Achille e la tartaruga di Takeshi Kitano – Giappone – 2008 – Durata 119’

6 Giugno 2024 | Di Ignazio Senatore
Achille e la tartaruga  di Takeshi Kitano –  Giappone – 2008 – Durata 119’
Schede Film e commento critico di Ignazio Senatore
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Kuramochi (Akira Nakao), ricco collezionista d’arte, sposato con una giovane donna (Mariko Tsutsui), ha un unico figlio, il piccolo Machisu (Reo Yoshioka), un ragazzino talmente appassionato di pittura che trascorre le intere giornate a disegnare.

Kuramochi ha un tracollo finanziario e s’impicca. La moglie affida allora il piccolo allo zio paterno, un uomo rude, violento e insensibile, che lo costringe a dei lavori umili e faticosi.

Ma Machisu, invece di dare il mangime alle galline, preferisce immortalarle nei suoi disegni e, quando la madre si suicida, lo zio lo spedisce di corsa in un orfanotrofio.

Divenuto adolescente, Machisu (Yurei Yanagi ), desideroso di conoscere più a fondo la pittura dei grandi Maestri del colore, si iscrive ad un Istituto d’Arte dove, insieme agli amici di corso, prova a inventare nuove e sempre più insolite tecniche pittoriche.

Di tanto in tanto prova a vendere i quadri naif che ha realizzato a Kikuka (Masatoh Ibu), un saccente gallerista che, con le sue critiche fredde e spietate, lo umilia e lo accusa di copiare pedissequamente i grandi pittori del passato.

Machisu non si dà per vinto e, divenuto anziano (Takeshi Kitano), grazie alla collaborazione della moglie Sachiko (Kanako Higuchi), dipinge freneticamente un quadro dietro l’altro, sperimentando tecniche sempre più improbabili e bizzarre.

Il severo Kikuka non muta il suo giudizio sulla sua produzione artistica, ma il testardo, e cocciuto Machisu ….

Con questo film fantasioso e divertente, in perfetto equilibrio tra comicità e tragedia, Kitano (Hana Bi Fiori di fuoco, L’estate di Kikujiro, Brother, Zatoichi…) continua il personale discorso sull’arte e impagina un piccolo capolavoro che gronda di humour e di poesia.

Sin dalle prime battute non possiamo non intenerirci nel vedere il piccolo Machisu, che a scuola, più che far di conti o imparare la grammatica, si diletta a fare i ritratti dei professori.

Un basco, regalatogli da un’artista, amico del padre, e dal quale non si separa mai, diviene l’augurio (e il segno) che un giorno anche lui apparterrà all’elite dei pittori.

La continua ricerca di uno stile personale diverrà per lui un’ossessione che lo spingerà a sperimentare, con il sostegno della moglie, nuove esilaranti e surreali invenzioni.

Le scene caricaturali che mostrano Machisu che spara con una specie di fionda colori sulla tela o che costringe la paziente Sachiko a colorare dei tessuti in sella a una bici sono, infatti, in bilico tra il commovente e il ridicolo.

Con il pretesto di mostrare i disperati tentativi di Machisu per compiacere Kikuka, Kitano, (che nella terza parte interpreta il protagonista) con ironia, omaggia Klee, Mondrian, Wahrol, Mirò, Pollock, Hundertwasser e Basquiat e le mode artistiche susseguitesi nel ‘900.

Non manca un ironico e graffiante attacco contro il mondo dell’arte, regolato da galleristi e mercanti d’arte, rigidi, ottusi e disposti, pur di guadagnare, a raggirare gli ignoranti compratori, millantando le inesistenti doti degli artisti che assistono.

Con questa corrosiva critica nei confronti di chi raggiunge fama e successo, Kitano non delude i suoi fan e chiude la vicenda con un finale struggente. Il titolo, un chiaro riferimento al famoso paradosso di Zenone lascia aperta l’ipotesi che, solo dopo aver bruciato i suoi quadri, Machisu riuscirà (forse) a vendere una sua opera, che non è altro che una banale lattina affumicata dal fumo.

Curiosità: i quadri sono stati dipinti dallo stesso Kitano.

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