Anno 1944. Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) partigiano romano, giornalista, ideatore di un giornalino che spinge gli italiani a ribellarsi alle forze nazifasciste, per sfuggire alla cattura dei tedeschi, cerca rifugio in un albergo sulle rive del Lago di Como, gestito dall’arcigna Amalia Pavinato (Lina Volonghi).
Scoperto da un soldato tedesco, è sul punto di essere fucilato sul posto, ma Elena, (Lea Massari), la figlia della proprietaria dell’albergo, gli salva la vita, uccidendo il nazista con un ferro da stiro.
Elena gli offre poi riparo in un vecchio mulino, lo rifocilla e diventa la sua donna. Dopo tre mesi, Magnozzi l’abbandona di nascosto, su due piedi, si unisce a un gruppo di partigiani e ritorna a Roma dove trova impiego ne Il Lavoratore, un piccolo quotidiano comunista.
La paga è da fame e, due anni dopo, per un servizio, ritorna a Dongo, sul lago di Como, assieme al collega Franco Simonini (Franco Fabrizi) e rivede Elena, con la quale aveva ormai rotto i rapporti.
Lei è furiosa, gli vomita addosso la propria rabbia ma poi, spiazzandolo, decide di seguirlo nella Capitale. E’ il giorno del referendum del 1946 e gli italiani devono scegliere tra monarchia e repubblica. Elena e Magnozzi non mangiano da giorni e toccano il cielo con un dito quando lei incontra, per caso il marchese Cafferoni (Daniele Vargas), vecchio frequentatore dell’albergo comasco, che li invita a cena a casa di una principessa.
Silvio non nasconde le proprie simpatie per la Repubblica, scatenando il disprezzo degli aristocratici presenti. E’ in arrivo un bebè e Magnozzi pubblica un articolo che annuncia i nomi di intrallazzatori e imprenditori che esportano i capitali all’estero.
Il potente commendatore Bracci (Claudio Gora), in cambio del suo silenzio, gli offre una montagna di soldi e una paga da favola come segretario. Per non scendere a compromessi con la propria coscienza, in nome della rettitudine morale, Magnozzi pubblica egualmente l’articolo ed é condannato con l’accusa di aver calunniato Bracci e gli altri affaristi.
Coinvolto, suo malgrado, negli incidenti a seguito dell’attentato a Togliatti, del ’48, finisce in galera ed esce dopo due anni e mezzo. In carcere scrive un romanzo autobiografico La vita difficile, ma non trova un editore disposto a pubblicarlo, né un regista interessato a tradurlo in un film.
Elena, pressata dalla madre, lo spinge a studiare e a laurearsi, per trasferirsi poi sul lago di Como come insegnante, ma Magnozzi non supera l’esame decisivo. Elena allora, stufa e delusa, lo abbandona.
Grazie al marchese Cafferoni, che sbarca il lunario come comparsa a Cinecittà, Magnozzi scopre che lei si è trasferita a Viareggio e che ha una relazione con un uomo più anziano, ma ricco.
Raggiunta la località toscana, Magnozzi prova a convincerla a ritornare con lui, ma è ubriaco, litiga con l’amante di Elena e ritorna a Roma, ancora più deluso e frustrato di prima.
Passano gli anni e Magnozzi si reca al funerale di Amelia alla guida di una lussuosa e fiammeggiante fuoriserie, frutto del suo nuovo impiego come segretario del commendatore Bracci.
Abbagliato dalla sua nuova posizione economica, Elena lo segue nuovamente a Roma. Nel corso di una festa nella lussuosa villa con piscina di Bracci, Magnozzi è umiliato dal commendatore, sotto gli occhi della moglie.
Allora, mosso dall’orgoglio e dal desiderio di riscatto, con uno schiaffo, Magnozzi scaraventa Bracci in piscina e, fiero e contento, si allontana dalla festa in compagnia della moglie.
Con questo grande affresco della storia italica, che parte dagli anni della Resistenza e arriva fino al boom degli anni Sessanta, Risi regala a Sordi un personaggio impresso ormai nella memoria degli spettatori. Grazie al soggetto e alla sceneggiatura di Rodolfo Sonego, l’attore romano veste, infatti, nuovamente i panni di un uomo meschino, senza qualità, perennemente soggiogato dall’asprezza della vita e arricchisce così la galleria dei suoi personaggi iconici, divenuti simboli dell’italiano piccolo borghese.
