Anno 1400. Russia. Andrej Rublev (Anatolij Solonitsyn), Kirill (Ivan Lapikov) e Daniil il Nero (Nikolaj Grinko), tre monaci pittori, abbandonano il monastero della Trinità e di San Sergio per recarsi a Mosca.
Qualche anno dopo Kirill raggiunge Teofane il Greco che lo invita ad andare con lui a Mosca. Kirill, dapprima accetta poi, convinto di non avere talento, decide di lasciare l’abito monastico.
Primavera del 1408: Andrej, Daniil ed altri collaboratori, scoprono che nel bosco si sta svolgendo un rito pagano e spiano uomini e donne che, nudi, celebrano la festa dell’amore.
Scoperto, Andrej è legato ad un palo, ma una donna (Irma Raus Tarkovskaja) lo libera, lo bacia e risveglia in lui sensi ormai sopiti. Andrej ed altri pittori dovrebbero completare l’affresco de Il Giudizio universale nella cattedrale di Vladimir, ma Andrej, sconvolto dal clima di violenza che lo circonda, paralizzato da tanta crudeltà, si rifiuta di dipingere scene che terrorizzerebbero chi le osserva.
Nell’autunno del 1408, il fratello gemello del Gran Principe, si allea con i Tartari, saccheggia e brucia la cittadina di Vladimir. Per salvare la donna, divenuta ormai muta, che sta per essere violentata da un tartaro, Andrej uccide l’uomo e, per punirsi del delitto commesso, decide che non parlerà, né dipingerà più.
Passano gli anni ed Andrej è di nuovo nel monastero di Andronikov, assieme alla muta, ma lei è rapita da un tartaro ed Andrej, diventa sempre più cupo e chiuso in se stesso. Sul finale, riprenderà a dipingere e si allontanerà con il giovane Boriska.
Composto da otto capitoli, un prologo e un epilogo, il film si snoda nell’arco di più di vent’anni ed è un poderoso affresco della Russia del 1400.
In ogni “quadro” i protagonisti sono diversi ma, a ben vedere, sono tre le tracce che s’intrecciano nel corso della vicenda; gli orrori compiuti dagli uomini in guerra e che, senza rimorsi, sgozzano, accecano e violentano uomini e donne; i rapporti tra artisti e potere e, infine, un filone mistico, testimoniato dalla lettura di diversi brani della Bibbia e dalle riflessioni sui rapporti tra l’uomo e Dio.
Il regista russo (Solaris, Lo specchio, Nostalghia…) dirige la vicenda, in maniera rigorosa, con uno stile asciutto ed essenziale, fa largo uso di piani sequenza e lascia sullo sfondo gli affreschi e le icone dipinte dai diversi pittori e pone al centro della narrazione la figura di Rublev, un frate tormentato, che muove delle critiche alle radicalizzazioni religiose del tempo.
Un generoso taglio in sede di montaggio avrebbe reso più fruibile il film e più che un biopic sul noto pittore russo, sin dalle prime battute, si comprende che a Tarkovsky interessa mostrare come la creazione artistica sia influenzata dal periodo nel quale è prodotta.
Ossessionato dalla ricerca del divino, il regista mostra solo sul finale, le immagini delle icone dipinte da Rublev e sembra rammentarci come l’arte sia uno dei pochi mezzi che può salvare il mondo dagli orrori e aiutarlo a elevarsi a Dio. Bianco e nero da favola.
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