Per raccogliere del materiale per il suo prossimo romanzo Piero (Glauco Mauri), un intraprendente e tenace scrittore, chiede al direttore della struttura di poter frequentare un ospedale psichiatrico ed, aggirandosi per i padiglioni, rimane colpito dalle disumane condizioni nelle quali versano i ricoverati, chiamati democraticamente “ospiti”, ma abbandonati di fatto al loro destino. Un giovane psichiatra gli accenna alle difficili condizioni nelle quali sono costretti ad operare e l’informa che alcuni ricoverati svolgendo, a scopo terapeutico, dei lavori molto umili come rastrellare foglie, servire a tavola, fare le pulizie, guadagnano qualche lira al giorno ed usufruiscono del permesso di poter uscire dalle loro stanze per qualche ora. Dopo aver cercato, invano, di scuotere il giovane psichiatra del reparto, ormai rassegnato e demotivato, Piero rimane colpito da Anna (Lucia Bosè), una donna ancora giovane e bella, ricoverata da vent’anni in quella struttura, a seguito della morte del cognato del quale era innamorato. Un giorno Renato, il fratello di Anna, superate le resistenze della moglie, decide di accoglierla in casa. Anna, frastornata, insonne ed irrequieta, prova, invano, a reinserirsi in società ed a trovare lavoro. In spiaggia fa le fusa ad un ragazzo ma quando questi prova sedurla, scappa via spaventata. Successivamente, molestata da un vicino di casa, lo smaschera davanti all’incredulo fratello ed alla odiosa cognata. Anna fugge allora nella casa di campagna di famiglia dove si rifugia, regressivamente, in un mondo fantastico dove sogna di essere Melisand, una donna che vive in un altro secolo, infelicemente sposata con un uomo molto più anziano di lei, ma innamorata perdutamente del cognato. Nel mesto finale, “catturata” dalla polizia verrà rinchiusa nuovamente in manicomio dove continuerà a prendersi amorevolmente cura di Luciano (Peter Gonzales), un paziente mutacico, chiuso nel proprio mondo psicotico.
Piccolo capolavoro della regista emiliana, girato per la RAI, in bilico tra finzione ed inchiesta, fortemente ideologizzato ed antesignano della Legge Basaglia che andrà in vigore qualche anno dopo. Il film si apre con Piero che, nel corso di una conferenza stampa, ai giornalisti dichiara: “I pazzi, i cosiddetti pazzi hanno dei poteri che noi non abbiamo più. Sono come dei primitivi. Noi vediamo e sentiamo solo ciò che è fisico e tangibile. Loro invece sentono e vedono anche quello che non si vede e non si tocca. I popoli antichi avevano un timore riverenziale verso i pazzi; cercavano di scoprire da essi delle verità per loro ignote. Oggi invece li releghiamo lontano dagli occhi, nei manicomi e così rinunciamo a conoscere molte cose, rinunciamo a conoscere noi stessi, rinunciamo a conoscere una realtà più profonda.” Successivamente mentre visita il manicomio tempesta di domande il giovane dottor Bertolani che, dopo aver provato a ribattere alle sue puntuali domande, gli illustra la misera condizione dei ricoverati e le difficoltà nelle quali il personale sanitario si trova ad operare: “Il problema dei lungodegenti? Da noi costituiscono il 30% circa. In altri istituti anche il 50%. Per noi sono praticamente guariti. La famiglie? Questo è il punto. Li dimenticano, non li rivogliono indietro. Ci sono molti pregiudizi sulla malattia mentale. Spesso contesto Ai familiari frasi come questa: “Ma io non posso prendermeli a casa perché ho paura.” Io spiego che non c’è ragione di aver paura perché quella persona non è affatto pericolosa. E’ un alibi dei parenti. L’istituto ha 650 ospiti e siamo in tutto sei medici.” La regista, impietosamente, mostra i pazienti cronici che vagano come ombre per i desolanti stanzoni del manicomio o mentre sono all’aperto, rinchiusi in gabbia all’interno di un enorme cancellata di ferro. A differenza delle solite e stereotipe rappresentazioni del “folle”, Anna non è descritta come la classica schizofrenica, vittime di deliri o allucinazioni ma come una donna sensibile che ha scelto di vivere in quell’inferno per cercare di dimenticare le proprie pene d’amore. Chiusa, introversa ed implosa nel proprio mondo interiore, proverà a vivere tra le persone “normali”, ma se ne ritrae smarrita e spaventata. Nella seconda parte la regista abbandona il crudo taglio realistico ed introduce la vicenda fantastica di Melisand; l’operazione però non riesce. Per rendere meno dura la vicenda Cavani affida il ruolo della protagonista alla bellissima Bosè, per l’occasione decisamente sfiorita.
Per i rimandi filmografici, le schede film ed un esaustivo approfondimento sul tema si rimanda ai volumi “Cinema Mente e Corpo” e “Cinema (italiano) e psichiatria” di Ignazio Senatore – Zephyro Edizioni
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