Ignazio Senatore intervista Amos Gitai: “Il mio cinema atto civile”

27 Ottobre 2018 | Di Ignazio Senatore
Ignazio Senatore intervista Amos Gitai: “Il mio cinema atto civile”
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Il regista israeliano Amos Gitai, premiato a Venezia e a Locarno, autore di capolavori come “Kadosh” (1999) e “Promised land“ (2004) è l’ospite d’eccezione della rassegna cinematografica “Venezia a Napoli. Il cinema esteso”. Oggi, alle ore 19.00, introdotto da Enzo d’Errico, direttore del Corriere del Mezzogiorno, al Cinema Astra Gitai presenta, in anteprima, i suoi due ultimi film “A letter to a friend in Gaza” e “A tramway in Jerusalem”.

Nel 1993, su invito di Enrico Ghezzi, ha girato a Napoli un documentario “Nel nome del Duce”, sulla campagna elettorale di Alessandra Mussolini. Come è cambiata secondo lei, in questo ultimo quarto di secolo la situazione politica in Italia e in città?

Napoli è una città che amo, internazionale e dinamica, proprio per quella rottura tra le sue anime più diverse. Ho saputo che recentemente Alessandra Mussolini ha chiesto una legge contro l’apologia dell’antifascismo e che ha intenzione di querelare chi offende il nonno. La situazione non è buona ed è diventata identica in diverse parti del mondo e sono al potere gruppi che limitano sempre più la libertà di parola.

Come definirebbe il suo cinema, politico?

Credo che nessun cineasta abbia un potere reale, ma simbolico e che il nostro compito sia quello di lavorare sulla memoria. Quando Picasso ha dipinto Guernica, dopo il bombardamento della piccola cittadina basca ad opera dei nazisti, non realizzò solo un bellissimo dipinto, ma un atto civile. Quando osserviamo quel dipinto, possiamo vedere i colori, la composizione, l’influenza del cubismo, ma io vedo la reazione di uno spagnolo contro gli orrori della guerra.  Penso che tutti i miei film non siano politici ma atti civili e non mi piace quel cinema che strumentalizza, che è di parte, anche se il film è diretto da Michael Moore. Al cinema voglio pensare, non essere manipolato. Il cinema è da interpretare, non da consolare.”

Che pensa del cinema attuale?

Credo che oggi si confonda la cultura con la propaganda e, purtroppo, molti artisti si adeguano al conformismo per vendere i loro prodotti. La cultura è individuale e non può essere imposta dal Ministero della Cultura. Credo che la condizione che stanno vivendo i palestinesi sia sovrapponibile a quelli degli indiani d’America. Gli israeliani, come i cowboy, a poco a poco, stanno rubando la terra dei palestinesi fino al giorno in cui li relegheranno in delle riserve.

E’ nota la sua posizione critica ed indipendente nei confronti della politica del premier Netanyahu. I suoi film sono proietati attualmente nelle sale israeliane o sono boicottati?

Il mio primo film fu proiettato al Jerusalem Film Festival, poi gli altri sono stati visti in diversi festival internazionali. Sono criticato perché sul red carpet di Cannes o di Venezia sono in smoking. Al di là degli aspetti mondani dei festival, tutto rientra in una strategia che mi permette di far circolare i miei film e, grazie anche ai premi che ho ricevuto, di far pressione sulle autorità israeliane che poi devono autorizzarne la proiezione.

Articolo pubblicato su il Corriere del Mezzogiorno 27-10-2018

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