In un imprecisato futuro, i ricchi e premurosi genitori si rivolgono alla Zoe Tech, una multinazionale specializzata nell’impiantare nel cervello del neonato un microchip che registrerà ogni istante della sua esistenza. Quando il soggetto morrà, un montatore selezionerà i momenti più importanti ed emozionanti della sua vita e ne farà un film, da proiettare in una cerimonia pubblica nel corso del rememory del defunto. In questo settore, il più bravo in circolazione è Alan Hakman (Robin Williams) un tipo taciturno, immune da coinvolgimenti emotivi e maestro nel ripulire la vita del defunto da peccati, compromessi, difetti ed errori. Deila (Mira Sorvino) tenta inutilmente di scuoterlo dal suo torpore affettivo, ma per Alan tutto fila liscio. Per strada un gruppo di contestatori urla slogan del tipo: “Ricorda a modo tuo” e “Non è compito nostro vedere con le pupille degli altri. è compito di Dio e solo di Dio”; la loro scelta, radicale e assoluta, li ha spinti a tatuarsi il corpo con materiale sintetico, per poter disattivare i circuiti audio e video dei microchip che hanno loro impiantato da piccoli. Un ex montatore, passato dalla parte dei ribelli, prova inutilmente a coinvolgere Alan, ma lui candidamente si auto assolve, paragonandosi a una vecchia figura della tradizione:
“Sai chi era il mangia-peccati? Lo chiamavano in occasione di un decesso. Era un escluso della società, un emarginato. Prendevano il cadavere e gli mettevano del sale e del pane sul torace e delle monete sugli occhi. Lui mangiava il pane e il sale e si teneva i soldi come pagamento. Facendo questo assorbiva tutti i peccati del defunto, tirando a lucido la sua anima in vista del passaggio nell’aldilà”.
Ma quando gli viene affidato il compito di montare il rememory di Bannister (un alto funzionario della Zoe Tech), Alan si imbatterà in un drammatico episodio del proprio passato, che ha condizionato la sua vita.
Più che una riflessione filosofica sul tema “come lasciare ai posteri un imperituro ricordo del nostro fugace passaggio sulla terra?”, sembra che il giovane regista di origine libanese, al suo esordio dietro la macchina da presa, voglia proporre allo spettatore una meta-riflessione sull’uso del montaggio delle immagini che operiamo (inconsapevolmente) con la nostra mente, sia al cinema sia nella vita reale. “Quando siamo immersi nel buio della sala cinematografica, in che modo montiamo, nella nostra mente, i fotogrammi che stiamo vedendo?”; “In base a quale criterio operiamo dei tagli?”; “Cosa conserveremo nella nostra memoria?”; “Quali immagini cancelleremo e perché?”; “Perché mai quella determinata immagine ha innescato in noi ricordi sepolti e dimenticati?”. Peccato che Naim abbia dissipato così banalmente una storia che avrebbe potuto avere uno sviluppo narrativo diverso e che necessitava di un arredo visivo più fantastico e di un pizzico di originalità in più. Infatti dopo un inizio folgorante, il film appassisce, perde intensità e diventa sempre più appiattito intorno alla grigia e triste figura del protagonista.
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