“Cinema, psicoanalisi e (troppa) fantasia” di Paolo Conti – Corriere sella Sera- 24.2.1995
“Alla vista di tute queste “strane” rappresentazioni di terapisti che, disperati perchè in crisi con i rispettivi partner, cadono nelle braccia dei loro pazienti, mi sentivo come lo spettatore di Jorge Amado che mentre assisteva alla rappresentazione di una pellicola americana sulla rivoluzione russa, dopo aver preso a pietrate lo schermo, si ribellava e cercava di convincere gli altri spettatori in sala che nella realtà le cose non erano andate in quel modo.” L’analista guarda il proprio doppio, stavolta non allo specchio ma sullo schermo cinematografico, storce la bocca scoprendo il ritratto di un vanesio psicolabile, di un professionista assai discutibile o semplicemente di un cretino presuntuoso: chissà mai perchè un’industria cinematografica che spedisce per mesi Robert De Niro nelle palestre pugilistiche prima di interpretare La Motta in “Toro scatenato” o il malato neurologico che torna alla vita dopo anni di letargo in “Risvegli” non adotta lo stesso rigore per la trasposizione cinematografica dei processi terapeutici? Lo psichiatra e psicoterapeuta Ignazio Senatore deve amare la professione che esercita alla Clinica Psichiatrica dell’Università “Federico II” di Napoli quanto il cinema (infatti confessa la sua passione per Wim Wenders, Erich Rohmer e John Ford) se ha deciso di partorire questo dettagliatissimo “L’analista in celluloide” (Franco Angeli). Per di più, a suo personale avviso “la psicoterapia è un arte estetica, un’educazione all’abilità immaginativa”. Da bravo socio della Società Italiana di Terapia Familiare non è, insomma, tipo da rimanere con le mani in mano davanti a certe parodie degli allievi di Freud, Jung o Lacan che i registi di mezzo mondo propinano alle platee. Senatore ha sezionato quasi cento film in cui il lettino di nonno Sigmund o il transfert, una patologia dolorosa o grottesca diventano plot: si va da “Un angelo alla mia tavola” di Jane Campion a un “cult” come “Blade runner” di Ridley Scott, ma c’è anche “Il grande cocomero” di Francesca Archibugi o “La visione del Sabba” di Marco Bellocchio e, naturalmente “Rain man” di Barry Levinson e “Il silenzio degli innocenti” di Jonathan Demme. La conclusione finale è: “Non mi sono identificato in nessuno degli analisti in celluloide comparsi sullo schermo ma sono stato spinto inizialmente a prendere le distanze nette da loro.” Il perchè è presto detto. Questo sciamano moderno che ha il permesso e il potere di insinuarsi nell’esistenza altrui è un bocconcino narrativo troppo prelibato per rispettare l’ortodossia, se vogliamo grigia, realtà professionale quotidiana. Ed ecco perchè, in quasi tutte le trame, il “dottore”, maschio o femmina che sia, è privo di una propria vita affettiva.E perchè certi impossibili psicoanalisti chiedono cortesemente ai pazienti, durante la seduta, se preferiscono il limone o il latte nel té (Il principe delle maree“) o addirittura li lasciano pernottare in casa loro (“Strana la vita”) come vecchi amici un po’ depressi. Per no parlare della psichiatria che viola qualsiasi segretezza professionale e fornisce al poliziotto i resoconti delle sedute del suo paziente (“Basic instinct“). L’analista sembra fatto apposta, documenta Senatore, per ingolosire sceneggiatori, risolvere storie stagnati o regalare colpi di scena da far invidia a Shakespeare, e chissà quanto si sarebbe divertito il Grande con l’universo del setting. Tanta approssimazione non è solo colpa dei cineasti, ammette Senatore. Bisogna anche fare i conti con un immaginario collettivo che “guarda ai terapeuti come ai professionisti sempre in attività, ventiquattr’ore su ventiquattro, accecati dal furore interpretativo, pronti ad analizzare tutti gli individui che ci capitano a tiro, forzati della mente che coattivamente non depongono mai i ferri del mestiere”. Inevitabile che al cinema tutto questo si materializzi nello psicoterapeuta che, seduto al bar o mentre nuota in piscina, sforna ricettine e consigliewtti buoni per affrontare (subito e bene!) il logorio della vita moderna. Il libro di Senatore è insomma pervaso da una certa auto-ironia, visto che a studiare l’argomento è un collega di “doppi” interpretati dagli attori. Da regalare al cinefilo ossessivo che non vede il mondo se non dalla poltrona della sala preferita. Magari, vai a sapere, finalmente entrerà in analisi.
