John Merrick (John Hurt), ventunenne, affetto da neurofibromatosi, soprannominato “l’uomo elefante”, è sfruttato e maltrattato dal cinico e spregevole Bytes (Freddie Jones), che lo da in pasto al pubblico, presentandolo come un fenomeno da baraccone. Il dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins), chirurgo del London Hospital, colpito dalla mostruosità di quell’infelice creatura, paga per poterlo studiare e visitare. John ha una spiccata intelligenza e una grande umanità e, quando s’ammala, Treves convince Bytes a ricoverarlo in ospedale.
Grazie alle cure John si riprende fisicamente, mostra uno spiccato interesse per la lettura ed affina sempre più la propria sensibilità. Bytes pensa solo agli affari e preme affinché Treves lo dimetta ma il dottor Carr Gomm (John Gielgud), direttore dell’ospedale, lo allontana, minacciandolo di denunciarlo alla polizia. John trascorre serenamente le giornate a bere il té in compagnia dei ricchi londinesi e della famosa attrice Madge Kendal (Anne Bancroft) e la sera si ritira in una piccola stanzetta che l’ospedale gli ha riservato. Ma un cinico custode, lo mostra, dietro pagamento, a una folla di curiosi e lascia poi che Bytes lo rapisca.
John ritorna ad essere esibito nel circo e una notte è percosso selvaggiamente da Bytes che lo rinchiude in una gabbia con gli animali. Un nano s’impietosisce e libera John che fugge via. Il suo orribile aspetto, fatalmente, richiama le attenzioni dei passanti che, minacciosi, si avvicinano per linciarlo, ma sono bloccati dalla polizia che riconducono John al London Hospital.
Dopo aver assaporato la gioia di uno spettacolo che Magda Kendal gli ha dedicato, John muore durante il sonno, dopo aver sognato la madre.
Lynch abbandona le atmosfere oniriche e sognanti a lui care, ambienta la pellicola a Londra nella seconda metà dell’Ottocento e dirige una pellicola attraversata da una disperata ed inconsolabile tristezza. Sin dalle prime battute, il regista ammanta di mistero la tragica figura del protagonista, ricoprendo il suo volto con un robusto telo bianco.
La sua sagoma sgraziata, posta spesso in controluce, lascia immaginare un corpo mostruoso ed il dottor Treves, durante una conferenza medica, descrive ai colleghi le deformità di cui John è affetto: ingrossamento del cranio, estesa escrescenza frontale, eccessiva curvatura della spina dorsale, escrescenze tumorali che gli ricoprono la pelle, una tumefazione al braccio destro e una deformazione labbro superiore. In maniera un po’ scolastica,
Lynch lascia intendere che le vere creature mostruose che s’aggirano sullo schermo sono quelle che fanno la fila per ridere, insultare e disprezzare l’infelice protagonista e, quando mostra, finalmente, il volto del protagonista, non può che indurre nello spettatore sorpresa, sgomento e compassione.
Il regista gioca tutto sul contrasto tra il repellente aspetto fisico del protagonista e la sua squisita bontà e sensibilità d’animo; amante della musica, John cita la Bibbia, è gentile con le infermiere che lo assistono, mostra riconoscenza verso i medici che gli prestano le cure e, grondante d‘umanità, non si ribella mai alle percosse ed ai maltrattamenti che subisce.
E quando il dottore gli presenta la moglie Emma (Hannah Gordon) tra le lacrime, John le confida: “Devo essere stato una grande delusione per mia madre”. Solo sul finale, quando è accerchiato dalla folla inferocita, John trova la forza per urlare al mondo intero la propria sofferenza: “Io non sono un animale, sono un essere umano, un uomo”.
Tratto da The elephant man: a study in human dignity di Ashley Montagu e The elephant man and the other reminescens di Sir Frederick Treves. Di una bellezza accecante il bianco e nero di Freddie Francis, acclamato regista.
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