Woody a pezzi: autobiografia ed autoanalisi nel cinema di Woody Allen

19 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
Woody a pezzi: autobiografia ed autoanalisi nel cinema di Woody Allen
Articoli di Ignazio Senatore sui rapporti tra Cinema e psiche
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Provo il bisogno emotivo di essere amato e di far ridere il mio spettatore” 

“Il film comico è un lavoro terribilmente difficile. Vedi gente con la faccia lunga che medita dove verrà la risata, come ottenerla, come ottenere il ritmo giusto. Dall’altro lato, qualcuno mi ha raccontato che sul set di un grave dramma religioso di Bergman la gente ride tutto il tempo”         

“Quando fai una commedia, non ti siedi a tavola con gli adulti ma con i bambini”

                                                                                                                                      (Woody Allen)

                                      

Il motto di spirito ha assolto da sempre alle funzione di risvegliare ed illuminare coscienze assopite, di dar la carica emotiva a soggetti tendenti all’isolamento e alla tristezza, di riportare, anche per un solo attimo, inconsapevolmente,  l’individuo a certi stadi infantili della vita. Il primo a teorizzare sul riso fu Aristotele che affermò ”il comico è qualcosa di sbagliato che si verifica quando in una sequenza d’avvenimenti s’introduce un evento che altera l’ordine abituale dei fatti.” Ma si deve a Freud la più estesa e profonda analisi psicologica del fenomeno del comico. Nel suo scritto “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (1905) dopo aver citato Kant (“Il comico ha, in genere, una caratteristica singolare: quella di poterci ingannare solo per un momento”) Heymans (“L’effetto di un motto deriva dal fatto che allo stupore succede l’illuminazione”) e Shakespeare (“Il successo di uno scherzo giace nell’orecchio di colui che lo ascolta e mai nella lingua di chi lo fa.”) il Padre della psicoanalisi afferma che il motto di spirito, utilizzando gli stessi meccanismi d’espressione del sogno, rivela qualcosa che è segreto o nascosto, permettendo così all’individuo di poter accedere, con piena libertà a dei contenuti quali l’aggressività, la sessualità e le funzioni corporali, abitualmente repressi dal Super Io. Ed è  proprio la liberazione improvvisa di questa energia psichica “censurata”, in questo “risveglio dell’infantilità” che, secondo Freud, scatena la risata. Bergson, Pirandello, Bachtin ed altri autori rilevano che l’umorista, esponendo con ironia le proprie debolezze, mettendo in scena i propri difetti, conquista lo sguardo indulgente dello spettatore ed attira così non solo la sua simpatia ed ammirazione ma anche il suo sostegno, solidarietà  e benevolenza.

Tralasciando queste “dotte” disquisizioni sul comico e sul motto di spirito, quello che appare innegabile è che l’uomo ha sempre sentito il bisogno di ridere e di far ridere.

Sin dagli albori del periodo del muto, il cinema pescò nel riso ed attirò milioni di spettatori nelle sale con le “comiche” interpretare e/o dirette da Stanlio ed Ollio, Harold Lloyd, Buster Keaton, Charlie Chaplin Con l’avvento del sonoro il cinema strutturò, nel tempo, un proprio statuto narrativo e con le loro pellicole, registi del calibro di Frank Capra, Ernst Lubitsch, Howard Hawks, Billy Wilder ed i nostrani Renato Castellani, Mario Camerini, Luigi Zampa, Steno, Dino Risi, Mario Monicelli, hanno dato lustro alla commedia, genere da sempre amatissimo dal pubblico.

A questa titolata schiera di cineasti non può non può non far parte l’occhialuto, lentigginoso e nevrotico Allan Stewart Konisberg, in arte Woody Allen. Regista altalenante, poco amato dalla critica americana (e non solo), autore di commedie irresistibili e di altre noiose, sbiadite e poco convincenti, Allen ha costruito nel tempo il suo inconfondibile personaggio di ometto fragile, insicuro, logorroico, ossessionato dalla morte e dalle malattie, succube dell’universo femminile, divorato da mille complessi, perennemente in analisi e sempre sull’orlo di una crisi di nervi.Grazie ad alcuni aforismi (“La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”, “Lo psichiatra è un tizio che vi fa un sacco di domande costose che vostra moglie vi fa gratis.”) ed un paio di esilaranti battute Woody Allen ha cementato, nell’immaginario collettivo, il suo indissolubile connubio con la psicoanalisi.

