Figli di un Dio minore (Children of a lesser God) di Randa Haines – USA – 1986 – Durata 110’

27 Aprile 2021 | Di Ignazio Senatore

Il professore James Leeds (William Hurt) approda alla Governor Kittrige School, un istituto per audiolesi, diretto da un direttore metodico e tradizionalista. Ben presto James attira le simpatie degli studenti con i suoi moderni metodi di insegnamento e s’innamora di Sarah Norman (Marlee Matlin) un’inserviente sordomuta dalla nascita e ricoverata in quello istituto fin da quando aveva cinque anni. Dopo le iniziali diffidenze, Sarah si lancia a capofitto nella relazione, abbandona il lavoro e va a vivere con James. Tutto sembra filare liscio ma lui vuole costringerla ad imparare a leggere il labiale dell’interlocutore ed a non esprimersi soltanto con il linguaggio dei gesti. Sarah torna a casa dalla madre, trova un nuovo lavoro ma alla fine ritorna tra le braccia di James.

Film discontinuo, furbetto e stilisticamente molto povero che ha il coraggio di mettere in scena il dramma degli audiolesi e non solo. Sin dalle prime battute la regista mette le carte in tavola ed il flemmatico direttore dell’istituto, dopo aver dato una scorsa al curriculum di James, gli dice: “Non dubito affatto che lei abbia molte risorse e molte ie nuove. Le avevo anch’io , ma noi non vogliamo cambiare il mondo da queste parti. Cerchiamo solo di aiutare qualche ragazzino sordomuto a cavarsela un po’ meglio. Niente altro. Tutto il resto è fumo negli occhi. Sono stato abbastanza chiaro?” James va a trovare la madre (Piper Lauire) di Sarah per comprendere come mai lei abbia smesso di provare ad articolare suoni. La risposta della donna è raggelante:“Quando provava a parlare diventava orribile, faceva dei versi orrendi. La gente la prendeva in giro, gli altri ragazzini, gli amici della sorella. Ed allora lei non ha più tentato di parlarle.”

Rapito dall’intelligenza, vitalità e forza di volontà di Sarah, James le chiede del suo passato e lei, senza peli sulla lingua, si racconta: “Il sesso è sempre stata una cosa che potevo fare bene al pari delle ragazzi normali. All’inizio lasciavo che mi prendessero solo perché lo desideravano. Dopo un po’ quei ragazzi facevano la fila e mia sorella controllava il traffico e niente presentazioni e niente discorsi. Si andava in un posto al buio e.. Non mi invitavano neanche a bere una Coca Cola prima. Fin dal primo momento ridevano di me. Pensavano “povera verginella sorda, sicuramente allargherà le gambe”. Il film procede senza scosse e, anche se non vira mai nel patetico, nel complesso appare melenso ed appiccicoso. Più che una riflessione sul complesso mondo degli audiolesi il merito del film va ricercato nella scelta della regista di utilizzare la sordità della protagonista come una metafora più ampia dell’incomunicabilità dei personaggi, incapaci di guardarsi negli occhi, di lasciar pulsare i propri cuori e scambiarsi emozioni. Per rendere ancora più credibile la pellicola la regista al suo esordio dietro la macchina da presa, affida il ruolo degli studenti a dei soggetti sordomuti. Tratto da un dramma teatrale di Mark Medoff che aveva vinto nel 1980 il Tony Award come migliore spettacolo teatrale. Il titolo è un riferimento ad una poesia di Alfred Tennyson. Premio Oscar 1986 a Marlee Matlin come migliore attrice.

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