Figlio mio, infinitamente caro di Valentino Orsini – Italia – 1985 – Durata 114’

19 Febbraio 2020 | Di Ignazio Senatore
Figlio mio, infinitamente caro di Valentino Orsini – Italia – 1985 – Durata 114’
Schede Film e commento critico di Ignazio Senatore
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Pisa. Una sera l’avvocato Antonio Morelli (Ben Gazzarra), vedovo, mentre sta passeggiando con Stefania (Mariangela Melato), la sua compagna, scopre che Marco (Sergio Rubini), il figlio ventiduenne, è riverso a terra privo di coscienza, per l’effetto di sostanze stupefacenti, .

Superato lo sbandamento iniziale, Antonio, che non sospettava minimamente che il figlio si drogasse, assume nei suoi confronti un comportamento severo ed autoritario e prova, senza successo, a imporgli delle regole ferree.

Dopo aver fatto la voce grossa e minacciato di denunciarlo alla polizia, sceglie le maniere forti e lo lega a letto; Marco non si scompone, lo sfida, lo irride, gli prosciuga il conto in banca e, tenendolo in pugno, minaccia di suicidarsi ogni qual volta non gli dà i soldi per comprare la sua dose quotidiana.

Dopo aver provato, invano, a giocare la carta della comprensione ed a dissuaderlo, con la complicità di Francesca (Valeria Golino) la ragazza di Marco, anche lei tossicodipendente, deluso, frustato e rassegnato, dà un calcio alla professione e decide di bucarsi insieme a lui.

Abbattute ogni barriere, Antonio, Marco e Francesca decidono di vivere insieme, in una sorta di “menage a trois”. Antonio per pagare le dosi, depaupera ogni ricchezza, vende i mobili di casa e poi la storica casa del 600 di sua proprietà.

Marco taglia la corda; Francesca si prostituisce per poter comprare la roba, e muore poi per overdose.

Solo e senza amici, Antonio precipita ancor più nel baratro; Marco, uscito dal tunnel della droga dopo un ricovero in una comunità, aiuterà il padre a disintossicarsi.

Più che dirigere un film d’impianto sociologico sulla droga e sulle nefaste ricadute delle sostanze stupefacenti sugli adolescenti, il regista impagina un melò sofferto, dolente ed un po’ retorico che ruota intorno all’amore di una padre che, per far sentire la propria vicinanza affettiva, diventa complice rassegnato del figlio e scende insieme a lui negli inferi.

La pellicola stilisticamente piatta, ma abbastanza coraggiosa per il cinema italiano di allora, prova a far luce sulle complesse problematiche legate al rapporto tra un affermato professionista ed un figlio sbandato ed incapace di controllare le proprie spinte autodistruttive.

Orsini spiazza lo spettatore per la decisione estrema di Antonio di bucarsi insieme a Marco e lo descrive come un padre che, chiede a Francesca le motivazioni che hanno spinto il figlio a drogarsi ma lei, laconicamente, gli risponde: “Per essere diversi, per sentirsi qualcosa, per noia. C’è sempre una ragione. I ragazzi vogliono provare di tutto, sono abituati a spendere, a comprare, viaggiano, fanno esperienze”.

Inizialmente la scelta di Antonio di bucarsi sembra essere dettata dalla rabbia, dall’impotenza e dalla disperazione ed appare come un’estrema, ma isolata provocazione rivolta al figlio.

Con lo scorrere dei fotogrammi, il regista però non approfondisce i motivi che spingono Antonio a proseguire la scelta tossicomanica ed il suo “cupio dissolvi” appare artificiale, di facciata e francamente poco credibile.

Fin troppo semplicistica, infine, la scelta del regista di mostrare Marco che si tira fuori magicamente dalle secche della droga e, completamente ristabilito, prova ad aiutare il padre a disintossicarsi.

Il titolo del film rimanda alle prime righe di un’accorata lettera che Antonio scrive, nelle prime battute del film a Marco e che, sul finale, viene ripresa, a parti invertite, dal figlio. Gazzarra, fin troppo legato e narciso, è surclassato dalle eccellenti prove dei giovanissimi Rubini e Golino. Scritto con Vincenzo Cerami e Giuliani G. De Negri.

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