“Cinema e R\Esistenza” – Quaderno di Storia Contemporanea N, 57 – 2015

25 Aprile 2015 | Di Ignazio Senatore
“Cinema e R\Esistenza” – Quaderno di Storia Contemporanea N, 57 – 2015
Articoli di Ignazio Senatore sui rapporti tra Cinema e psiche
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Devo confessarlo. Non mi sono mai piaciuti i film storici, né tantomeno quelli di guerra. Va da sé che anche i film sulla Resistenza non sono il mio forte. Le mie riserve non sono da attribuire a delle ragioni ideologiche o politiche relative a quel convulso e doloroso periodo della storia italica ma, esclusivamente, a delle remore di natura estetica. Due motivi su tutti.

Innanzitutto in questi film la Storia (con la esse maiuscola) schiaccia così tanto i personaggi della vicenda che, ogni loro tormento, spasimo e sofferenza, finisce, inevitabilmente, per sembrare futile e banale. Un esempio? Ne La lunga notte del 43 Florestano Vancini ci mostra la vicenda di Anna (Belinda Lee), moglie di un farmacista ferrarese fascista che s’innamora di Franco (Gabriele Ferzetti), figlio dell’avvocato Villani, noto antifascista. Per quanto il regista provi ad equilibrare la narrazione, di fronte alla strage di civili inermi, compiuta dai fascisti a Ferrara il 15 dicembre del 43, lo struggimento amoroso della giovane protagonista non appare (forse) come uno stucchevole e mieloso dramma sentimentale?

La seconda obiezione è che non amo i film a tesi. Generalmente i film sulla Resistenza ripropongono tutti i medesimi topos: l’orrore della guerra, la cieca e sordida violenza dei nazisti, l’arroganza, la volgarità e la barbarie dei fascisti, il coraggio e l’eroismo dei partigiani e di chi, pagando spesso con la propria vita, ha lottato, , in nome degli ideali di eguaglianza e di libertà, per ristabilire la democrazia …

Questa scelta narrativa “obbligata”, finisce però, inevitabilmente, per posizionare lo sguardo dello spettatore, privandolo così di scarti e di via di fuga e, chi è in sala, non può che aderire “passivamente” alla verità storica ri-proposta da registi e sceneggiatori.

A confermare le mie riserve, lo scarso successo al botteghino di queste pellicola che, tranne qualche rara eccezione, sono finite per lo più nel dimenticatoio e le sottolineature, spesso negative, di gran parte della critica.

Un esempio su tutti?  I piccoli maestri di Daniele Luchetti, pellicola ambientata nell’autunno del 1943, che ruota intorno a (Gigi (Stefano Accorsi), Enrico (Giorgio Pasotti), Simonetta (Stefania Montorsi), studenti universitari, simpatizzanti del Partito d’Azione che, insieme a qualche operaio costituiscono un “banda” per unirsi ad altri gruppi di partigiani. Politicamente ingenui e sprovveduti, in assenza di direttive, rubano dei formaggi in un deposito e li distribuiscono agli abitanti di un piccolo villaggio, causando però subito dopo, la rappresaglia dei tedeschi e dei fascisti. Raggiunti dei partigiani, la ”banda” decide di ammazzare un medico fascista, ma poi si limita a sequestrarlo e tenerlo rinchiuso, in un rifugio in montagna. Gli scontri a fuoco con tedeschi e fascisti si fanno sempre più duri ed alcuni componenti della “banda” muoiono sotto i colpi del fuoco nemico. Viene l’inverno ed ai superstiti della “banda” non resta che ritornare a Padova dove nell’aprile del 45’, festeggeranno con la popolazione, l’ingresso in città degli Alleati e la Liberazione.

