Nel corso di una cerimonia mistica in un ashram in India, Ruth Baron (Kate Winslet) una giovane ragazza australiana, entra in uno stato di alterata coscienza. Abbracciata la religione professata da un guru ed in pace con se stessa, decide di non far più ritorno a casa. I familiari sono allarmati, la madre vola da lei e la convince a tornare in patria. Al suo arrivo trova P.J. Waters (Harvey Keitel) un sedicente de-programmatore convinto che in tre giorni le farà ritrovare l’equilibrio perduto. Nel corso del primo incontro l’uomo prova a scuotere le sue certezze ma Ruth lo rintuzza e difende a spada tratta le proprie convinzioni religiose ma già dal secondo giorno crolla ed, abbandonate le credenze misticheggianti, s’innamora perdutamente di lui ed al termine dei tre giorni ritrova se stessa. Quando suo padre se ne scappa di casa con la segretaria, Ruth ritorna in India con la madre.
Il film verboso ed insopportabilmente lento è scandito da dialoghi banali e leziosi. La vicenda parte alla grande con una bellissima l’immagine di Ruth che, dopo essere stata ipnotizzata dal guru, è circondata da una luce accecante e da una serie di immagini in rapida successione disposte a raggiera intorno alla sua testa. Ma la regista ben presto abbandona i lidi contemplativi e raffredda la narrazione proponendoci una patetica love-story tra i due protagonisti, condita (fin troppo) dalle loro poco edificanti effusioni amorose. Le parole prendono il sopravvento sulle immagini e la pellicola si chiude con un finale fiacco ed affrettato. Più che una ragazza alla ricerca di se stessa, Ruth appare vuota, superficiale; J.P. Waters è, invece, una persona patetica, fragile ed ossessionata dalla paura di morire e di invecchiare. Per recuperare Ruth alla realtà utilizza un programma quanto mai discutibile: “Primo giorno: Isolarla, risvegliare la sua attenzione, conquistare il suo rispetto. Secondo giorno: Togliere di mezzo la sua roba (vestiti, sari, libri che le richiamano all’esperienza mistica) innervosirla e provocarla e successiva visione di un filmato sulle sette. Terzo giorno: Lacrime, singhiozzi e restituzione della fanciulla alla famiglia.” Sin dal loro primo incontro P.J. Waters non si pone mai nella posizione d’ascolto, non prova ad interrogarsi su cosa abbia spinto Ruth ad abbracciare quella religione ma si rivolge a lei con un tono dispotico, aggressivo e di supponenza. Sprovvisto da un punto di vista teorico di una cultura in campo religioso, imposta la sua rozza e dozzinale “terapia” più sul terrore che sulla comprensione. Più che la descrizione di una “deprogrammazione” mentale, la regista vuole mettere, più banalmente, in campo la vicenda di due persone sole e disperate ma finisce per rendere indigesta la vicenda. Curiosità: la regista inserisce nel film un piccolo documentario sulle diverse sette, compreso una piccola intervista a Manson.
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