“Il cinema sul lettino: troppo sesso poca fantasia” di Gabriele Bojano – Il Giornale – 8.1.1995
Ciak, si sdrai. E se proprio non riesce a star fermo ed è im…paziente, ciak si giri. Sul lettino dello psicoanalista, pronto a svelare meccanismi psichici inconsci, stavolta finisce un paziente d’eccezione: il cinema. Nell’anno del centenario della settima arte, Ignazio Senatore, psichiatra e psicoterapeuta napoletano, si è preso la briga di passare in rassegna tutte quelle pellicole, quasi un centenario, che negli ultimi anni, dal 1986 al 1993, hanno avuto per protagonista o solo per fugace comparsa la figura di uno psicoterapeuta. Un lavoro maniacale di ricerca, quasi una sorta di personalissimo “blob” che è diventato un libro, “L’analista in celluloide”, edito da Franco Angeli. Partendo dall’assunto bunueliano che il cinema è lo strumento migliore per esprimere il mondo dei sogni, Senatore preferisce non scagliarsi contro le inesattezze, le limitazioni, le ridicolizzazioni che quasi sempre caratterizzano i suoi colleghi di celluloide ma, come scrive nella presentazione Camillo Loriedo, coglie il vero nel falso, apprezzando così quanto di buono i film riescono a dare sull’argomento. Duttile ed eclettico se rappresentato nelle pellicole di produzione americana, l’analista appare più “ortodosso” e fedele al rispetto di uno stile terapeutico più tradizionale nei film europei e in special modo in quelli italiani. Tre esempi, peraltro di opere letterarie divenute cinematografiche, sono quantomai indicativi dell’enorme divario che esiste tra gli adattamenti realizzati negli States e quelli “meno poetici” di casa nostra. Ne “Il male oscuro”, film del 1989 di Monicelli, lo scenario terapeutico è completamente ribaltato rispetto al romanzo di Giuseppe Berto: il paziente (Giancarlo Giannini), uno sceneggiatore nevrotico, viene presentato come resistente alla cura e trascinato dall’analista per volontà della moglie, mentre nel libro è esattamente il contrario; è la moglie a dissentire sull’utilità della cura, giudicandola dispendiosa. Inventate, invece, di sana pianta,nel film “Cattiva” di Carlo Lizzani alcune figura che non compaiono nello scritto di Jung dal quale trae spunto la vicenda. Una storia fantastica, la liquida così Senatore, in cui forse per omaggio alle origini partenopee della protagonista (Giuliana De Sio) la paziente giudicata inguaribile e “salvata” dal giovane Jung è napoletana. Ma dove l’autore ravvisa i peggiori pericoli di una visione altamente “diseducativa” è ne “Il grande cocomero” di Francesca Archibugi, ispirato a un volume del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice. Il protagonista, uno straordinario Sergio Castellitto, si comporta come giammai si comporterebbe un vero terapeuta: critica i genitori di Pippi, la ragazzina epilettica che ha in cura, e si propone ai loro occhi e a quelli della paziente come il genitore ideale da imitare, dorme con la ragazza, assume psicofarmaci e si reca addirittura a casa di Pippi per chiederle i motivi che l’hanno spinta a saltare una seduta. Un comportamento non proprio professionale che Senatore ascrive alla categoria degli “analisti in celluloide confusivi”, quelli che confondono il bisogno di guarire con quello velato e più adulto di avere una relazione sessuale con le loro pazienti. Il gioco collusivo all’interno della relazione paziente-terapeuta può assumere altre forme e lo psicologo può essere così di volta in volta “Don Giovanni” (In “Strana la vita” di Giuseppe Bertolucci, dice candidamente alla donna che si è portata a letto che “non c’è niente di male di andare a letto con una paziente), “Indeciso” (in “Mood Indigo”, pur essendo sessualmente attratto dalla paziente e dalle sue avances, preferisce interrompere il trattamento, determinando