L’infanzia è negli occhi di chi guarda: il mondo poetico dei Dardenne

19 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
L’infanzia è negli occhi di chi guarda: il mondo poetico dei Dardenne
Articoli di Ignazio Senatore sui rapporti tra Cinema e psiche
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“Sono estremamente interessato al contrasto tra i bambini e gli adulti; c’è un mondo che guarda a un altro mondo, che sta declinando ma questo nuovo mondo non sa se il suo destino sarà lo stesso. Lo sguardo di un bambino è sempre affascinante. Sembra dire: è questo che il fato ha in serbo per me? Il punto è: i bambini sono davvero puri?  Non credo. La loro innocenza sarà distrutta. I bambini sono simboli di malinconia non di purezza. Di solito i bambini compaiono nei film verso la fine per dimostrare che sta nascendo una nuova generazione. Nei miei film, invece, voglio mostrare esattamente il contrario; penso che sia la tragedia che sta sempre ricominciando, sempre e sempre…    (Gianni Amelio)

“Rispetto all’importanza che ha nella vita quotidiana, il bambino al cinema è poco rappresentato. Naturalmente esiste un certo numero di film con bambini, ma pochi film “sui” bambini. Perché? Semplicemente perché non ci sono divi bambini. Poiché i film sono commercialmente costruiti sull’esibizione di attori famosi, il bambino non può essere utilizzato che in sovrappiù, ai margini dell’azione e spesso in funzione decorativa.”   (Francois Truffaut)

“L’infanzia finisce quando capiamo cos’è la morte” (da Kuang Fang – Uninhibited – 2004)

 “Non ho mai rappresentato un bambino in un mio film anche se i miei film sono popolati da bambini. Tutti i miei bambini sono sempre degli adulti mascherati, delle proiezioni dell’adulto, qualche volta addirittura delle proiezioni consapevoli.” (Gianni Amelio)

 