Nelle prime battute del film, Magnozzi é mostrato come un coraggioso partigiano ma bastano poche scene, per scoprire che non è affatto un eroe. Infatti, quando i partigiani perlustrano la zona intorno al mulino e lui potrebbe aggregarsi a loro,“vigliaccamente”, rimane rintanato nel suo nascondiglio, preferendo alla dura lotta, il tepore del letto e le attenzioni di Elena.
In realtà, privo di acume e talento, non riesce a conseguire la laurea, non sfonda come scrittore, né è in grado di farsi strada come giornalista al punto che è più volte rimbrottato dal direttore che lo accusa di non comprendere come tira il vento.
Molto più concreti di lui, Simonini che, ben presto, rinnega ideali e passato politico per vendersi ai padroni e la stessa Elena, una donna che lo segue a Roma, (forse) non perché sia veramente innamorata di lui ma, probabilmente, per sfuggire alla piattezza e alla noia della vita di provincia e perché abbagliata dal fascino della Capitale.
Nonostante non protesti per la vita agra che conduce, sembra che nulla lo leghi al marito; lei, infatti, non ha nessuna coscienza politica, non legge i suoi articoli, non s’interessa al suo romanzo e sembra aspirare più modestamente ad appartenere a quella classe borghese agiata non più assillata da problemi economici.
Elena, infatti, dopo aver provato, invano, a convincerlo ad accettare da subito la prima proposta di Bracci, ricordandogli che era in arrivo un bebè, lo spingerà ad abbandonare i propri ideali e a vendere l’anima ad un milionario potente e senza scrupoli, proprietario di giornali, cinema e televisioni.
Quello di Magnozzi rimanda, per certi aspetti, ad altri personaggi interpretati dallo stesso Sordi. Tra questi Giovanni Alberti, il protagonista de Il boom di Vittorio De Sica, (costretto, infatti, a vendere un occhio per accontentare la moglie Silvia, di cui è innamorato, abituata al lusso e alla bella vita) e Antonio Mombelli, protagonista de Il maestro di Vigevano di Elio Petri, (anche lui è ossessionato dalla moglie Ada che gli rinfaccia il successo e il benessere dei concittadini e sogna anche lei di godersi la vita).
Come ha rivelato lo stesso Sonego, per il ruolo di Magnozzi, la produzione aveva puntato inizialmente su Marcello Mastroianni, ma poi l’attore di Fontana Liri fu scartato perché ritenuto “troppo buono e perbene”.
In luogo di Lea Massari, la prima scelta era quella di Gina Lollobrigida, ma l’attrice rifiutò perché non aveva un numero di battute pari a quelle di Sordi.
Fu, di fatto, Sonego che spinse perché Mangozzi fosse interpretato da Sordi, attore, inizialmente ritenuto dalla produzione un “comico” non adatto a calarsi in un personaggio così impegnativo.
In verità, Sordi, come in tanti altri film da lui interpretati, gigioneggia un po’ troppo e carica eccessivamente il suo personaggio, trasformandolo, a tratti, in una macchietta per certi aspetti irritante e respingente. E proprio per questa sua marca di riconoscimento, quella di un attore che ha sempre interpretato personaggi vigliacchi, sottomessi, privi di dignità, muscoli e spina dorsale che, in Ecce bombo, Nanni Moretti nei panni di Michele Apicella, suo alter ego, rivolgendosi a un avventore qualunquista di un bar, gli urla in faccia il famosissimo: “Te lo meriti Alberto Sordi.”
Come ricorda Sonego, il commendatore Bracci è un personaggio chiaramente ispirato ad Angelo Rizzoli e il finale di questa commedia amara, fu imposta da De Laurentiis:
“Una vita difficile è un titolo pensato in antitesi a La dolce vita. Doveva finire senza sputi, cazzotti, tuffi in piscina con l’esibizione di un’Italia in pieno boom, dominata dalle automobili, dai motoscafi, dalle spiagge. Io volevo che il film finisse con l’accettazione del benessere e la triste rinuncia ai propri ideali da parte del protagonista, coerentemente con il resto della vicenda che rappresenta il graduale disfacimento morale e ideologico del personaggio. Poi ha prevalso la tesi del produttore che voleva un finale più gradevole, col riscatto morale del personaggio,, il quale, umiliato di fronte alla moglie, si ribella.”
