Savannah Wingo (Melinda Dillon) scrittrice di successo tenta il suicidio; Tom (Nick Nolte) il fratello gemello va a farle visita e s’imbatte nella coriacea dottoressa Susan Lowenstein (Barbra Streisand) che l’ha in cura. I due si studiano, si pizzicano, si fronteggiano ma, a poco a poco, la dottoressa spinge Tom a scavare nel proprio passato. Dopo infinite resistenze l’uomo riesce a confessarle un evento traumatico del passato che aveva pesantemente condizionato la loro famiglia; tre evasi avevano fatto irruzione nella loro casa ed avevano violentato lui, Savanah, allora tredicenne, e la madre.
Film melenso e caramelloso che fa sbadigliare senza sosta lo spettatore. In questa fiera del prevedibile e dello scontato, sin dalla prima seduta la dottoressa, in crisi con il marito Herber Woodruff (Jeroen Krabbé) un celebre violinista, sbatte le ciglia e si spande in languidi sorrisi indirizzati all’incolore Tom. Gli interventi terapeutici sono penosi e le regole del setting completamente disertate; Susan va a cena insieme a Tom, non fa una piega quando lui si offre di insegnare a giocare a football suo figlio Bernard (Jack Gould) e, sul finale, come prevedibile, va a letto con lui.
Streisand regala a Tom ed a Savannah un’infanzia da incubo con un padre rissoso e violento ed una madre talmente algida ed anaffettiva che lo stesso Tom, commenta: “Mia madre avrebbe dovuto allevare cobra e non bambini”. A rinforzare il clima pesante che si respirava in quella famiglia l’incipit del film che, grazie alla voce fuori campo, recita: “Non so quando i miei genitori cominciarono la loro guerra ma so che gli unici prigionieri che fecero sono i loro figli.” Per stemperare il clima liquoroso che circola nella pellicola, Streisand filma in maniera dura e spietata la scena dell’abuso ed accenna all’uccisione di Luke, fratello di Tom e di Savannah, per mano della polizia. L’unico momento veramente toccante è quando Tom narra un evento che vide la povera Savannah (lasciata completamente sullo sfondo) come protagonista: “Mia madre partorì un prematuro e disse a noi figli che il bambino era morto perché noi eravamo stati cattivi. Savannah aveva sette anni e seduta su una sedia a dondolo con il bambino morto tra le braccia ripeteva: “Tu sei fortunato perché non dovrai vivere con noi.” Dal romanzo omonimo di Pat Conroy. Sette candidature all’Oscar.
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