Compie settant’anni “Totò e Carolina”, per la regia di Mario Monicelli, commedia amara, una delle pellicole più censurate della cinematografia nostrana.
Perché tanto accanimento per un film interpretato dal “principe delle risate”?
Lo stesso Totò, sorpreso e amareggiato, per i tagli imposti al film, commentò: “Se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira che gli resta?”
Facciamo un passo indietro. In quegli anni, il Centro Cattolico Cinematografico, grazie alla fitta rete di sale parrocchiali, assume un ruolo preminente nel decretare l’ammissibilità o meno di una pellicola.
A dettare la linea Giulio Andreotti, convinto assertore che bisognava censurare quei registi che, con i loro film neorealistici, minavano la reputazione nazionale. Inoltre, Scelba, ministro degli Interni, per evitare le contestazioni di piazza, aveva alzato lo scontro contro il PCI e, imposto tolleranza zero nei confronti di chi era schierato a sinistra.
Partendo da queste premesse “Totò e Carolina” incappò, ben presto, nelle maglie della censura. Per ottenere il visto, Monicelli fu costretto a tagliare trentuno scene e oltre duecento metri di pellicola.
Il regista toscano dovette, inoltre, eliminare, i riferimenti all’anticlericalismo presenti nello script e le strizzate d’occhio al comunismo.
Il canto che intonano gli operai sul camion che intralcia il passaggio della Fiat Campagnola di Totò e Carolina, da “Bandiera rossa” divenne, infatti, il patriottico “Di qua e di là dal Piave”.
La battuta di Totò: “Il suicido non è per noi. Noi siamo povera gente. E’ fatto per i ricchi. E’ un lusso, e noi non ce lo possiamo permettercelo” fu coperta dalla colonna sonora.
I censori, invece di sottolineare i pregi estetici della pellicola e la carica di umanità del personaggio interpretato da Totò, decretarono che il film sminuiva e ridicolizzava il ruolo degli agenti di Polizia e definirono il film: “offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e prestigio delle forze di Polizia.”.
Al film fu imposto, dopo i titoli di testa, in sovraimpressione, la scritta: «Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. In altre parole, da feroce satira di costume, il film divenne una favoletta un po’ scialba.
Perchè mai il film fu così sforbiciato dalla censura? Ecco la trama. Antonio Caccavallo (Totò), autista della pattuglia di polizia, vedovo e padre di un bambino e con l’anziano padre a carico, per migliorare la misera condizione economica, sogna una promozione.
Per convincere il commissario (Arnoldo Foà) a concedergliela, nel corso di una retata a Villa Borghese, credendola una prostituta, arresta Carolina (Anna Maria Ferrero). La ragazza che, precedentemente, aveva ingerito una forte dose di sonnifero, sviene durante l’interrogatorio in caserma.
Il commissario, che teme lo scandalo, obbliga Caccavallo a riportarla al paese di origine e a riconsegnarla ai parenti.
Nel corso della vicenda, dopo varie peripezie, Caccavallo scopre che Carolina, orfana, dopo essere stata molestata dal bigotto padrone di casa, ignara che fosse sposato, si era invaghita di un uomo e, rimasta incinta, aveva tentato il suicidio.
Dopo altri colpi di scena, preso atto che nessuno vuole prendersi carico di lei, Caccavallo, l’accoglie in casa.
Nonostante il cast, composto da Mario Castellani, inseparabile “spalla” di Totò, Tina Pica e Maurizio Arena e il soggetto scritto da Ennio Flaiano, il film non ebbe il successo sperato,
Grazie alla Cineteca Nazionale e quella di Bologna e ad Aurelio De Laurentiis, il film è stato rimontato nelle parti mancanti e proiettato in una versione restaurata, (quasi) integrale, solo nel 1999.
Articolo pubblicato su Il Corriere del Mezzogiorno – 29-4-2025
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