Fellini e Leone, quei film mai girati a Napoli

25 Gennaio 2020 | Di Ignazio Senatore
Fellini e Leone, quei film mai girati a Napoli
Senatore giornalista
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Cosa lega tra loro Federico Fellini e Sergio Leone, due tra i più grandi maestri del cinema internazionale? Non certo il loro luogo di nascita, né tantomeno le loro cifre stilistiche (Leone è il cantore del mito, Fellini di un cinema onirico e sospeso nel tempo). Eppure entrambi immaginavano di girare un film a Napoli.

Un desiderio quello di Leone, più “comprensibile”, dal momento che il padre Vincenzo, regista e attore del cinema muto, amico di Matilde Serao, Edoardo Scarfoglio e Salvatore Di Giacomo, era nato a Torella dei Lombardi, piccolo paesino irpino. Più noto con il nome d’arte Roberto Roberti, Vincenzo Leone diresse a Napoli diversi film interpretati dalla “diva” Francesca Bertini, (“La piccola fonte”, “Eugenia Grandet”, “La fanciulla di Amalfi”) ed i successivi “Napoli che canta” (1926), “Assunta Spina” (1930) e “Il folle di Marechiaro” (1952). A testimonianza del forte legame con il padre, Sergio Leone, quando diresse “Per un pugno di dollari” nel 1964, non a caso, lo firmò con lo pseudonimo Bob Robertson, ovvero “Roberto figlio di Roberto”.

Intervistato da un settimanale sportivo, alla vigilia del primo scudetto del Napoli, gli fu chiesto di immaginare come avrebbe girato un ipotetico film nel capoluogo campano e descritto quell’aria di festa che c’era allora in città, invasa di vessilli azzurri, di parrucche ed effigi “maradonaiane”, tutte obbligatoriamente intinte di celeste vernice. La sua idea era quella di non seguire un preciso copione, ma di lasciare  che dei piccoli episodi, ad uno ad uno, avrebbero offerto lo spunto per una successione ininterrotta di scene-madri. Immaginava Napoli come protagonista, una Napoli bloccata, questa festa collettiva, da zone off-limits, come nel dopoguerra, “un ingorgo senza sonoro animato dallo sventolio di bandiere, un immenso telone azzurro che ricopre la città.” La sua idea era quella di non impiegare personaggi noti come interpreti, perché la coralità di stampo neorealista avrebbe dovuto avere il sopravvento. Il finale poi sarebbe stato poi fantastico: “immaginerei una città assediata dalla sua stessa passione, un popolo attonito con gli occhi rivolti verso il cielo, in attesa di una messianica rivelazione; evocato da supplici preghiere arcane, immagino il genio del destino apparire con la mitria di San Gennaro e la chioma di Maradona fra i fuochi iridati del golfo.”

Dal canto suo, Federico Fellini, di cui corre il centenario della nascita quest’anni, non ha mai celato la sua adorazione per Totò e la sua spiccata simpatia per gli attori napoletani. Non a caso diresse Peppino De Filippo nell’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio” di “Boccaccio 70”, Nuccia Fumo e Pupella Maggio in “Amarcord”, Giacomo Furia e Dante Maggio ne “I Clown”, Antonino Iuorio in “Ginger e Fred” e Franco Iavarone in “Prova d’orchestra” e  ne “La voce della luna”. Affascinato da Napoli, era tentato di fare un ritratto della città. “Non un film come “Roma”, episodico, frammentario, ma qualcosa di più compatto, possibilmente di più profondo.” Un viaggio che lui stesso definì “agli inferi”, per cogliere ciò che Napoli ha “di inquietante, di pauroso e di consolatorio insieme.”  Una Napoli, la sua, come avrebbe potuto vederla Kafka, “una stratificazione di civiltà, di splendori e di miserie, un labirinto della storia.” Infine un ultimo desiderio: “vorrei restituire quel tipo strano di uomo che è il napoletano; questa creatura umana, tenera e luciferina, nella quale follia e saggezza convivono in un equilibrio miracoloso.”

Due film che certamente avrebbero nutrito le pupille degli spettatori e che avrebbero ancor di più accresciuto la fama dei due registi visionari nel mondo.

Articolo pubblicato su il Corriere del Mezzogiorno – 25.1.2020

 

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