Vincent (Aurélien Recoing), apprezzato consulente finanziario, è licenziato su due piedi. Frastornato e confuso, decide di non dire niente alla moglie Muriel (Karin Viard), ai figli e ai genitori.
Per non destare sospetti, si rifugia in delle pietose bugie e lascia credere di lavorare a Ginevra, per conto dell’ONU, ed ogni mattina, si veste di tutto punto, prende l’auto, s’infila nella hall di un albergo, sfoglia dei giornali, sbircia un po’ intorno e, giunta sera, rientra tranquillamente a casa.
Per prendere fiato e raggranellare un po’ di liquidi, racconta agli amici che può spostare dei conti all’estero, e al padre (Jean-Pierre Mangeot) chiede dei soldi in anticipo per poter comprare un appartamento a Ginevra.
In una delle anonime salette d’attesa di un hotel Vincent incontra Jean Michel (Serge Livrozet), che lo smaschera e gli propone di aiutarlo a smerciare orologi e vestiti di marca contraffatti. A poco a poco Vincent restituisce i soldi agli amici, ma la verità sale prepotentemente a galla.
Il film, sobrio e perfettamente calibrato, narra di un uomo mite e tranquillo che sogna di vivere senza scosse e che, dopo il licenziamento, invece di affrontare la realtà di petto, decide di congelare il tempo; non solo non fa la domanda per il sussidio, ma rifiuta, stizzito, l’aiuto di un amico che vuole dargli una mano a trovare un altro lavoro.
Il regista (Risorse umane, Verso il sud, La classe, Ritorno a L’Avana, L’atelier…) calibra alla perfezione la narrazione ed impagina un film esteticamente perfetto che narra in maniera sommessa e silenziosa la sofferenza del protagonista.
Per tutto il film Vincent non urla contro il destino, non attacca i superiori che l’hanno sbattuto per strada, privandolo del lavoro e, rassegnato, solo e senza amici, a Jean Michel confida il proprio malessere interiore:
“Sei solo nella tua macchina, fumi una sigaretta, senti la musica e non pensi a niente. Potrei starci delle ore. In realtà credo l’unica cosa che mi piacesse del mio lavoro erano i viaggi, ma questo ha finito col giocarmi brutti scherzi e dalla mia macchina era sempre più difficile scendere. A volte facevo duecento chilometri per andare ad un appuntamento e quando dovevo uscire dall’autostrada, all’ultimo momento, senza rifletterci, tiravo dritto. E’chiaro che tutto ciò ha finito per infastidire il mio capo, anche se in realtà, a poco a poco, ero io ad allontanarmi dall’azienda. Si capiva che non c’entravo più niente in quel posto e nessuno mi ha trattenuto e quando ho deciso di andarmene mi hanno aperto la porta.”
E quando l’amico gli chiede perché non ne ha parlato alla moglie, risponde in maniera disarmante: “Non lo so. Mi è sembrato più semplice continuare così.”
I dialoghi sono ben calibrati ed il dolore del protagonista vivo, pulsante non è mai eccedente. Cantet non è un regista militante, nel film non compaiono operai in lotta e sindacalisti che proclamano scioperi, ma il suo attacco all’organizzazione disumanizzante del lavoro capitalistico è egualmente graffiante e feroce.
La pellicola è supportata da una fotografia nitidissima e da un Aurélien Recoing dolorosamente misurato.
Dal romanzo L’Avversario di Emmanuel Carrère, a sua volta, ispirato alla vera storia di Jean-Claude Romand, un uomo che il 9 gennaio 1993 uccise la moglie, i figli e i genitori prima di provare a suicidarsi.
Per un approfondimento sul tema con schede film e commento critiche si rimanda alla lettura di “Cinema mon amour I 100 film francesi da amare” di Ignazio Senatore – Classi Editore – 2024
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