Il suo mood è penetrato negli spazi musicali “colti” della città come il Notting Hill o il Murat. Artista poliedrico con formazione internazionale, sin da ragazzino ha scoperto grazie al genio di Baltimora Frank Zappa che fare musica irriverente e senza barriere è possibile. Da lui ha imparato a considerare la musica una grande azione, senza generi separati.
Le cronache narrano che si è diplomato giovanissimo in flauto al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Come mai poi ha scelto il sassofono?
«Se avessi continuato con il flauto avrei potuto suonare solo in un’orchestra di musica classica: a quattordici anni ero già sul palco con i Zezi, un gruppo storico di Pomigliano d’Arco. Il passaggio dal flauto al sassofono fu quasi naturale anche perché come sassofonista iniziai a fare il “turnista” e ad accompagnare in tournée musicisti come Eduardo De Crescenzo, Nino D’Angelo, Peppino Gagliardi, Franco Califano e tanti altri».
Notevoli e diverse le sue collaborazioni con altri artisti, dai 99 Posse a Il Giardino dei Semplici, da Stefano Bollani a Vinico Capossela.
«Il piacere della musica si nutre anche e soprattutto dell’incontro con altri artisti, specialmente se provengono da percorsi diversi. Ed è proprio grazie a queste collaborazioni che ho potuto poi auto-produrmi Malamusica, il mio primo album nel 1990. L’uscita del disco è coincisa poi con la mia decisione di non seguire più le tournée degli altri artisti e di dedicarmi maggiormente alla mia musica».
Quale ricordo legato all’ambitissimo Premio Tenco del 1998 con l’album Lavorare stanca, come migliore album in dialetto?
«Può sembrare paradossale ma per me quel premio fu una sorta di preoccupazione perché, essendo uno dei pochi musicisti italiani che si autoproduce, dallo studio di registrazione alla stampa dei dischi, avrei dovuto anticipare i viaggi e l’ospitalità ai musicisti che avrebbero dovuto suonare con me».
Anche altri due musicisti napoletani come Tony Tammaro e Joe Barbieri, si autoproducono. È, quindi, un fenomeno molto diffuso tra i musicisti?
«In verità non lo é. Poiché sono un “zappiano” di ferro e Frank Zappa si autoproduceva, credo sia giusto fare così. Ho avuto più volte l’occasione per firmare con delle etichette, ma ho sempre preferito rimanere autonomo, libero e indipendente».
Con l’esplosione di YouTube e dei canali televisivi dedicati alla musica, che senso ha oggi pubblicare un disco?
«In verità riesco ancora a venderli e ciò conferma che c’è ancora un mercato per gli album. Addirittura il mio ultimo è stato nei primi posti di classifica delle vendite di Amazon al pari della compilation degli artisti che avevano gareggiato al Festival di Sanremo. Questo dimostra ancora di più che oggi, più che affidarsi alle etichette, conviene autoprodursi».
Mi può parlare del collettivo Capitan Capitone e i fratelli della Costa, formato tutto da artisti napoletani?
«È una band nata per gioco e inaspettatamente e sono anni che suoniamo insieme e ci divertiamo perché mescoliamo jazz, funky e altri generi musicali».
Come nascono le sue collaborazioni con degli affermati registi come Mario Martone, Gabriele Salvatores, Davide Ferrario, Enzo D’Alò, Gianfranco Pannone, Antonietta De Lillo, Terry Gillian?
«Io e Pannone ci conosciamo da tantissimo tempo. Con Mario Martone addirittura dal tempo del suo magico Tango glaciale. Quando uscì nel 1993 il mio Vite perdite, un disco che fece storia e che attirò l’interesse di un ambiente culturalmente più attento, lo stesso Martone ne rimase molto colpito al punto che utilizzò un mio brano nel suo film capolavoro L’amore molesto. Credo che quell’album sia stato una sorta di spartiacque e mi abbia fatto conoscere da diversi registi. Antonietta De Lillo, ad esempio, mi chiamò per Il resto di niente, un film al quale resto molto legato. Nonostante le collaborazioni con diversi cineasti, non mi sento un musicista da colonne sonore per film. Parimenti, mi ha fatto molto piacere che il geniale Terry Gilliam, quando venne a Napoli nel 2011 per girare il suo cortometraggio The wholly family mi abbia scelto per le musiche».
In un’intervista ha sottolineato che si sente un po’ come Stanley Kubrick, regista che ha attraversato diversi generi cinematografici, riscrivendoli completamente.
«Si, mi piace scivolare dal jazz al rock, dall’hip pop al funky come Kubrick ha fatto nel cinema, utilizzando linguaggi e tecniche diverse al punto che Shining, Barry Lindon e Full Metal Jacket sembrano diretti da registi diversi».
Ha mai riletto i classici della canzone napoletana?
“Su YouTube c’è una mia versione di Scetate e una Tammurriata nera. La canzone napoletana per me è come Nat King Cole o Frank Sinatra per gli americani: circola nel mio sangue».
Cos’è la musica per lei?
«È quella che è in mezzo al silenzio, un piacere come vedere un film di Totò».
Articolo pubblicato sulla Rivista Dodici. Luglio- Settembre – 2021
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