così la vendetta della donna che gli uccide la moglie) e “eroici” che si “sacrificano” per il bene del paziente (come in “Caruso Pascowski”, dove lo psicoanalista aiuta a tal punto il paziente ad affrontare le sue problematiche omosessuali da accettare che faccia il primo passo con lui). Alla fine tra i tanti modelli di psicoterapeuti stereotipati sul grande schermo, qual’è quello che resterà maggiormente impresso nella mente degli spettatori? Senatore non ha dubbi: scartate pellicole come “Basic instinct” o “Analisi finale” che sopravviveranno per il sex appeal delle loro protagoniste, o “Betty blue” per la splendida colonna sonora, e ancora“Rain man” per la magistrale interpretazione di Dustin Hofmann, resta indelebile la figura dello psichiatra protagonista de “Il silenzio degli innocenti”, di cui non a caso, è riprodotto un fotogramma sulla copertina del libro. Hanibal the Cannibal, avrebbe però attratto lo spettatore, per la sua personalità sinistra, da criminale, anche se non fosse stato uno psichiatra.
“Lo schermo sul sofà” di Massimo Lastrucci – Ciak –Sett-1995
“Nel luglio del 1985 nasceva la psicoanalisi. O meglio: Freud iniziava quel processo di auto-analisi che doveva portare alla nascita della disciplina. Nel dicembre del 1895 nasceva il cinematografo. O meglio: i fratelli Lumiere davano la prima dimostrazione pubblica di un “apparecchietto” che doveva, fortunatamente per noi, avere straordinaria fortuna. Si tratta di due date convenzionali, chiaramente, ma sono utili per la nostra mentalità occidentale classificatoria a oltranza, per “costruire” ed organizzare la Storia. Nati insieme, si sono frequentati più che non si voglia ammettere. Anzi il filone del cinema psicoanalitico è tuttora ricco e frequentato. E lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista, lo psichiatra, figure diversissime tra loro ma accomunate per vicinanze di sfera d’attività, hanno fornito spesso agli sceneggiatori materia per divertire, spaventare, commuovere, terrorizzare. Spulciando nella storia del cinema ci imbattiamo per la prima volta in storie di malattie mentali e di sue cure nel 1916 in Russia, con “La dama di picche” di Protanazov, seguito tre ani dopo dal celeberrimo “Il gabinetto del dottor Caligari” del tedesco Robert Wise. Ma per vedere finalmente lo psicoanalista in scena, a pieno titolo, nel cinema di genere, dobbiamo aspettare il periodo classico di Hollywood. Disciplina felicemente attiva, sino a generare quella moda di costume di cui ancora oggi subiamo gli effetti, negli USA dagli Anni Trenta, la psicoanalisi sorse a Los Angeles nel 1933 da uno psicologo berlinese costretto a scappare dalla patria per le sue idee socialiste, Ernst Simmel. In breve, come un’influenza, Hollywood fu coinvolta dalla “moda”. A produttori e registi e sceneggiatori non sfuggì la possibile funzione strategica, all’interno di una trama passionale, di un simile personaggio, in grado di sciogliere nodi drammatici verso il lieto fine, di risolvere casi polizieschi, o “noir” meglio di un poliziotto, di fornire il fianco a momenti sapidi e leggeri nelle numerose variazioni della commedia. Alfred Hitchcock mise in scena il mondo dei disturbi della mente da par suo, grazie a un committente, il produttore David Selznick, allora appena uscito da una serie di sedute in terapia freudiana. Lo stesso sceneggiatore Ben Hecht era allora in analisi. Così da un trio di “innamorati” della nuova scienza nacque il film che regalò al giallo lo psicoanalista (anzi: lo psichiatra): “Io ti salverò”, nel 1945. Lì c’erano le possibili variazioni d’uso del personaggio: salvatore- investigatore (Indrig Bergman), la vittima (il morto), il carnefice (Leo G. Carroll). Da allora nel giallo, il nipotino di Freud si è sempre trovato bene: ha aiutato