherina) affronta le insidie batteriologiche presenti nel mondo esterno; la paziente mutacica riprende a parlare… Nonostante queste discrepanze narrative il film è una favola metropolitana godibile e divertente, venata ( a tratti) da un pizzico di melanconica nostalgia.

Softley descrive, inoltre, con sagacia lo psichiatra, annoiato dalla pratica professionale quotidiana e dibattuto tra le proprie “incrollabili” certezze scientifiche ed il “bi-sogno” di trovarsi di fronte ad un “vero” alieno in carne ed ossa. Prot, infine, ti entra nel cuore non solo per l’ingenuità, il candore e la tenerezza che ispira ma (soprattutto) per la sua straordinaria capacità di regalare un sogno (la guarigione?) a quei pazienti che, trascinano inutilmente e senza speranza, la loro esistenza. La clinica è un luogo di cura sereno e rilassante e i matti che la popolano fanno solo una grande tenerezza. Kevin Spacey, con questa sua interpretazione misurata, riesce a dar vita ad uno degli “alieni” più stralunato e toccante della storia del cinema. Jeff Bridges era più convincente quando in “Starman” di Carpenter impersonava l’alieno. Il film è tratto dal romanzo di Gene Brewer. Remake dl meno noto film argentino “Man locking southeast” diretto nel 1986 da Eliseo Sabiela.

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