E poi Freud, altro grande pessimista! Gesù, sono stato in analisi per anni. Non è successo niente. Il mio analista, per la frustrazione, cambiò attività. Aprì un self-service vegetariano” (Hannah e le sue sorelle) “Sono in analisi da quindici anni. Gli do un altro anno di tempo e poi vado a Lourdes” (Io e Annie) “Ho scritto molti saggi sulla psicoanalisi, ho lavorato con Freud a Vienna. Ci dividemmo sull’invidia del pene: Freud pensava di doverla limitarla alle donne”, “Sto curando due coppie di siamesi con doppia personalità. Sono pagato da otto persone.“ (Zelig) “La mia analista dice che devo vivere un campagna e non a New York! E io non posso! Facciamo sempre la stessa discussione. La campagna mi innervosisce: ci sono i grilli e il silenzio e non sai dove andare dopo cena e le reti alle finestre con le falene morte spiaccicate. A parte l’eventualità di visite di Manson e altre famiglie di Satana.” (Io e Annie).

Eppure, come lo stesso Allen ammette nella storica intervista-fiume a Stig Bjorkman, i suoi legami con la pratica psicoanalitica sono sempre stati ambivalenti e conflittuali: “Andai in analisi perché volevo vedere se era possibile affrontare dei problemi che avevo avuto da giovane. Nel corso degli anni, praticamente per tutta la mia vita, di tanto in tanto mi sono trastullato con la psicoanalisi e la psicoterapia. Ma l’ho fatto sempre in maniera discontinua. Talvolta sento che la cosa può essere utile, talaltra mi sembra invece di ottenere meno da essa. Insomma ho delle reazioni contrastanti.” e successivamente: “Non ci si conosce quando si è totalmente immersi nel dramma o nella fretta. Ma parlando un’ora la giorno, per molti anni, dei sentimenti, delle speranze, della rabbia, delle delusioni, con qualcuno che per mestiere l’analizza, si è costretti a conoscere meglio i propri sentimenti. La psicoanalisi libera i talenti che sono in noi. Rendiamo di più, perché non viviamo più ossessionati dalla mania di suicidio.”

Messe da parte ogni velleità di analizzare le opere di Woody Allen partendo da un approccio patografico (termine usato da Freud per l’indagine psicoanalitica delle relazioni che intercorrono tra la vita dell’artista e le sue opere) e di rileggere i film del regista newyorkese alla luce della sua infanzia, costellata dalle continue vessazioni da parte dei coetanei, o delle sue scelte affettive fallimentari (un matrimonio con Louise Lasser, naufragato quando aveva ventisei anni, una burrascosa relazione con Mia Farrow, una chiacchierata love-story con Soon –Yi Previn, la giovane figlia adottiva coreana con la quale ha convolato a nozze nel 1997) il mio tentativo sarà quello di fornire una (possibile?) rilettura, in chiave psicoanalitica, sulle motivazioni che hanno permesso al regista newyorkese di detenere un’imbattibile record; essere l’unico regista al mondo che abbia sfornato dal 1983 ad oggi una pellicola a stagione.

Nella famosa intervista concessa a Stig Bjorkman, alla domanda: “Quando esce un tuo film, stai già lavorando ad un altro?”, lo stesso Woody, candidamente, confessa: “Si, mi succede sempre. Penso al mio prossimo film persino quando ho un po’ di tempo libero durante le riprese. Penso già a cosa sarebbe interessante fare la prossima volta.” E successivamente: “Poi feci due film in uno; Zelig e Commedia sexy in una notte d’estate. Li girai entrambi contemporaneamente. Terminai il copione di Zelig e, mentre gli altri facevano un preventivo e facevano tutto il lavoro di preproduzione, io non avevo niente da fare. Stavo a casa e pensai: ”Non sarebbe divertente fare un filmetto sull’estate?” Così scrissi il copione in due settimane. Una storiella semplice, come una giornata in campagna per divertimento. E pensai: “Perché dovrei aspettare? Li realizzerò entrambi contemporaneamente. Che differenza fa?” E lo feci.” Nel corso della stessa intervista, Allen aggiunse: “Non ho mai fatto un bilancio della mia vita.! Ho sempre lavorato sodo. Non faccio altro che lavorare, e la mia filosofia è sempre stata che, se continuo a lavorare, se mi concentro soltanto sul mio lavoro, tutto il resto andrà a posto da sé. (…) Si, lavoro ogni giorno. Perfino quando non ci pensi, il tuo inconscio inventa, una volta che l’hai innescato. Poi ogni tanto mi dico: “Okay sono esausto, mi prendo un po’ di riposo.” Vado su a suonare il clarinetto o a fare qualcos’altro. Ma persino quando sto suonando o vedendo un film o altro, persino quando non ci sto pensando consapevolmente, l’inconscio si dà da fare.”