Anche Dino Risi rivela che il finale fu scritto mentre si girava:
“L’idea dello schiaffo era mia. In un primo momento non piaceva a Sordi, ma poi gli andò bene. Era un finale un po’ aggiustato, però era un finale giusto per quel periodo, anche se le sue promesse non si sono concretizzate. Era un finale rischioso per il personaggio di Sordi. Essendo così clamoroso c’era il rischio che il pubblico non lo accettasse, che “beccasse”, perché Sordi non l’aveva propria scritto in faccia questa grande pulizia e onestà, non solo per la sua vita privata, ma per il film, e gli attori sono un po’ condannati dalla maschera che frequentano e seguitano a usare.”
Sonego, poi, sottolinea anche come lo stesso Sordi, durante la lavorazione del film, avesse provato (invano) a convincerlo a modificare il copione e a far si che Magnozzi accettasse subito la lauta e appetitosa proposta iniziale di Bracci. A riguardo, il soggettista e sceneggiatore bellunese dichiara che nella vita l’attore romano era molto simile ai personaggi che interpretava:
“Sordi era un cagasotto, un fifone che aveva paura di tutto. Ancora nel 1996 a Biagi, che in un’intervista per la Rai lo lodava per la sua interpretazione in Don Abbondio, Sordi elogiava la paura: “Biagi, la paura non è un peccato. La paura è lo stato d’animo di una persona normale. Perché è normale avere paura. Anzi, io credo più a quelli che hanno paura che a quelli che sono coraggiosissimi e che ti spingono, magari, a fare qualche follia.”
A confermare il carattere pavido dell’attore romano, quest’altra rivelazione del regista Giuliano Montaldo:
“Un altro progetto che mi aveva coinvolto molto (…) era quello legato a Gioacchino Belli. (…) Ho voluto una storia stringata, essenziale, che raccontasse come il papato esercitava il suo potere temporale. Per interpretarlo c’era solo un nome: Alberto Sordi. Gli parlai a lungo, sembrava convinto, gli spiegai che volevo sottolineare il suo talento anche sul piano drammatico, cosa che gli faceva molto piacere e che faceva piacere anche a me, dato che penso fosse bravo davvero. Sembrava fatta. Ma all’improvviso tutto crollò, e capii che quel film non si sarebbe mai fatto. Sordi, che fino a quel momento era tutto preso da questioni tecniche (tipo: chi deve dare questa battuta? Quante persone ci sono in scena? Quale battuta devo dire in primo piano?) sembrò quasi rinchiudersi in se stesso e poi, con mia grande sorpresa disse: “ No, io non posso fare questo film (…) Non posso fare un film come questo, perché criticare il Papa può essere pericoloso. Non in questa vita, bensì nell’oltretomba. Quando dovranno scegliere se mandarmi in Paradiso o da Satanasso, io non voglio che Belzebù me se magni per l’eternità.”
A completare il ritratto di Sordi, un uomo attraversato da mille contraddizioni, questa rivelazione di Marco Risi:
“Rossellini era presidente della giuria del Festival di Cannes nel ’77. Fu svegliato nel cuore della notte da una telefonata di Alberto Sordi, che era protagonista del film di Monicelli Un borghese piccolo piccolo, in concorso per la Palma d’oro. Sordi sperava di vincere il premio come migliore attore e probabilmente lo avrebbe anche meritato, però doveva esserne sicuro, per cui, senza troppi peli sulla lingua, gli disse: “Fammi vince, Robbè.” Naturalmente Rossellini cercava di sottrarsi, dicendogli che era tutto segreto e che non dipendeva solo da lui. C’è da dire che Rossellini non stava attraversando un periodo particolarmente felice dal punto di vista lavorativo e gli avrebbe fatto sicuramente comodo qualche nuovo progetto. Per cui Sordi, pensando di poter puntare proprio su quello, tagliò corto con un “Te faccio lavorà”. Chi vinse? L’attore spagnolo Ferdinando Rey.”
Una vita difficile, da molti considerato tra i film più riusciti di Risi, ebbe un discreto successo di pubblico e si aggiudicò due David di Donatello; uno al produttore Dino De Laurentiis e un altro speciale a Lea Massari.
Conquistò, inoltre, tre candidature ai Nastri d’argento per l’interpretazioni di Sordi, Lea Massari e per la sceneggiatura di Sonego. Camei di Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Alessandro Blasetti e Renato Tagliani nelle parti di loro stessi.
Nel cast Franco Scandurra. Tra i brani tante hit del tempo; Tulipan, Ma l’amore no, Dove sta Zazà, Vola colomba, Non dimenticar, Brazil, Resta cu’mme, Only you, La più bella del mondo, Maruzzella e Piove.
Articolo pubblicato nel volume “Alberto Sordi” per Visoni corte, a cura di Giuseppe Malozzi, edito da Aliribelli.
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