a risolvere casi (qualche esempio? “Il segreto di una donna, 1950, di Otto Preminger, “Schiava del male”1946, di Jacques Tourneur o i recentissimi “Analisi finale” di Phil Joanou, “Il colore della notte” 1994, di Richard Rush o “Una lama nel buio”, 1982, di Robert Benton. La vicinanza con la malattia mentale, con il disturbo nella sua versione patologica o criminale, ha poi creato curiose commistioni: perchè interessarsi alle perversioni se non si è attratti dalla perversione? Così dal Michael Caine di “Vestito per uccidere” al David Cronenberg di “Cabal” (1989), non si contano i dottori che dovrebbero curare se stessi, nel thriller come nell’horror, spesso elementi sospetti a causa della loro insipienza o finta leggerezza. Già, l’incompetenza. Ad Hollywood e province varie dell’impero cinematografico sembra quasi un cavallo di battaglia quello della disistima verso il dottor-professore -psicologo. Se non è un azzeccagarbugli poco ci manca, spesso il malato è più in gamba di lui, anzi la gente non sa distinguerli (“Lo strizzacervelli”, 1988). Billy Wilder che è di un’intelligentissima ferocia messa sempre al servizio della trama e del divertimento del pubblico, in “Prima pagina” (1974), in poche scene ha messo alla berlina il professore freudiano dalla Mitteleuropa, fanatico ed intrinsecamente stupido fino a farsi sparare, con tanto di parlata dialettale teutonica. Come del resto le varie psicologhe in permanente della commedia leggera anni Cinquanta/Sessanta, studiose e pronte a capitolare al primo attacco del maschio USA di lupesco buon senso o quasi ( “Donne vi insegno come si seduce un uomo”, 1964 con Nathalie Wood). Quando poi non vengono meno al loro supremo obbligo deontologico-professionale (non innamorarsi mai della propria paziente e sopratutto non farci mai sesso) e si riducono a imbarazzanti pasticcioni di quel che dovrebbero curare, sul lato comico (“Un inguaribile romantico” con Dudley Moore, “La signora e i suoi mariti”, 1964, con Shirley Mac Laine) come su quello sentimentale “Analisi finale”, La casa dei giochi”, “Il diavolo in corpo“). Insomma su 500 pellicole che tangenzialmente o centralmente presentano la figura del “medico della mente”, tra drammi, omicidi, farse e sentimenti “proibiti” sono ben poche (in proporzione) le volte in cui questi ci fa una onorevole, se non bella figura. “Nel 35 % dei casi dei film lo psicoanalista appare come matto o svitato, nel 22% lo psichiatra è cattivissimo, nel 9% è semplicemente un’incapace.” informa una ricerca del Dott. Irwin Scneider sull”American Journal of Pssichiatry”. “Piuttosto che occuparsi di nevrosi altrui lo psicoterapeuta (cinematografico) farebbe bene ad occuparsi dei propri disagi e di uno stile di vita che oscilla tra l’incapacità di costruire relazioni affettive soddisfacenti e il vero e proprio disadattamento sociale” è l’ammissione di Camillo Loriedo nel libro “L’analista in celluloide” di Ignazio Senatore (Franco Angeli). Ammettiamolo: tutto ciò se è spettacolarmente “utile” (che bello vendicarsi di una figura così misteriosa, inaccessibile, a metà tra lo scienziato e lo stregone!) è francamente ingeneroso, da parte del mondo del cinema in generale che nei suoi livelli più nobili ha tratto autentici capolavori dalle tematiche psicologiche. Preferiamo allora congedarci ricordando anche qualche psicoanalista dello schermo che ha fatto onore alla sua professione. Gente seria, studiosa, che però non abbrutisce nella caricatura della sua umanità. Gente come il Claude Rains di “Perdutamente tua”, ad esempio, o il Lee J. Coob di “La donna dai tre volti”, che riesce a guarire una Joanne Woodward in preda ad una tripla personalità o il Judd Hirsch di “Gente comune” che trova il (anzi “la”) colpevole di un inferno gelido tra le mura domestiche.