Alzi la mano chi ama la cinematografia belga. Poco strombazzata dalla critica e spesso misconosciuta al largo pubblico deve la sua fortuna alle pellicole di Andrè Delvaux (Una sera…un treno – 1968,  L’opera in nero– 1988) di Jaco Van Dormael (Toto le heroes. Un eroe di fine millennio – 1990,  L’ottavo giorno – 1996) di Frederic Fonteyne (Una relazione privata – 1999, La donna di Gilles – 2004) ma soprattutto a quelle di Jean Pierre e Luc Dardenne.Schivi e riservati, con una lunga esperienza di documentaristi alle spalle, i due registi di Awris pur sfornando nella loro lunga carriera solo cinque film (un sesto Le silence de Lorna è stato appena presentato all’ultimo di film di Cannes) hanno mietuto diversi premi, vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes con Rosetta (199) e bissato lo stesso successo con L’enfant Una storia d’ amore nel 2005. Apartire dal loro primo lungometraggio Le promesse (1996) film sui problemi della disoccupazione e dell’emarginazione visti con gli occhi di un’adolescente, i Dardenne si sono sempre distinti per la loro personalissima cifra stilistica. Nel loro cinema, essenziale, asciutto, senza svolazzi, né orpelli non c’è spazio per la retorica, né per i sentimentalismi. Cantori dei diseredati e degli emarginati, i Dardenne si limitano a mostrare le umane sofferenze senza giudicare, condannare o prendere posizione. Più che sposare il cinema eroico, fatto di muscoli, di sudore e di arrabbiata ribellione, caro al cinema arrabbiato inglese, impaginare romantici e ribellisti road-movie tipici dei registi a stelle e a strisce, disertati intellettualismi, le asfittiche riflessioni sulle crisi delle coppie borghesi e gli incolori e sbiaditi teen.-movie, i Dardenne lasciano sfilare sullo schermo un’umanità pulsante e sofferente che non può che esploderti in faccia. Con la loro macchina a spalla inseguono, pedinano, braccano, non danno tregua ai protagonisti che finiscono per essere denudati delle loro emozioni più profonde. Il loro cinema non è elettrico, né sincopato, stucchevole o sentimentale ma, autarchico ed essenziale. Senza concedere nulla allo spettatore il loro sguardo è fatto di lunghi piani sequenza, di dialoghi distillati fino all’essenziale, di un insistente dilatazione dei tempi narrativi e di trame scarnificate fino all’osso, non ingolfate con inutili sottostorie. Rosetta, la pellicola che nel 1999 tributa loro il primo successo internazionale, è già il loro manifesto poetico e narra di una sedicenne (Emilie Dequenne) che vive con la madre (Anne Yernaux) una sbandata sempre mezza ubriaca in una roulotte parcheggiata in un misero campeggio alla periferia di Seraig. Impulsiva, selvatica, istintiva Rosetta lotta con le unghie e con i denti alla disperata ricerca di un lavoro che le permetta di condurre una vita migliore e dopo essersi imbattuto in Rigaud (Fabrizio Rongione) un ragazzo affettuoso e premuroso che vende delle cialde, rivela al suo datore di lavoro che lo truffa e prende il suo posto. Ma il finale non potrà essere che melanconico, cupo e disperato.Ne Il figlio (2000) Olivier (Olivier Gourmet) uomo introverso, taciturno e silenzioso insegna falegnameria a dei ragazzi sbandati che provengono dal riformatorio. Un giorno al Centro arriva Francis (Morgan Marinne) un sedicenne volenteroso e desideroso di imparare il mestiere ed  Olivier, estremamente gentile con lui e si prodiga nel dargli mille consigli e suggerimenti. Ma Francis cinque anni prima, per rubare un’autoradio, aveva ucciso, strangolandolo, l’unico figlio di Olivier e quando lui comunica a Magalì (Isabella Soupart) la sua ex moglie che il ragazzo lavora da lui, lei dopo essere sbiancata, sviene. Olivier continua ad osservare in silenzio il ragazzo ed un giorno gli confessa di essere il padre del bambino. Il finale sarà dolorosamente spiazzante.  Non meno ipnotico e magnetico dei precedenti L’enfant Una storia d’ amore (2004). La vicenda mostra la diciottenne Sonia (Deborah Francois) ha appena messo al mondo Jimmy un bel neonato paffuto e sorridente. Bruno (Jeremie Renier) il suo compagno ventenne, ladro e ricettatore da strapazzo, vive compiendo dei piccoli furti ed è a capo di una baby gang. In città c’è chi offre una bella sommetta per un neonato e Bruno non ci pensa due volte e, dopo aver venduto Jmmy, come se nulla fosse, si presenta all’appuntamento con Sonia. Scoperta la verità, lei sviene e, ricoverata in ospedale, in uno stato d’alterata coscienza, racconta  alla polizia quanto è successo. Bruno si difende dalle accuse e, dopo aver raccontato ad un agente delle pietose bugie, per evitare il peggio, contatta i malavitosi, si riprende il neonato ma è costretto, in breve tempo, a ripagarli del doppio. Sonia non vuole più rivedere Bruno che, a corto di quattrini, organizza uno scippo. Ma Steve (Jeremie Segare) il suo piccolo complice, prima di essere acciuffato dalla polizia, cade nel fiume e lui si prodiga per metterlo in salvo e riscaldarlo dal freddo che lo sta assiderando. Sorpreso da questa inaspettata vocazione alla paternità, solo e frastornato, si consegna alla polizia e quando Sonia va a trovarlo in galera, esplode in un pianto dirotto. I Dardenne non tradiscono il loro cinema anti-retorico, fatto di dialoghi centellinati e di interminabili silenzi. Con la macchina a spalla pedinano i due protagonisti e regalano loro qualche fugace scambio di battute. Sonia, semplice e sorridente, dopo il gesto compiuto da suo amato, si spezza dentro; Bruno, sbandato e superficiale, ha imparato a vivere alla giornata e a dare un valore economico a qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Per lui tutto è in vendita; il suo Jimmy, l’inseparabile cappello e la carrozzina che trascina stancamente per tutta la città alla ricerca del miglior offerente. I Dardenne non prendono posizione e non mostrano né simpatia, né compassione per il giovane protagonista che, senza un briciolo d’emozione, come un disco rotto, per tutto il film non fa altro che ripetere a Sonia: “Ma che t’ho fatto? Ne facevamo un altro”. Sul finale, il pianto liberatorio del protagonista, rompe il clima cupo e disperato che avvolge la pellicola e lascia intravedere una piccola speranza per il futuro.

Cinema per palati fini quello di Dardenne che non diventa mai autoreferenziale, supponente o eccessivamente estetizzante, da non consigliare a chi ama i tagli e le inquadrature televisive, le lacrime che solcano i volti dei protagonisti e le storie con amanti che, tra gemiti e sospiri, si agitano tra le lenzuola.

dalla Rivista “Eidos- Cinema, Psiche ed arti visive” Numero 12

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