Giovanni (Enrico Lo Verso), analfabeta siciliano, fedele al ruolo di fratello maggiore, si è sacrificato per permettere a Pietro (Francesco Giuffrida) il più piccolo tra i due, di studiare. Giovanni lo raggiunge nel capoluogo piemontese e, dopo aver lavorato per due soldi, invece di essere sfruttato e maltrattato, mette su un’agenzia, al limite della legalità, che ha lo scopo di trovare lavoro ed alloggio agli altri immigrati che giungono a Torino. Pietro non ama studiare, marina spesso la scuola ma, temendo la reazione del fratello, gli lascia credere di essere il primo della classe. Passano gli anni; Pietro ha voltato pagina ed ha conseguito il diploma da privatista; Giovanni, non facendosi scrupolo di sfruttare gli altri immigrati, ha consolidato la propria posizione economica e sposato Lucia (Rosaria Danzé), un ex prostituta. Una sera Giovanni accoltella un uomo, Pietro si incolpa dell’omicidio ed é rinchiuso nel carcere minorile. Qualche anno dopo un educatore (Fabrizio Gifuni) accompagna Pietro da Giovanni ma i due fratelli sembrano ormai emotivamente distanti.
Con questo film tragico ed amaro, Amelio chiude idealmente la trilogia iniziata con Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994) e lascia che la vicenda, per certi aspetti autobiografica, racchiusa in sei quadri (Arrivi, Inganni, Soldi, Lettere, Sangue, Famiglie) si dipani nell’arco di sette anni, dal 1958 al 1964. Il regista ambienta la vicenda in una Torino fredda, umida e piovosa e, non volendo comporre un saggio sociologico sullo sfruttamento capitalistico della forza lavoro, né proporre una riflessione sull’ondata degli immigrati meridionali giunti nel capoluogo piemontese sul finire degli Anni Cinquanta con il miraggio di lavorare alla Fiat, mette al centro della narrazione l’ambivalente e conflittuale amore fraterno. Amelio contrappone Giovanni, una persona ignorante, testarda, autoritaria al più sensibile, romantico e disilluso Pietro, un ragazzo incapace di sottrarsi alle rigide ed asfissianti imposizioni del fratello e di mollare, come vorrebbe, gli studi. Ad un emigrato appena arrivato a Torino, lo stesso Pietro, rassegnato, confida: “Io studio, devo fare il maestro. Glielo detto a lui; non buttare sangue per questo diploma, ma lui no. C’ha la testa dura, mio fratello.”
Costretto, controvoglia, a recitare il ruolo dello studente modello, dopo aver chiesto al bidello la scolorina per cancellare un due nel registro, di apporre qualche firma falsa sul libretto delle giustificazioni, gli propone, il giorno in cui il fratello si presenta a scuola per il colloquio con gli insegnanti, di fingersi il professor Ferraris, docente di lettere e di elogiarlo per la sua bravura. Ma il vero snodo narrativo del film é legato alle trappole che i forti legami di sangue possono innescare e che spinge, inevitabilmente, il più debole a soccombere ed a immolarsi, in nome di una legge atavica, tacita e non scritta, che viene da lontano; Pietro, infatti, finirà in carcere al posto del fratello che per tutta la durata del film, non lo ringrazierà per il suo “eroico” sacrificio. Amelio sceglie una narrazione senza scatti, che s’ispira agli stilemi delle pellicole neorealiste che tanto lustro hanno dato alla cinematografia italiana, ma non mancano le pagine di grande cinema; su tutte la scena che mostra Pietro, seduto tra i banchi di scuola, mentre favoleggia sulle note di La mer di Charles Trenet e quella che mostra gli emigrati che prendono lezioni di ballo, per inserirsi a pieno titolo nel tessuto sociale e danzano, con in sottofondo, il brano “Cucara cha cha cha” cantato da Perez Prado. Il titolo del film allude alla rubrica umoristica pubblicata un tempo dalla Domenica del Corriere ed equivalente ad una sorta di “Come eravamo”. Uscito con sottotitoli in italiano per rendere più comprensibile i dialoghi in dialetto meridionale. Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia 1998.
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