“Psycho cult” di I. Senatore – C.S.E (2006) : Recensioni

23 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
“Psycho cult”  di I. Senatore – C.S.E (2006) : Recensioni
Recensioni e prefazioni dei volumi di Ignazio Senatore
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“Tutti i dizionari del cinema sono indispensabili ai cinefili perchè offrono giudizi diversi dalla critica specializzata. Ma questo redatto dallo psichiatra e psicoterapeuta Ignazio Senatore è ancora più originale e prezioso degli altri “generalisti” che siamo abituati a consultare. Innanzitutto perchè analizza le opere filmiche dal punto di vista psicanalitico e poi perchè mischia il cinema “alto” a quello “basso” mettendo in discussione lo stesso concetto di genere. “Chi pensa che Michelangelo Antonioni, Ingmar Bergman, David Lunch, David Cronenberg, Roman Polanski, siano i registi che hanno scandagliato più in profondità l’animo umano sbaglia – dichiara l’autore nella prefazione – forse non ha mai visto in vita sua una pellicola diretta da Mario Bava, Francesco Barilli, John Brahm, Roger Corman, Freddie Francis, Riccardo Freda, Lucio Fulci, Umberto Lenzi, Otto Preminger, Peter Sands, John Sthal, Roy Ward Baker.”
Senatore lancia la sfida di rivalutare gli autori minori o di serie B che, a suo avviso, hanno saputo intercettare gli aspetti più malsani, patologici e perversi della mente umana. Questi registi avrebbero descritto deliri, allucinazioni, incubi meglio di tanti altri registi più blasonati. Così l’autore strizza l’occhio a registi nostrani da sempre considerati “bassi” e da rivalutare comeLamberto Bava, Luigi Bazzoni, Sergio Bergonzelli, Mario Caiano, Alberto De Martino, Fernando Di Leo, Luciano Ercoli, Sergio Garrone, Sergio Martino, Aristide Massaccesi, Brunello Rondi.
Non c’è da stupirsi di quest’approccio che è già in voga oltreoceano. E’ noto, infatti, che uno dei film cult di un grande genio del cinema americano come Tarantino è Scontri stellari oltre la terza dimensione di Luigi Cozzi. Una pellicola di fantascienza girata con mezzi risibili che la nostra critica ha sempre bocciato.
Accanto al cinema splatter, horror e trash Senatore inserisce anche qualche maestro altisonante come Chabrol, Lang o Pasolini per spiegare la trasversalità del genere o meglio, l’impossibilità di distinguere e catalogare in specifiche etichette le opere cinematografiche.
Ma il fine e l’augurio dell’autore è che il volume: il lettore sia spinto a rivedere pellicole seppellite dall’oblio e classificate troppo frettolosamente come dei B-movie, delle pellicole di scarto, incapaci di mettere in moto l’immaginario dello spettatore.
E sicuramente colpisce nel segno se questo dizionario è riuscito ad incuriosire anche chi scrive che non ama la cinematografia horror e simili. L’autore analizza in 187 pagine, con innumervoli voci, che vanno dalla A (A.A.A. Achille) alla Z (La zona morta) moltissime pellicole con occhio da “addetto ai lavori” cioè stigmatizzando l’aspetto psicologico della finzione scenica.
Un esempio? Nel film “Ti ho visto uccidere” di Roy Rowland l’autore cita come “da incorniciare” la scena in cui il protagonista dialoga con lo psichiatra.
Insomma questo dizionario è una guida indispensabile, non solo per gli amanti del genere “Psyco” ma anche per tutti quelli che amano vedere e rivedere i film con un’ attenzione diversa e più profonda all’aspetto psicologico.”

 (Oriana Maerini  da Cinebazar – 31-3-2006)

