“Ricomincio da tre” di Massimo Troisi è del 1981. “Vito e gli altri” di Antonio Capuano del 1991 e “L’uomo in più” di Paolo Sorrentino del 2001. Tre pellicole, di cui quest’anno si celebrano gli anniversari, di tre registi napoletani esordienti che balzarono di colpo all’attenzione della scena cinematografica italiana. Tre film completamente diversi tra loro, vuoi per lo sguardo registico, per i temi affrontati e gli stilemi del genere a cui facevano riferimento. Il film di Massimo Troisi, premiato con due David di Donatello e un Nastro d’argento, immersa in un umorismo raffinatissimo, mostrava, con disincanto, una Napoli che si leccava ancora le ferite del post-terremoto e nella quale si muoveva l’acuto protagonista, interpretato dallo stesso Troisi, che, partito per Firenze, si batteva, nel corso del film, per abbattere i millenari luoghi comuni sui napoletani. Un film che per la sua sincerità e per il fiume di battute e di gag divenne il maggiore incasso al botteghino dell’anno, nonostante fosse recitato in napoletano e lanciato nelle sale cinematografiche dello Stivale con i sottotitoli in italiano per una scelta ideologica, perché non voleva tradire il suo dialetto e la sua cultura.
Duro, spietato, spiazzante era, invece, il film di Antonio Capuano, premiato con un Nastro d’argento e a Venezia con quello della Critica, che ruota intorno ad uno sfortunato adolescente, a cui sono stati rubati infanzia, affetti e sogni. Capuano bandisce intenti sociologici e s’affida ad una scrittura asciutta ed essenziale e, senza cadere in facili pietismi, offre un quadro senza speranza sulla condizione nella quale versano i piccoli protagonisti della vicenda; c’è chi dorme per strada, chi si prostituisce o si buca, chi compie furti e rapine. A questi bambini soli ed abbandonati, il regista, senza retorica, contrappone quelli felici che si esibiscono allo Zecchino d’oro e quelli sorridenti che compaiono nel mondo patinato della pubblicità.
Sorrentino racconta, invece, grazie ad un montaggio alternato, nel suo film, premiato con un David di Donatello e un Nastro d’argento, due protagonisti agli antipodi, che si chiamano entrambi Antonio Pisapia,; estroverso, trasgressivo, irruento, egocentrico l’Antonio Pisapia, cantante, interpretato da Toni Servillo; imploso, sfiduciato e depresso, l’Antonio Pisapia, calciatore a cui dà vita magistralmente Andrea Renzi,
Amante della cucina e in special modo della cottura di spigole ed orate, l’Antonio Pisapia cantante, spirito ribelle e controcorrente, nel finale agrodolce, decide di dare un’imprevista svolta alla sua vita. L’onesto e sognatore Pisapia calciatore, personaggio ispirato all’ex capitano della Roma Agostino De Bartolomei, incapace di calarsi nella dura realtà pallonara, popolata da calciatori, presidenti e allenatori, disposti a vendersi l’anima per il Dio denaro, in un finale tragico, non reggerà agli urti della vita. Ma il 2021 è anche l’anniversario di altre due pellicole che hanno lasciato un segno nel cuore degli spettatori. E’ del 1991 “Pensavo che fosse amore e invece era un calesse” di Massimo Troisi, inno all’amore tormentato e in qualche modo negato, ed é del 2001, “Luna rossa”, capolavoro indiscusso di Antonio Capuano, una miscela di “Fratelli” di Abel Ferrara e dell’Orestiade di Eschilo, sull’orrore della camorra.
Articolo pubblicato su il Corriere del Mezzogiorno -5-1-2021
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