Jake Davies, romanziere di successo, già vincitore di un Pulitzer, discute animatamente con la moglie mentre è alla guida di un’auto. E’ notte, piove, l’auto sbanda e l’impatto con un altro veicolo è inevitabile. La donna muore sul colpo e Jake si trova a dover crescere da solo sua figlia, la piccola Katie.…
Rimarranno delusi quei fan di Gabriele Muccino che hanno amato il ritmo sincopato ed elettrizzante dei suoi primi film, i suoi tagli di scena frenetici e convulsi ed il flusso ininterrotto ed ansimante di parole che finiva (quasi) per stordire e travolgere lo spettatore.
In Padri e figlie (titolo proposto al plurale e che narra, invece “solo” dell’amorevole rapporto tra Jack e la figlia Katie), il talentuoso regista romano, al suo quarto film “americano”, compone, infatti, una pellicola dai toni pacati ed ovattati, che pur strizzando l’occhio al melò, punta tutto nell’originale congegno narrativo che si sviluppa su due piani temporali, distanti venticinque anni tra loro.
Il primo si articola intorno al tenero, intenso ed affettuoso rapporto tra Jack e la figlioletta Katie, rimasti soli dopo la tragica morte della madre; il secondo, diviso in due sottostorie, mostra Katie, ormai cresciuta, che, incapace di legarsi ad un dolce ed affettuoso scrittore in erba follemente innamorato di lei, mette in atto dei comportamenti promiscui ed autodistruttivi.
Parallelamente la stessa Katie, divenuta assistente sociale, si prende cura di una ragazzina nera, orfana di padre e della madre prostituta, che, per un blocco psicologico, si è rinchiusa in se stessa e si rifiuta di comunicare verbalmente con il mondo esterno.
Con grande abilità, e senza generare nello spettatore disconnessioni, spaesamento o confusione, Muccino lascia che i due piani temporali scivolino, senza sobbalzi o increspature, in un continuum fluido e ben oleato.
Peccato però che i due piani abbiano velocità ed intensità diverse e se appassiona e commuove la modalità con la quale Jack si prende amorevolmente cura della figlioletta, appaiono poco ispirate le scene nelle quali assistiamo ai tormenti della fragile protagonista che, schiava del tragico passato, getta via la propria vita, andando a letto con dei partner occasionali, in un crescendo autolesionistico squallido e mortificante.
Egualmente la storiella con la ragazzina mutacica, seppur delicata, non decolla, sia per la prevedibilità del suo sviluppo, che per la leggerezza e l’inconsistenza dei dialoghi. Al di là di queste imperdonabili (?) imperfezioni, il regista ci regala un film (fortemente autobiografico?) che sottolinea l’importanza delle cure genitoriali nello sviluppo psicologico di un individuo.
Pur scegliendo un’ambientazione prevalentemente diurna, Muccino da “vero” regista a stelle e strisce, ci mostra le atmosfere tipiche dei bar newyorkesi, un tempo care a Edward Hopper, e non rinuncia a dei deliziosi tocchi vintage (su tutti il juke-box che irradia Close to you, scritto da Burt Bacharach ed interpretato nel ’70 dai The Carpenters).
Ma, forse, il merito maggiore del regista de L’ultimo bacio e di Ricordati di me è quello di aver resistito alla tentazione di confezionare una sorta di Kramer contro Kramer del Terzo Millennio.
La trama, infatti, mostra Jack che, dopo la morte della moglie, cade in un profondo stato depressivo, si ricovera sette mesi in una clinica psichiatrica ed affida Katie alle cure di Elizabeth, (Diane Kruger) dispotica e gelida cognata, sorella della moglie defunta.
La donna si affeziona alla piccola e, spalleggiata da William (Bruce Greenwood), il ricco marito avvocato, vuole adottarla.
Chi è in sala è convinto che assisterà ad un intrigante “legal movie” ed immagina che il povero Jack, già affetto da improvvise (e poco credibili su un piano clinico) crisi epilettiche, dovrà lottare anche contro giudici e carte bollate per evitare che gli sia strappato l’affetto della figlia. Niente di tutto questo.
A Muccino, non interessa puntare ai fazzoletti, né tenere col fiato sospeso lo spettatore e la temuta causa giudiziaria diviene solo uno degli elementi-sfondo che infarciscono una trama che mette al centro della narrazione l’inquieta ed infelice protagonista.
Un monumentale Russel Crowe, lima e sottrae la sua interpretazione senza cadere nella trappola di riproporre gesti, atteggiamenti e sguardi simili a quelli messi in campo quando si calò nei panni di John Nash, l’impareggiabile protagonista folle di A beautiful mind. E se la piccola Kilye Rogers è da applausi per la sua spontanea vitalità, meno convincente appare l’acerba e diafana Amanda Seyfried. Nel cast Jane Fonda (super-ritoccatissima) nei panni dell’agente letterario di Jake.
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