“Che differenza c’è tra un bel film e una bella storia? Nel caso  di “Million Dollar Baby” la differenza è una statuetta dorata e un enorme successo anche di pubblico, il pubblico che esce dalle  sale con gli occhi rossi ed appagato per aver liberato catarticamente, tutto sommato a buon mercato, una parte dei suoi grovigli emozionali. Ma guardiamo nel dettaglio.La storia la conosciamo, e se anche non la conoscessimo, dopo le prime sequenze l’avremmo già intuita : gli eventi sono del tutto prevedibili, e  i personaggi si incastrano gli uni con gli altri come un puzzle di quelli facili facili.  Tre perdenti, Frankie/Eastwood, Scrap/Freeman e Maggie/Swank:  complementari,  riconoscibili e “collocabili” come figurine di un album. Frankie è un solitario e taciturno allenatore di boxe di cui non sappiamo gran che, se non che cerca di riallacciare un rapporto con la figlia, cui scrive continuamente lettere puntualmente restituite al mittente; ma quanta prosaicità in quelle buste sempre ritrovate sotto la porta, senza un’immagine diversa,un rimando visivo, un suggerimento (non esistono solo i flashback, anche se a volte, se ben usati, sono insostituibili…). Sappiamo anche che si reca quotidianamente in chiesa, quasi compulsivamente, a porre tremende domande senza risposta, a metà tra il comico e il metafisico, ad un prete irritabile, che alle grottesche questioni oppone solo un fiero rimando a concrete regole di comportamento.. Era  davvero questo l’unico modo per ritrarre le inquietudini e le ansie di trascendenza di un uomo tormentato? Scrap è un vecchio pugile di colore che ha perso la vista da un occhio nel corso di un combattimento, e Frankie, suo allenatore all’epoca, non si perdona di non aver interrotto in tempo l’incontro. Scontata la sensibilità e la  saggia rassegnazione dell’anziano campione, scontato che proprio lui, monocolo, veda e intuisca cose che Frankie e altri non vedono, o non vedono subito; non solo, ma fin dall’inizio, fin da quando ci viene notificato che avrebbe tanto voluto combattere il suo centodecimo match, impeditogli dall’incidente del centonono,  sappiamo che in qualche modo non ortodosso il suo desiderio verrà esaudito….Maggie è la trentunenne-quasi trentaduenne aspirante pugile, che incarna per l’ennesima volta il cliché tutto americano del se-lo-vuoi-davvero-e se-ce-la-metti-tutta-ci riesci. Vuole farsi allenare da Frankie, che all’inizio è contrario, ma noi guardiamo l’orologio e ci chiediamo solo quanti minuti del film ci metterà a farsi convincere. La ragazza, orfana di padre, proviene da una famiglia disagiata che vive in una roulotte: la sua è una voglia di riscatto sociale ma soprattutto affettivo, anche se l’unico squarcio sul suo mondo interiore è la breve sequenza dell’area di servizio e del suo specchiarsi nella ragazzina con padre e cane al seguito.L’atroce seconda parte, che la ritrae nel suo letto di dolore, è forse meno scontata anche se alquanto superficiale nel trattamento (pensiamo con quale diversa sensibilità  e con quanta poesia Amenàbar nel suo “Mar adentro” riesce a rappresentare una situazione simile). Ma torniamo alla storia. Se andiamo al cinema con la voglia di sentirci raccontare una vicenda edificante ed emotivamente produttiva, con tutti gli ingredienti della narrazione al posto giusto; se abbiamo voglia di piangere un po’ – chè fa tanto bene – questo è il film che fa per noi. La classica “architrama”, come la chiamano gli studiosi della sceneggiatura, con il susseguirsi di scene e sequenze diligentemente ordinate fino al momento culminante, in un percorso che ha la stessa imprevedibilità e la stessa poesia di un pullman di linea. Se invece amiamo il Cinema, un cinema fatto di seduzioni, di sottili e impalpabili alchimie tra immagine, parola e suono- se cerchiamo suggestioni ed evocazioni più che il concreto racconto di fatti- se ci emoziona soprattutto la poesia di un’inquadratura o le segrete fascinazioni del montaggio, se cerchiamo nella fotografia ogni volta nuove e diverse esperienze estetiche, o almeno qualcosa di rilevante, se cerchiamo simboli, senso e significati negli angoli riposti delle storie e non nelle didascalie per i non capenti, se cerchiamo stimoli  e spunti di riflessione che magari ci spiazzino, ci sorprendano o scardinino le nostre certezze più che rassicurarci e consolarci, allora lasciamo perdere. Lungi dal disprezzare  rispecchiamenti, identificazioni e proiezioni (in senso psicologico, non psicoanalitico), simpaticamente coinvolti dalla sindrome di Sheherazade, così ben descritta ad esempio da Ignazio Senatore, tutt’altro che inclini a sottovalutare la portata terapeutica  delle storie (anzi!),  tuttavia il cinema lo pensiamo ancora come qualcosa di diverso dalla fiction…..E gli evidenti sensi di colpa dell’Academy Award, per non aver premiato, la scorsa stagione, il più meritevole “Mystic River” dello stesso Eastwood, nel segno di un incongruo risarcimento morale   incoronano oggi una bella storia, non un bel film.” (Maria Carlo Zarro – 17 – 2005)

“Non è solo la comune data di nascita, quel 1895 in cui ebbero luogo le prime dimostrazioni pubbliche del cinematografo e gli esperimenti freudiani sulla psiche, ad unire la psicoanalisi alla settima arte. Entrambe assolvono, infatti, sia pur con finalità e strumenti differenti, la funzione di indagare la mente, il comportamento e i fenomeni sociali.

