Ignazio Senatore intervista Carlo Verdone

16 Dicembre 2015 | Di Ignazio Senatore
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“Manuale d’amore” è stato un successo al botteghino e ti ha fruttato anche un David di Donatello per la tua interpretazione. Ti aspettavi questo successo e questo riconoscimento?

 “Sono rimasto felicemente sorpreso anche perché il film parla di una situazione universale: come bisogna comportarsi quando si è abbandonati.”

In questo film hai abbandonato quel cliché di personaggio nevrotico che ha caratterizzato la tua carriera di regista.

“Chi mi conosce lo sa: io sono un grande osservatore dei linguaggi e dei costumi. Ad esempio l’idea del film “Ma che colpa abbiamo noi” era nata da un episodio vero, da una cosa che mi era capitata all’inizio degli Anni Novanta. In quel periodo dormivo poco ed andavo in cura da un professore molto saggio che mi stava facendo una cura con delle medicine per cercare di  farmi dormire meglio. Al quarto appuntamento, ero riuscito a dormire sei ore. Vado al suo studio e la portiera mi fa. “E’ morto”. Getto l’occhio nel cortile e vedo una quindicina di persona disperate perché il professore li aveva lasciato con la cura a metà. Adesso che fanno, mi dissi tra me e me? Mi è tornato in mente questo episodio e l’ho messo nel film. E’ un episodio triste ma è successo veramente. Prima di “Ma che colpa abbiamo noi”, avevo in “Maledetto il giorno che ti ho incontrato affrontato il tema dell’analisi ed i due personaggi mostrano all’interno del film una grande conoscenza sia della psicoanalisi che della farmacologia. Quello della psicoanalisi è un argomento universale e forte: attraverso una persona fragile escono fuori i colori di un personaggio. In un film brillante si ride; non siamo al livello della psicoanalisi mostrata da Hitchcock, da Bunuel o da Bergman ma la commedia sottolinea, però, degli aspetti diversi. Il primo è stato Woody Allen che ha sottolineato  nelle sue commedie il momento di grande fragilità di una New York intellettuale e le sue nevrosi. L’analisi entra nel cinema ed un personaggio pieno di nevrosi può essere interessante per le sue debolezze. Ho sempre raccontato la psicoanalisi nei miei film, anche perché i tic entrano nel film ed il film ha una funzione terapeutica. “Maledetto il giorno che ti ho incontrato” è stato una sorta di autoanalisi che m i sono fatto. In quel film ho raccontato tanto di me stesso, come del sacchetto di farmaci che mi portavo appresso quando viaggiavo. Mi ha aiutato a far ridere il pubblico ma faceva riconoscere il lato debole che ci apparteneva. Non ho avuto vergogna e mi sono raccontato con molta sincerità. E’ il film più autobiografico che ho fatto e non a caso inizia con un sogno.”

Quanto c’è di vero nel fatto che si dice che tu sei superstizioso?

“In quel film poi mi sono successe delle cose incredibili. Il luogo stesso, la Cornovagliaera già speciale di per sé, una terra magica nel 600 e nel Medio Evo. Ero torturato da un numero, il 22 che ha scandito tutta la lavorazione del film. Sono partito dall’aeroporto al Gate 22, in aereo avevo il posto numero 22, all’albergo la stanza 22, ero al 22 chilometro di distanza dalla città principale della Cornovaglia. Un numero che mi ha portato bene. Una sera andai alla Galleria d’arte ed incontrai una scrittrice. La sinora venne da me e mi disse: “Perché ha paura del numero 22”? In quella galleria c’era stata una mostra sul 22 fatta da Bruno Moretti e da una scrittrice. Non sono superstizioso ma una volta a Praga, tre anni dopo, nel 1993. Scena principale. Asia che deve attraversare la strada ed è sulla sedia a rotelle. Inizio a girare e la carrozzella si blocca nelle rotaie mentre il tram stava per sopraggiungere. Il tram portava il numero 22. Cambio il numero del tram, rifaccio la scena ma mi blocco con la schiena.”

Tuo padre è un affermato professore di Storia del cinema. Quanto ha influito nella scelta della tua carriera?

“Papà mi ha spinto all’Università a Lettere Moderne ma il mio indirizzo era Storia delle religioni. Il grande motore che mi ha spinto al teatro furono Rossellini, Fellini, De Sica ma quella che mi invogliò più di tutti ad affrontare il palcoscenico fu mia madre. Il giorno del mio debutto stavo veramente male e lei mi disse: “Vai frignone, un giorno mi ringrazierai” e mi diede un calcio nel sedere.”

Il padre che si vede in “Ma che colpa abbiamo noi” è paragonabile al tuo?

“Per carità! Mio padre è la persona più malleabile, serena e simpatica che conosca. Non c’è niente di autobiografico nel film. Lì ho dovuto creare un ruolo per una persona che è molto lontano da mio padre ma che serviva al personaggio che interpretavo; un padre autoritario, molto possessivo che mi umiliava e solo così potevo, alla fine del film, riscattarmi e ribellarmi da lui.

Per l’intervista completa si rimanda al volume “Psycho cult” di Ignazio Senatore (Centro Scientifico Editore-2006)

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