Tutti in sala: il film è servito

2 Febbraio 2017 | Di Ignazio Senatore
Tutti in sala: il film è servito
Senatore giornalista
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Per Claude Chabrol “Scrivere la sceneggiatura è come cucinare. Girare, la cosa che mi piace di più, è come mangiare. Montare, beh, è come lavare i piatti.” Secondo il maestro del brivido Alfred Hitchcock “Il cinema non è una fetta di vita, ma una fetta di torta.” Più lapidario di tutti il coriaceo Samuel Fuller: “Il cinema è un’arte culinaria.”. Basterebbero le dichiarazioni di questi tre grandi maestri del cinema per rimarcare i rapporti tra cinema e cibo. E del resto, come non fare,  riferimento a quelle pellicole di “genere”, come gli “spaghetti-western” o dalle “torte in faccia” e ricordare che, un tempo, la pellicola proiettata al cinema, in gergo, era definita “pizza”?

Messe da parte le numerose pellicole che mettono in scena l’atavica calamità della fame (Accattone, Miracolo a Milano, Ladri di biciclette…),  declinata spesso in chiave comica (Miseria e nobiltà, Totò cerca casa …), quelle la cui trama ruota intorno a camerieri (Camerieri, Betty Blu…), ristoratori (Mangiare bere uomo donna…), cuoche (Il pranzo di Babette, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, Donna Flor e i suoi due mariti…), pizzaiole (L’oro di Napoli), ed i film ambientati nei tempi sacrali del cibo come ristoranti e fast-food (Bagdad Cafè, Il cuoco, il ladro, la moglie e l’amante…), la Settima Arte non poteva non mettere in scena chi, alla disperata ricerca dell’irraggiungibile peso forma, è alle prese con diete, tabelle e deve svolgere, ogni mattina, il rituale sacro del salire su una bilancia.

Tra i film che hanno ironizzato, in chiave comica, su questa ossessione, su tutti merita una citazione 7 chili in 7 giorni, pellicola diretta da Luca Verdone (1986) che narra di Alfio (Carlo Verdone), laureato in medicina con il minimo dei voti, e  Silvano  (Renato Pozzetto), un collega di corso, che decidono di aprire Villa Samantha”, una clinica per obesi con l’obiettivo di far dimagrire i pazienti di “sette chili in sette giorni“. I degenti, sottoposti a digiuni forzati, a diete semiliquide e tenuti a stecchetto, come prevedibile, dapprima accettano le restrizioni dietetiche, poi protestano ed abbandonano la clinica. Sul finale, Alfio e Silvano, appresa la lezione, trasformano “Villa Samantha” nel ristorante “Ai due porconi”.

Atmosfere completamente diverse si respirano, invece, in quei film che provano a tratteggiare le problematiche legate a dei veri e propri disturbi del comportamento alimentare.

Il primo film in assoluto che tratta il problema dell’anoressia è La merlettaia, diretto da Claude Goretta (1977), che narra della giovane e disarmante Pomme (Isabelle Huppert), una ragazza semplice che lavora come parrucchiera che s’invaghisce, ricambiata di Francois, un giovane studente d’estrazione borghese. Lui l’abbandona, lei non regge la delusione, rifiuta di alimentarsi ed è ricoverata in manicomio. Primo amore di Matteo Garrone (2004), più che un film sull’anoressia, è da considerata una storia di un amore “malato”, racconta di Sonia (Michela Cescon), una donna fragile e passiva che, per dimostrare a Vittorio (Vitaliano Trevisan), di amarlo, inizia a perdere qualche chilo. Sempre più attento a controllare le abitudini alimentari di Sonia, Vittorio tralascia il lavoro e Sonia accetta di ridurre ancor più drasticamente il cibo fino a diventare pallida, scheletrica ed emaciata. Dopo aver preso atto della follia di Vittorio, si ribella e riesce a liberarsi del suo persecutore.

In Vorrei vederti ballare di Nicola Deorsola (2009), Ilaria (Chiara Chiti) è un’adolescente anoressica in cura da uno psicoanalista (Alessandro Haber). Martino (Giulio Forges Davanzati), il figlio del dottore, s’innamora di Ilaria, si documenta sui DCA, si finge psicologo e prende in cura la ragazza. Dopo qualche colpo di scena, la verità viene a galla, ma l’amore trionferà.

L’altro film  nostrano che mette al centro della narrazione la patologia anoressica è Maledimiele di Marco Pozzi (2011). Sara (Benedetta Gargari), studentessa modello, sedicenne, dopo una delusione amorosa, decide di perdere peso con l’obiettivo di raggiungere i 38 chili. Sola e senza amiche, si chiude sempre più in se stessa ed affida alle pagine del suo blob le sue dolorose riflessioni. Sul finale crolla, ma troverà, da sola, la forza di mettersi alle spalle la malattia e di guardare con ottimismo al futuro.

La Settima Arte non poteva non mettere in scena anche il disturbo bulimico. Messo da parte il cult di Marco Ferreri La grande abbuffata (1973), metafora, in verità più degli stretti legami tra cibo e morte e film simbolo dlla decadenza della società capitalistica, in  Dolce è la vita di Mike Leigh (1990), Nicola (Jane Horrocks)  ragazzina instabile ed infelice, scarica le tensioni accumulate in famiglia con delle colossali abbuffate che terminano con il vomito autoindotto. Infine ne La Venere di Willendorf” di Elisabetta Lodoli (1997) Elena (Luisa Pasello), spenta, taciturna e alla ricerca di se stessa, dopo aver scoperto il tradimento del marito, non trova di meglio che compiere delle abbuffate notturne per scaricare la rabbia e l’infinita tristezza che ha accumulato dentro di sé.

Ma il cinema non mette in campo solo comportamenti alimentari patologici ma sottolinea anche i rapporti tra cibo e convivialità (C’eravamo tanto amati), cibo e sensualità (8 settimane e mezzo, Come l’acqua per il cioccolato..), cibo e cannibalismo (Il silenzio degli innocenti…) e perché no, cibo e politica, come ricorda Francesco Nuti nel suo divertentissimo Caruso Pascovski di padre polacco (1988): “La mortadella è comunista, il salame socialista, il prosciutto è democristiano, la coppa liberale, la salsiccia repubblicana, il prosciutto è fascista, la finocchiona, radicale”. E dopo questa scorpacciata di titoli, non ci resta che andare al cinema e “gustarci” un bel film.

Articolo pubblicato su Torino Medica. Organo dell’Ordine dei Medici di Torino

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