Il valente psichiatra Martin Dysart (Richard Burton) ha in cura Alan Strang (Peter Firth), un adolescente che in una notte ha accecato, in una scuderia, sei cavalli con un ferro acuminato. Dopo essere riuscito a trovare un varco nella sua follia, Dysart scopre che il ragazzo, incapace di vivere nel mondo reale, venera un dio chiamato Equus che lo costringe a cavalcare in piena notte in un bosco e a compiere un rituale dal sapore magico. Lo psichiatra si troverà di fronte a un dubbio: se smonta il suo delirio, il ragazzo sopravviverà o diventerà l’ombra di se stesso?
Il film, lento, statico e prolisso, è inframmezzato dalle amare riflessioni del dottor Dysart, ripreso quasi sempre con ingombranti primi piani. Al di là dei suoi limiti strutturali, il film affascina non tanto per la farneticante storia di Alan (troppo cerebrale e complessa), ma soprattutto per la dolente figura del dottor Dysart, un uomo ormai alla deriva, sia da un punto di vista umano (il suo matrimonio è in frantumi) sia professionale. Come da copione, all’inizio del film non vuole prendere in cura il ragazzo, ma cede di fronte alle massicce pressioni di Hester, una sua cara collega. L’incontro con l’adolescente metterà invece in moto sopite emozioni e Dysart inizierà, giorno dopo giorno, a fare i conti con se stesso. Sullo sfondo, Frank e Dora, i disturbati genitori del ragazzo, con la classica madre bigotta, ossessionata dalla religione e un padre succube della moglie. Tratto dal testo teatrale di Peter Shaffer.
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