“Grande schermo, piccoli psicoanalisti” di Lucio Lombardi – “Il Messaggero” 19-12-1994
“Psicoanalisi e cinema: un rapporto difficile, spesso costruito su luoghi comuni, nel migliore dei casi (vedi Woody Allen) giocato sull’ironia. Vampiro succhiasoldi e insensibile spettatore dell’altrui sofferenza o inconfessato voyeur delle fantasie più scandalose, assatanato seduttore delle clienti più fragili e belle: allo psicoanalista è solitamente negata la dimensione della normalità, la regola è la macchietta, e chi ha visto il divertente “Il mostro”di e con Roberto Benigni, ne avrà avuto l’ennesima conferma dall’improbabile psichiatra che cerca ad ogni costo di individuare l’inafferrabile assassino nel protagonista, il candido Loris impersonato da Roberto Benigni. Ignazio Senatore, psichiatra e psicoterapeuta, ha passato in rassegna un centinaio di film in cui compare la figura dell’analista, cercando di individuarne in ogni pellicola i tratti più significativi. Si va dall’affascinante terapeuta di “Basic Instinct”, di cui gli spettatori ricorderanno senz’altro meglio le performance sessuali con Michael Douglas che non le sue capacità professionali, al raggelante Hannibal The Cannibal de “Il silenzio degli innocenti”,psichiatra divorato dalla follia e divoratore delle sue vittime. Il frutto del lavoro è stato accolto ne “L’analista in celluloide” (Franco Angeli) presentato l’altro ieri al Festival del cinema di Sorrento, un libro che vuole essere una riflessione sull’identità del terapeuta così come si è formata in quella che è per eccellenza la fabbrica dei sogni, il cinema. Al di là del tentativo dell’autore di fornire al lettore uno strumento orientativo, emerge comunque forte dalla ricerca la sensazione che il cinema ancora oggi mantenga nei confronti della psicoanalisi un atteggiamento estremamente banalizzante, fuorviante e svalutativo. “D’altre parte, come scrive Senatore, “le case produttrici non fanno altro che rispettare il clima culturale che si è sviluppato intorno al mondo della psicoterapia”: di qui, in particolare, nei film americani, la proposizione di figure spesso inattendibili rispetto ai canoni della professione così come si è andata formando nel vecchio continente. Gli esempi che Senatore va a pescare nella filmografia sono in questo senso assai eloquenti, tant’è che crediamo che a nessuno possa mai venire in mente di affidarsi ad un terapeuta tra quelli che l’autore ci sottopone nel corso della sua ricerca. Quasi a non volere infierire Senatore tenta un’operazione di parziale recupero forzando in parte i risultati del suo lavoro, per spiegare che “in nessuna di queste pellicole si respira quel clima di squalifica e di condanna del nostro agire terapeutico, così evidente nei film degli Anni Settanta, come ad esempio nel celeberrimo “Qualcuno volò sul nido del cuculo” con Jack Nicholson, dove gli psichiatri sono messi alla berlina come strumenti repressivi del potere.”
ALTRE RECENSIONI
Giornale di Napoli: “Fobie in celluloide” di Flaviana Alongi (19.5.1995)
Cineforum: “Recensione libri” di Cecilia Comuzio (N. 345 Anno 35- Giugno 1995)
FilmTV: “Psicocinema” di Luigi Cuciniello (Anno 3- N.13)
Radio Corriere Tv: “SegnaLibro” di Gabriele Rifilato (N.3-1995)
La Voce: ” Freschi di stampa” di Gianni Canova (6.1.1995)
La Voce: “Nei film l’analista fa la parte del pazzo” di Mirella Armiero (3.1.1995)
Il Mattino: “Quando le star di Hollywood si sdraiano sul lettino del dottor Freud” di Oscar Nicolaus (16.12.1994)
XXX Incontri Internazionali del Cinema di Sorrento: Presentazione del libro “L’analista in celluloide” (16.12.1994)
L’Europeo: “Libri Cinema” di Enrico Magrelli (30.11.1994)
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