Ignazio Senatore intervista Sergio Rubini: “Eduardo non è solo Napoli, ma è nel DNA degli italiani”

28 Giugno 2020 | Di Ignazio Senatore
Ignazio Senatore intervista Sergio Rubini: “Eduardo non è solo Napoli, ma è nel DNA degli italiani”
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“Il mio film sui De Filippo lo girerò a Napoli all’inizio di settembre. La sceneggiatura è il frutto di un lavoro di tanti anni di studio e di sudore, mio, di Carla Cavallucci e Angelo Pasquini, co-sceneggiatori e dei produttori Agostino e Maria Grazia Saccà.” Chi parla è Sergio Rubini, omaggiato ieri con un premio alla carriera, nella serata d’apertura della diciottesima edizione dell’Ischia Film Festival, diretto da Michelangelo Messina.

Come mai un pugliese come lei si è interessato alla vicenda dei De Filippo?

“Negli anni Sessanta, ero ancora un bambino e mio padre mi portò al teatro Piccinni a Bari a vedere Eduardo che interpretava “Sabato, domenica e lunedì”. Non ricordo bene lo spettacolo ma che mio padre, al termine dello spettacolo, mi teneva in braccio e mi sollevava, per applaudirlo. Eduardo poi l’ho visto tante volte a teatro, ho sempre amato il suo teatro. Ho debuttato, poi, a sedici anni, in una compagnia filodrammatica, recitando il personaggio di Nennillo di “Natale in casa Cupiello”. Eduardo non è solo Napoli ma è nel DNA degli italiani e della mia famiglia.

Cosa le affascinava della loro storia?

“Erano tre ragazzi che appartenevano ad una famiglia, apparentemente minore, che poi, invece, sono riusciti, con la forza del proprio talento, tenacia e abnegazione, a ribaltare il loro destino. Hanno affermato il loro cognome, che costituiva la loro ferita, perché era quello della madre, e soprattutto a imporre una grande rivoluzione nel teatro, ad affrancarlo dalla matrice ottocentesca, ereditata del teatro paterno, e a rivolgerlo ad uno sguardo più realistico, al punto che Eduardo lo si può considerare tra i padri del Neorealismo.”

Quale periodo della loro storia racconterà?

“Ho ristretto l’arco narrativo dal 1925, quando muore Scarpetta, il loro padre naturale, che in eredità non gli lascia nulla, se non il talento, fino al Natale del ’31, anno della loro prima rappresentazione al Kursaal di Napoli. Descriverò gli anni della formazione del trio e racconterò anche quelle ferite, che poi, nel corso degli anni cresceranno, fino al punto da farli dividere.”

Ha già scelto il cast?

“No, ma sono alla ricerca di tre giovani venticinquenni- trentenni. Il panorama teatrale dei giovani napoletani è vastissimo e confido che riuscirò a trovare tre talenti.”

Fellini dichiarava che veniva a Napoli a prendere le sue “facce” perché i volti dei napoletani sono il risultato  “geologico” di una sovrapposizione di storie e di avvenimenti, soprattutto dolorosi, continui e abituati ad avere quel distacco da se stessi, tipico degli attori.”

“Sono assolutamente d’accordo anche se, questa della stratificazione geologica della sofferenza”, è tutta meridionale. Nel napoletano c’è però anche la capacità di ironizzare la sofferenza, fino ad arrivare addirittura oltre. Nel volto del napoletano c’è, infatti, la sofferenza, ma anche la leggerezza e quindi un insegnamento a come vivere la vita.”

E lei ha già lavorato con tanti attori napoletani da Salemme a Orlando, da Carpentieri al giovane Di Leva, alla Golino.

“Ho cominciato nell’82 con Tato Russo, per cui il teatro napoletano e la napoletanità sono bene impresse nella mia storia professionale e umana.”

Articolo pubblicato il 28.6.2020 su Il Corriere del Mezzogiorno

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