Dark city di Alex Proyas – USA – 1998

27 Maggio 2015 | Di Ignazio Senatore

Uno spietato serial killer si aggira per Dark City uccidendo donne anziane. L’implacabile ispettore Frank Bumstead (William Hurt) è sulle tracce di John Murdoch (Rufus Sewell). L’uomo sembra essersi volatilizzato nel nulla e sua moglie Emma (Jennifer Connelly) denuncia alla polizia la sua scomparsa. Ma John è vivo ed è dotato degli stessi poteri che hanno gli Stranieri, un ristretto gruppo di eletti che domina la Terra. John è infatti l’unico umano che può “accordarsi” e resistere all’imprinting, una tecnica ideata dal dottor Daniel P. Schreber (Kiefer Sutherland), uno psichiatra che grazie a un siero cancella la memoria di un individuo, la mescola con quella di altre persone, la riprogramma all’infinito, fino a fargli perdere l’identità. Frank s’imbatte in Eddie Walensky (Colin Friels), un ispettore di polizia impazzito che trascorre le giornate in casa disegnando giganteschi cerchi concentrici e quando incrocia John comprende che non è l’assassino. John sta seguendo una impercettibile traccia mnestica: Shell Beach, un luogo di vacanza dove andava da bambino con la propria famiglia a trascorrere l’estate. Sfiderà gli Stranieri e (naturalmente) sconfiggendoli, restituirà al pianeta la libertà e la luce.

Il regista Alan Proyas sembra attraversare il giallo ma gli omicidi delle donne è solo un pretesto narrativo. Il regista fa il verso a Metropolis e a Blade runner e grazie a una magistrale fotografia ci mostra una città immersa in un buio profondo e spettrale, deprivata del più flebile raggio di luce. Il film ti rapisce per l’intensità dell’ambientazione, ma poi il ritmo cala e la tensione si spegne sempre più. Tuttavia Proyas incanta quando in apertura mostra l’intera popolazione ferma, immobile, paralizzata, in preda a un sonno profondo; il tempo di essere riprogrammata e qualche attimo dopo, al tocco di una campana, come d’incanto riprende a pulsare freneticamente. Gli Stranieri sono giganti con la voce baritonale, il cranio pelato, la faccia imbiancata e vestiti rigorosamente con un impermeabile di colore scuro, ma nonostante gli sforzi del regista, non suscitano né turbamento né inquietudine. Schreber, il folle psichiatra ideatore del progetto, ne sa una più del diavolo e nel preparare una pozione del suo siero, lo dosa sapientemente, senza lesinare un tocco di sadismo e di perversione: “Un pizzico d’infanzia infelice, una goccia di rabbiosa ribellione minorile e per concludere una tragica morte in famiglia”.

 

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