Enrico (Marcello Mastroianni) riceve la telefonata di un amico che gli comunica la morte di Dino (Jacques Perrin), il fratello minore. Un flashback ci riporta agli anni della loro infanzia, vissuta a Firenze, funestata dalla precoce scomparsa della madre, morta venti giorni dopo aver dato alla luce Dino, e dal conseguente abbandono del padre.
Enrico e Dino sono allevati dalla nonna (Silvye), perennemente in bolletta. Qualche anno dopo Dino cresce nel lusso, in casa di un gentiluomo inglese, che lo ha affidato alle cure di Salocchi (Salvo Randone), il suo maggiordomo, un uomo severo ed autoritario che gli cambia il nome in Lorenzo, a suo dire, meno volgare del precedente.
Enrico, continua a vivere di stenti, si ammala di tubercolosi ed è ricoverato due anni in un sanatorio. Dino, invece, sempre più indolente e insoddisfatto, non termina gli studi liceali, prende le distanze da Salocchi e, con il passare degli anni, si lega sempre più al fratello. Enrico diventa giornalista e parte per Roma; Dino, dopo aver trovato un modesto impiego come fattorino, si sposa, diviene il padre di una bambina, ma s’ammala di un male misterioso.
Enrico lo ricovera a Roma, gli sta accanto e, prima che muoia, lo riconduce a Firenze.
Tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, il film è girato in maniera intima e trattenuta dal regista, che compone un’opera asciutta, essenziale e senza fronzoli alla quale, in verità, manca un pizzico di anima e di respiro in più che farebbe gridare al capolavoro.
Sin dalle prime battute, Zurlini immerge la vicenda in un’atmosfera dolente, triste e melanconica e la voce fuori campo di Enrico, che snocciola ricordi e riflessioni, fungono da filo conduttore per l’intera vicenda.
Divorato, inizialmente, dalla rabbia e dal rancore per la fortuna capitata al fratello, allevato negli agi e nelle comodità e incapace di perdonargli la morte della madre, Enrico considera Dino un estraneo.
Nel corso del film, i rimorsi per averlo trascurato, prendono sempre più corpo fino a fargli comprendere che il più sfortunato tra i due è il fratello minore, cresciuto senza l’affetto della madre, in una sorta di prigione morale che gli aveva fiaccato l’anima ed il corpo.
Sollecitato dalla nonna a prendersi cura di lui (“Non lo devi abbandonare E’ tuo fratello, non ha che te”), Enrico prova a riscaldargli un po’ il cuore ed, accogliendo le sue regressive richieste di aiuto, cerca di colmare il suo vuoto affettivo. Durante il film Enrico prova, invano, a scuoterlo dal suo torpore e a spingerlo a dare una sterzata alla propria vita.
Il film, sceneggiato dallo stesso Pratolini, insieme al regista e a Mario Missiroli, s’avvale della calda fotografia di Giuseppe Rotunno, ispirata ai dipinti di Ottone Rosai. A rendere più plumbea l’atmosfera che si respira nel film la funerea colonna sonora in sottofondo, firmata da Goffredo Petrassi.
Leone d’oro al Festival di Venezia 1962 come miglior film ex aequo con L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij. Nastro d’Argento 1963 alla miglior fotografia per Giuseppe Rotunno.
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