Il regista Daniele Luchetti, nel corso di una lunga intervista con il sottoscritto, pubblicata nel recente volume “Daniele Luchetti racconta il suo cinema”, in merito alle critiche (spesso strumentali) al suo film, affermò:

“Molte cose le ho raccontate così come me le hanno raccontate i personaggi del film. Una delle critiche è che erano sempre troppo sbarbati. In realtà nelle fotografie fatte sulle montagne, i veri partigiani sembrano appena usciti dal barbiere. Quando, incuriosito, ho chiesto come fosse possibile, mi è stato detto dai diretti interessati: “venivamo da un’educazione fascista e conformista che ci diceva:”Mai farsi trovare morti con la barba lunga. Eravamo ossessionati di venire uccisi con l’uniforme sporca o con la barba lunga”. L’errore che ho fatto è stato quello di non spiegarle queste cose, di darle per scontate ed effettivamente sembrano impomatati. Ma loro erano proprio quello:  partigiani impomatati, un tipo di ragazzi, di formazione piccolo-borghese, che aveva fatto il militare sotto il fascismo ed che era stato educato nel rispetto di disciplina e decoro. (…) Le fotografie mi dicevano questo. Questi andavano a fare la rivoluzione con l’impermeabile, con il trench. E’ vero. La raffigurazione del partigiano con la barba lunga, quella stabilita da un certo tipo di cinema ideologico,  era per dimostrare che tutto sommato erano simili ai contestatori degli anni Sessanta o Settanta. Anche quello è stato un utilizzo strumentale della lotta partigiana da parte del cinema. Claudio Pavone, un grande storico, dice una cosa molto intelligente, cioè che la Resistenza è sempre stata come uno strumento da utilizzare per ragioni politiche pro o contro un tale partito. Se vedi la fotografia di un vero  partigiano e la confronti col fotogramma di qualsiasi film sulla Resistenza girato negli anni Sessanta o Settanta, ti accorgi che i partigiani che di quei film, somigliavano più ai contestatori di Architettura che ai veri personaggi storici. Il che va benissimo. Ogni film in costume è il passato visto dal presente. Strumentalizzato, interpretato, manipolato. E’ giusto. Un film sulla resistenza girato nel ’68 non racconta la resistenza: racconta inevitabilmente il ’68. Mentre giravo il film, mi emozionavo e mi commuovevo di fronte a certe scene, perché mi portavo dietro l’orgoglio di raccontare la loro storia a persone ancora vive, col desiderio di riportarli in quei luoghi e in quel tempo. Penso di essere stato, più che un narratore, una guida turistica col groppo alla gola. Peccato che non a tutti gli spettatori sia venuto lo stesso groppo che sentivo io!”

Polemiche a parte, non potendo analizzare tutte le pellicole prodotte sul tema della Resistenza, mi limiterò a citare quelle che ho più nel cuore.

Passato in sordina, perché proposto in due sere su Rai Due nel 1984, ma decisamente privo di sbavature è Notti e nebbie di Marco Tullio Giordana. Al commissario Bruno Spada (Umberto Orsini) è affidato il doppio incarico di arrestare gli antifascisti, che tramano per abbattere il regime, e di fare pulizia nelle alte sfere dei funzionari corrotti e doppiogiochisti della Repubblica Sociale Italiana. Supportato dal fido Bonetti (Bruno Zanin), Spada è sulle tracce del temibile Fugazza (Maurizio Donadoni), un fervente antifascista e s’imbatte per caso in Giulio ed in Lucia (Senta Berger),, la sua affascinate moglie che, complice il marito impotente, lo seduce per avere un figlio da lui. Seppur sposato e padre di una bambina, Spada è attratto da Magda (Eleonora Giorgi), amante di un potente gerarca fascista e dalla tenera Noemi (Laura Morante), una prostituta dal cuore d’oro e sua preziosa informatrice. Le voci del crollo del regime si susseguono sempre più freneticamente e, sia Giulio che Noemi, gli offrono ospitalità e gli consigliano di darsi alla fuga. Coerente fino all’estremo, Spada decide di non vestire i panni del voltagabbana e va incontro alla morte. 

Giordana traduce per il piccolo schermo l’omonimo romanzo di Carlo Castellaneta, coautore in sede di sceneggiatura e, con chirurgica precisione, regala allo spettatore la pulsante e tormentata figura del protagonista, un funzionario, che, seppur non abbia sposato in pieno l’ideologia fascista, in nome del dovere, si batte per servire fedelmente il regime. Spada non è descritto come il classico fascista volgare ed arrogante, simbolo di quell’Italia trombettiera e sopra le righe, tante volte rappresentata sullo schermo. Pur prendendo le distanze dalle sordide e spesso gratuite violenze fasciste, Spada finisce per diventare l’emblema di chi, non essendo né un opportunista, né un doppiogichista, avendo sposato una posizione politica, piuttosto che scendere a compromessi verso se stesso,  per coerenza, è disposto a pagare fino in fondo le conseguenze delle sue scelte.

