Dopo essersi sottoposto all’operazione a Casablanca, Elwin Weishaupt (Volker Spengler), si fa chiamare Elvira.
Picchiata, duramente, per aver provato, vestito da uomo, ad andare con un gigolo, non appena ritorna a casa, è pesantemente ingiuriata e offesa da Kristof, l’uomo che convive con lei che, stufo dei suoi bizzarri comportamenti, la pianta in asso.
Zora, la rossa (Ingrid Caven), una materna prostituta, si prende cura di Elvira, ma lei, spezzata dentro, cerca inutilmente conforto nella moglie Irene (Elisabeth Trissenar) e nella figlia.
Dopo aver tirato in ballo in un’intervista Anton Saitz (Gottfried John), un oscuro personaggio, suo ex amante, sopravvissuto ai lager nazisti e arricchitosi con la speculazione edilizia e la prostituzione, Elvira va da lui, nella vana ricerca di affetto ma, ferita dal suo gelido disprezzo, sola e disperata, si suicida.
In questa pellicola, attraversata da un cupo pessimismo, il regista tedesco racconta gli ultimi cinque giorni dell’infelice protagonista, abbandonata da bambino in un convento dalla madre.
Nel corso della narrazione la solitudine di Elvira addenta e trapassa le carni ed è messo sullo sfondo l’amore cieco ed assoluto per Saitz, un uomo per cui aveva deciso a sottoporsi all’intervento e che negli anni non aveva più ricambiato il suo amore.
Quando Zora chiederà a Saitz perché Elvira si era operata, lui freddamente le risponde: “Lui mi guardava in maniera strana ed io gli chiesi il motivo. E lui disse che mi amava. Io rido e dico che anche lui mi piacerebbe se fosse una ragazza e lui lo è diventato. Così è andata. Non c’è altro.”
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