Da queste sue affermazioni non appare chiaro perché Allen sia diventato una sorta di forzato del set e cosa lo abbia spinto a dirigere, compulsivamente, un film all’anno. Alcune formulazioni proposte da Sigmund Freud potrebbero aiutarci a far luce sul singolare primato del regista di “Provaci ancora Sam”, “Io e Annie” e “Zelig”. Come è noto, il Padre della psicoanalisi, pur mostrando una totale idiosincrasia per il cinema (rifiutò un’allettante offerta di Samuel Goodwin per collaborare ad un film sulle vicende amorose famose nella storia, a partire da Antonio e Cleopatra e bacchettò duramente i suoi allievi Karl Abraham ed Hans Sacks che avevano accettato di collaborare al film “I misteri di un’anima” di Georg Wilhelm Pabst) era amante dell’arte, come testimoniano i suoi scritti su l’Edipo Re di Sofocle, l’Amleto di Shakespeare, la Gradiva di Jensen, il Mosè di Michelangelo e su Goethe, Dostoevskij e Leonardo da Vinci. Secondo le sue teorizzazioni vi è un forte legame tra le prime esperienze infantili, il rapporto con la madre e la creazione artistica, dietro alla quale si celano gli aspetti istintuali ed erotici rimossi che l’artista, in parte, sublima.

Anche se la sua prima elaborazione sul fenomeno della coazione a ripetere è presente in “Ricordare, ripetere, rielaborare” (1912-1913) e successivamente in“Inibizione, sintomo, angoscia” (1925) è nello scritto “Al di la del principio del piacere” (1920) che Freud sottolinea come l’uomo, per sua natura, sia orientato al principio di piacere ma, mediante l’utilizzo della coazione a ripetere, di fronte ai divieti imposti dal Super Io, prova a ripristinare quello stato di benessere che gli è stato negato. Lo spunto per queste riflessioni gli fu dato nell’osservare un gioco inventato da un bambino di un anno e mezzo che scaraventava, lontano da sé, in un angolo della stanza, un rocchetto di legno oggetti ed emetteva un “o-o-o”, che secondo la madre significava“fort” (via) forte e prolungato e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” (quì). Secondo Freud, l’interesse e la soddisfazione per questo gioco di sparizione –apparizione era legata al fatto che il bambino si risarciva della rinuncia della madre ogni qual volta lei se ne andava dalla stanza. Il piccolo, all’inizio era stato passivo ed aveva subito l’esperienza dell’abbandono della madre; ora invece, trasformandolo in un gioco ed assumendo una parte attiva, rendeva l’abbandono materno tollerabile. Alla luce di queste teorizzazioni si potrebbe ipotizzare che, per il regista newyorkese, sfornare ogni anno una pellicola sia espressione sia del sintomo nevrotico di cui è inguaribilmente affetto ma anche della sua illusoria modalità di auto-cura. Dirigere compulsivamente un film l’anno rappresenterebbe per Allen, come nel gioco del rocchetto del bambino illustrato da Freud, il tentativo di riparare alla precoce perdita dell’oggetto materno. A sostegno di questa tesi basterebbe citare l’esilarante episodio “Edipo- Relitto”tratto da “New York stories”, diretto nel 1989, dove il personaggio che interpreta l’asfissiante, ipercontrollante ed oppressiva madre di Allen compare e scompare nel cielo di New York. Interpretazioni psicoanalitiche a parte, messe da parte i commenti critici sulle cifre stilistiche del regista, credo che Woody Allen abbia soprattutto un grande merito; aver saputo ironizzare, con garbo e simpatia, sui limiti ed i difetti della pratica psicoanalitica, contribuendo, in questo modo ad umanizzare sia la figura dello psicoanalista che del paziente che richiede un trattamento. Del resto, a ben vedere, la figura dello psicoanalista che compare nei suoi film non è molto discordante da quella proposta da altri registi; una persona fragile, rigida, inesperta professionalmente e costantemente innamorato delle pazienti che ha in cura. A quegli psicoanalisti che protestano e che storcono il naso di fronte a queste standardizzate e seriali rappresentazioni proposte sullo schermo bisogna ricordare che il cinema è finzione ed è il luogo (magico, ancestrale, regressivo) per eccellenza dove i ruoli si scambiano, mutano e si ribaltano. E ben vengano, allora quelle pellicole, come quelle dirette dal vecchio Woody, che mettendo alla berlinal’universo psicoanalitico strappano qualche sorriso e rassicurano lo spettatore,. Play it again, Sam

 

Dalla Rivista Segno Cinema – N 158 – Luglio – Agosto 2009

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