Giordana ambienta la vicenda a Milano nel ’44, non cede al facile ideologismo e, nel palpitante finale, lascia intendere che, indipendentemente dalla fazione politica a cui appartengono, i morti sono tutti eguali tra loro.

Un’altro dei miei preferiti è Il partigiano Johnny di Guido Chiesa (2000), tratto dall’omonimo romanzo incompiuto di Beppe Fenoglio, che ruota intorno alla figura di Johnny (Stefano Dionisi), ex ufficiale dell’esercito, colto, fine conoscitore dell’inglese, eroe introverso e solitario che, dopo l’8 settembre, ritorna ad Alba per arruolarsi tra i partigiani e combattere, armi in pugno, contro gli oppressori fascisti. Un film, sincero e coraggioso che, pur indugiando, troppo sugli scontri armati tra i partigiani e le truppe nazifasciste, affida alla voce off di Johnny delle amare riflessioni sulla guerra partigiana.

Non meno suggestivi dei precedenti quei film, più declinati al femminile, che mettono in campo le eroine della Resistenza.

Libera, amore mio di Mauro Bolognini (1973) ruota intorno a Libera (Claudia Cardinale), figlia di un anarchico al confino ad Ustica. Coraggiosa, indomita e battagliera, cerca di scuotere le persone che le sono intorno a ribellarsi contro le angherie dei nazifascisti. Invano il marito prova a tenerla a freno ed a ricordarle che dovrebbe non occuparsi di politica, ma prendersi solo cura dei figli. Spirito ribelle, Libera protesta al cinema contro la propaganda di regime, a scuola urla contro le maestre che inneggiano al fascismo ed in una sala da ballo, costretta a danzare con un gerarca locale, lo pianta in asso in mezzo alla sala, dopo avergli spiattellato in faccia il proprio odio e disprezzo. Bolognini prova a fondere commedia ed impegno civile e ci regala il ritratto di Libera, una donna pulsante dal carattere impulsivo che non indietreggia di fronte a  nessun ostacolo.

Agnese va a morire di Giuliano Montaldo (1976), mostra, invece, la coraggiosa Agnese (Ingrid Thilin), lavandaia emiliana analfabeta, vedova di un comunista, che divenuta una staffetta partigiana, si fa carico dei rifornimenti, sfidando in pieno inverno, neve ed intemperie. Montaldo, la descrive sia come un’eroina che, impavida, attraversa le linee nemiche, che come una madre che si prende cura dei partigiani rifugiatisi con lei in montagna.

Chiude la breve carrellata La ragazza di Bube di Luigi Comencini (1963). il più bel film, a mio avviso, sulla Resistenza. Mara (Claudia Cardonale) s’innamora di Bube, un partigiano un po’ rude e dai modi spiccioli, costretto a fuggire all’estero, dopo aver assassinato, per legittima difesa, un uomo in divisa. Ritornato dopo un anno in Italia, è sottoposto ad un processo e condannato a scontare quattordici anni di carcere. Mara, che avrebbe potuto accettare la corte di Stefano, un bravo ragazzo che le gironzolava intorno, quando comprende che Bube è un uomo solo e che potrà affrontare la lunga detenzione solo contando sul suo appoggio, si “sacrifica” e decide di aspettare la sua scarcerazione.

Per concludere, anche se alcuni film legati alla Resistenza sono stati accusati di essere retorici, faziosi, ideologici e squilibrati da un punto di vista narrativo, non posso che esprimere una sincera ammirazione per quei registi e sceneggiatori che, con le loro pellicole, hanno contribuito a tenere viva l’attenzione (soprattutto dei più giovani) su uno dei periodi più complessi e travagliati della storia della nostra Nazione.

