Ogni pellicola ha un passo che impone allo spettatore. E’ il regista che, in fondo, si adopera affinché lo spettatore acquisisca quel ritmo che lui stesso giudica necessario al godimento del suo testo. Castaldo sceglie un passo lento, trattenuto, senza scatti, né accelerazioni lasciando che le parole prendano decisamente il sopravvento sulle immagini. Il protagonista della vicenda è Alan (Giuseppe Zeno), un tossicodipendente perennemente a “rota” di eroina che, pur di farsi, spilla un po’ di soldi dalla madre ed alla sorella, spaccia per procurarsi la “roba” ed ha in piedi un’incolore relazione con una ragazza anche lei tossica, che non disdegna di saltare da un letto all’altro pur di procurarsi la dose.
Rispetto alle precedenti pellicole italiane sul tema, il regista napoletano non mostra gli aghi che brutalmente perforano le vene (Tunnel), lima il linguaggio volgare ed eccedente dei coatti e dei borgatari romani (Amore tossico) e, strizzando l’occhio al controverso Figlio mio, infinitamente caro, punta tutto sull’ambivalente e conflittuale rapporto tra Alan ed il padre. Come recita il titolo, sin dalle prime battute, si intuisce, in maniera palese, l’eccessivo e debordante bisogno del regista di voler “aggiungere” frasi, commenti, riflessioni sul tema per “documentare” al meglio il mondo interiore del tossicodipendente ma questo sovraccarico verbale finisce, inevitabilmente, per rendere la pellicola retorica, asfittica e paludosa.
Recensione pubblicata su Segno Cinema – N. 171 Settembre – Ottobre 2011
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