L’analista al cinema – Il meccanismo della visione è stato spesso oggetto dell’attenzione da parte della psicoanalisi, consentendo così una lettura più sfaccettata ed intrigante dei film, non di rado incentrati su vicende di matrice psicologica e psicopatologica. Un’influenza che non si è fermata ai soli contributi teorici ma si è estesa sul piano narrativo, con la presenza della figura dell’analista in molte pellicole cinematografiche nei ruoli, a volte interscambiabili, di vittima/carnefice, di salvatore e di investigatore. In seguito alla crisi di questa scienza in passato ritenuta infallibile, era inevitabile che fossero ridimensionati gli stessi operatori del settore, dipinti talvolta come degli psicopatici (si veda un caposaldo del genere quale Dressed to kill, Vestito per uccidere, 1980, di Brian De Palma) o dei frustrati capaci di ignorare la propria deontologia professionale innamorandosi dei propri pazienti. Nelle commedie si è assistito persino al paradosso del ribaltamento di ruoli, che ha condotto ad una rivalutazione del folle – di cui viene sottolineata la creatività rispetto alla realtà circostante violenta ed alienante –, a scapito di colui che dovrebbe curarlo, rappresentato, al contrario, come un individuo venale e falso.

Psycho-cult – Appare condivisibile, dunque, l’affermazione dello psichiatra e psicoterapeuta Ignazio Senatore a detta del quale, nel momento in cui la cinematografia propone un vasto campionario di terapeuti incapaci, imbroglioni, folli e assassini, è come se spingesse, indirettamente, chi lavora nel ramo a riflettere sugli errori e le debolezze nei quali si può incorrere nella pratica quotidiana (Il cineforum del Dottor Freud, Centro Scientifico Editore, 2004, pp. 204, € 14,50). Ancora Senatore, nel volume Psycho-cult. Psicodizionario del cinema di genere (edito, quest’anno, sempre dal Centro Scientifico Editore, pp. VIII-248, € 14,50), passa in rassegna oltre trecento pellicole incentrate su follia e psicoanalisi, commentando thriller, western, commedie, senza trascurare il filone erotico italiano dagli anni Sessanta in poi. Ne è scaturito un testo propedeutico alla visione, “trasversale” sia nell’accantonare la concezione di genere, resa ormai obsoleta nell’era postmoderna di influssi e contaminazioni, sia nel superamento della dicotomia fra produzione autoriale e non.

Il buio oltre lo schermo – Accanto a questo testo, impressionante per la mole di film citati sconosciuti al grosso pubblico, segnaliamo l’esaustivo saggio Il buio oltre lo schermo. Gli archetipi del cinema di paura di Riccardo Strada (Zephyro Edizioni, 2005, pp. 188, € 18,50). Si tratta di un’altra pubblicazione firmata da un professionista del settore nonché cinefilo (Strada è uno psicologo operante a Milano), nella quale vengono esplorati i modelli del cinema horror, ovvero quelle figure che nell’immaginario dello spettatore hanno incarnato “in toto” la paura: Dracula, Frankenstein, Jekyll e il suo doppio negativo Hyde, l’uomo lupo. Personaggi inquietanti che, in quanto espressione dei nostri timori più reconditi (la morte, la diversità, la disgregazione dell’Io), divengono perturbanti, essendo a noi stessi misteriosi e familiari insieme. Senza approdare ad uno sterile trattato di psicoanalisi, l’autore ci ha regalato un’indagine colta ed appassionata sui meccanismi del fantastico, corredata dalla prefazione di Carlo Lucarelli e da un’intervista ad un precursore del genere quale Pupi Avati.

L’intensificarsi del dibattito – Entrambe le pubblicazioni sono, pur nella loro eterogeneità, l’ennesima dimostrazione di come l’interscambio fra cinema e psicoanalisi, alimentato com’è da stimolanti apporti, sia ben lungi dall’esaurirsi, nell’incessante ed ambizioso tentativo di indagare l’interiorità dell’animo umano.”  (Il lettino terapeutico e il grande schermo di Monica Florio)

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