Ecco alcuni dei dialoghi più belli tratti da questi film

Professor Cocito:  Abbiamo la guerra in casa

Vico: Professore, facciamogliela pagare.

Chiodi: E in che modo, Vico?

Ettore: Alba è piena di fascisti da accoppare

Professor Cocito: Giusto, come fanno i partigiani d Tito in Iugoslavia, no? E tu vorresti fargliela pagare,, vero Johnny? Allora sei disposto ad  ucciderli, perché si tratta di uccidere. Bene. Poniamo il caso che tu avvisti un fascista e decidi di sparargli, però tu sai che, se lo uccidi, ci potrebbe essere una rappresaglia contro i civili. Cosa fai, te la senti lo stesso di sparargli?

Johnny: No

Professor Cocito: Bene. E se tuo padre fosse un fascista, uno di quelli duri, te la sentiresti di sparargli?

Johnny: No

Vico: Professore, ma lei fa solo casi estremi

Professor Cocito: La guerra è solo casi estremi

Chiodi: Il professore vuol dire che non basta voler essere partigiani, voler essere liberi. Ci vuole anche coscienza, coscienza ideologica, insomma essere comunisti

Professor Cocito: Diversamente sarete solo dei Robin Hood (Il partigiano Johnny)

 

Mara: E l’amnistia?

Padre: Bel capolavoro quello! Hanno messo fuori tutti i fascisti e quelli che si son arricchiti affamando il popolo.

Lidori:  Ma era necessario per pacificare gli animi

Padre: Gli animi dei fascisti. Bube, invece, é un partigiano e l’amnistia non l’hanno mica fatta per i partigiani. (La ragazza di Bube)

Walter: Oggi c’è gente che fa la spia senza una ragione, così per paura o per rabbia. Sono i primi a scappare se sentono una cannonata o se passa un aereo, ma basta che vedono un partigiano e allora sono capaci di passare sotto una pioggia di proiettili per andarli a denunziare. Non che amino i tedeschi, ma non sopportano quelli come voi, perché vi prendete il fastidio di pensare e di agire anche per chi non muove un dito e la loro cattiva coscienza ne rimane mortificata, sconvolta. Una spiata e si mettono il cuore in pace. E’ paura, rabbia e paura. (Agnese va a morire)

Dante: Ma allora a che serve la direzione politica?

Aldo: Io sono un contadino, non sono un politico, però una cosa l’ho

imparata; che la nostra esperienza ce la facciamo qui in montagna, giorno

per giorno e se sbagliamo, lasciateci sbagliare.

Dante: Noi adesso ci possiamo muovere solo nella Bassa perché abbiamo

l’appoggio dei contadini. Voi qui siete isolati, forse tra qualche mese…

Aldo: Isolati? Vedrai quanti verranno con noi, se seguitiamo a combatterli.

Le ragioni di ribellarsi ce l’hanno anche loro. Siamo noi che gliele

dobbiamo tirare fuori.

Dante: Noi non la pensiamo così. Volete restare qui, restateci. Ma non

muovete un dito finché non  arrivano le direttive del CNL

Aldo: La lotta la facciamo noi e questa è anche la nostra direzione politica.

(I sette fratelli Cervi)

 

“Ieri mattina in chiesa c’era una festa. Non so bene che festa.

L’Ascensione, mi pare. Io ero insieme a Ivan ed Umberto. Sai, i compagni

che lavorano con me. Loro erano con due ragazze che volevano andare a

messa. Quando arrivammo alla chiesa, il prete non ci volle fare entrare

perché disse che noi eravamo in calzoni corti. Io ero vestito come mi

vedi ora, Ivan ed Umberto con i calzoni corti con un fazzoletto rosso al

collo. Però quella del prete era una scusa. Non ci voleva fare entrare perché

eravamo partigiani. E Umberto gliel’ha detto chiaro e tondo:

“Quando prima venivano i fascisti col gagliardetto, loro li facevate entrare

in chiesa. Allora fate entrare anche noi col fazzoletto rosso.” Ma lui

nulla, non ne voleva sapere.” (La ragazza di Bube)

 

Articolo pubblicato su Quaderno di Storia Contemporanea N, 57 – Edizioni Falsopiano – 2015

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