“Ci si uccide solo per esistere: il suicidio nell’adolescenza” (con Davide Iodice, Elisa De Vivo, Federica Marmo) in “Il sucidio in adolescenza. Quando la vita deraglia ” a cura di Z. Formella, A. De Filippo- Alpes Edizioni – 2009

22 Agosto 2009 | Di Ignazio Senatore
“Ci si uccide solo per esistere: il suicidio nell’adolescenza” (con Davide Iodice, Elisa De Vivo, Federica Marmo) in “Il sucidio in adolescenza. Quando la vita deraglia ” a cura di Z. Formella, A. De Filippo- Alpes Edizioni – 2009
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Introduzione

A partire dall’800 si estende in Europa un notevole interesse per il tema del suicidio, grazie al successo di alcuni romanzi della letteratura romantica ed in parte alla maggiore precisione nella registrazione degli atti di morte. L’approccio Romantico al suicidio prevede il concentrarsi su tematiche legate maggiormente alla sofferenza del singolo individuo, intendendolo come gesto di libertà dalle sofferenze. È il caso delle “Ultime lettere di Iacopo Ortis” del Foscolo, opera pubblicata nel 1802, in cui l’autore offre ai lettori le proprie tristezze ed esperienze più intime, le infelici passioni e i fallimenti amorosi che gli ispirano il desiderio “romantico” di por fine alle proprie tribolazioni, per trovare la pace che non riesce ad avere nella sua quotidianità terrena. La morte diventa quindi “amica” del protagonista, unica entità capace di comprendere i suoi dolori e viene invocata poiché considerata “necessaria e dolcissima”. La morte non è vista come annullamento totale, come risposta puramente negativa ad una situazione storica senza via d’uscita: essa consente la sopravvivenza, un legame con il mondo dei vivi, attraverso il ricordo affettuoso e il compianto delle persone care; l’impossibilità di agire conduce Ortis a rivolgere l’azione contro se stesso, togliendosi la vita.

Altro esempio letterario è rappresentato da “I dolori del giovane Werther” di Goethe, che definisce il suicidio come conseguenza di un sentimento di distruzione appartenente ad alcuni individui che in particolari momenti della vita se ne sentono irrimediabilmente attratti, in quanto viene a mancare in loro la capacità di sopportare le sofferenze.

Alla fine dell’Ottocento, in seguito alle osservazioni di Emile Durkheim, l’indagine si sposta al di fuori dell’individuo, estendendosi alla società. La teoria condivisa dalla psichiatria classica secondo la quale il suicidio ha sempre qualcosa di patologico e riguarda esclusivamente l’uomo “quando è in fase di delirio” (Jean Esquirol in “Des maladies mentales”,Parigi 1838), viene così superata dal concetto di integrazione nei gruppi sociali di cui fa parte l’individuo, come elemento chiave (società religiosa, famiglia, società politica). A tale proposito Durkheim distingue tre tipi di suicidio:

  1. Egoistico, a partenza da un estraniamento dal gruppo con conseguente stato depressivo ed isolamento.
  2. Altruistico, che nascerebbe da una condizione completamente opposta:la scarsa individualizzazione e l’eccessiva integrazione con conseguente perdita di definizione di identità e sacrificio per la comunità.
  3. Anomico, cioè dettati da squilibri sociali, tipici di fasi di crisi economiche o variazioni repentine di carriera; dunque,l’uomo si ucciderebbe rivolgendo contro se stesso l’aggressività accumulata contro gli altri.

Quest’ultimo concetto è vicino a quello successivo freudiano, che sostiene che il suicidio, in tutte le sue manifestazioni sia niente altro che un omicidio inconscio; in questo senso anche il suicidio “egoistico”, quello depressivo, sarebbe frutto di un’aggressività inespressa verso coloro che abbandonano; aggressività che viene rivolta per via di un forte senso di colpa, non verso gli altri, ma verso se stessi e che nello stesso tempo si rivela nella sua natura reale, nello scaricare il peso della colpa della propria morte sulle spalle altrui.

Un contributo significativo allo studio psicoanalitico del suicidio proviene da Melanie

Klein e dalla teoria delle relazioni oggettuali, la quale riprende e modifica alcuni degli assunti freudiani, arrivando a postulare come il fine delle fantasie che sottendono il suicidio è la

salvaguardia degli oggetti buoni interiorizzati e di quella parte dell’io che si identifica con tali

oggetti buoni, mediante la distruzione di quell’altra parte dell’Io che si identifica con gli

oggetti cattivi e con l’Es. In tal modo l’io può unirsi per sempre con l’oggetto amato. In altre

parole il suicidio come opposizione fantasmatica ad un oggetto negativo introiettato. Altri

autori videro nel suicidio l’espressione di un’immaturità del soggetto incapace di separarsi

dalla madre, nel rapporto con la quale si ferma ad uno stadio simbiotico, ossia al primo

periodo, nel quale è incapace di distinguere gli oggetti dal Sé. Il gesto suicidario assumerebbe

il sembiante del ricongiungimento inconscio con la madre fusionale interiorizzata quale unico

possibile oggetto di relazione.

Karl Menninger mette in luce il significato magico che il suicidio assume agli occhi del suicida.

Come il bambino, il suicida mancherebbe di un adeguato esame di realtà e si illuderebbe di

tornare a vivere dopo la morte. Questa ipotesi trova riscontro anche nella clinica, dove il

suicida sovente ne effettua un’accurata progettazione, come se dalla rappresentazione della

scena, ne dipendesse una sorta di soddisfazione che precede, accompagna e segue il soggetto,

tanto da credere di potere sperimentare anche dopo morto, il piacere dell’atto e dell’effetto

che avrà sugli altri.

Franco Fornari pone l’accento sull’aspetto metacomunicativo dell’atto autoaggressivo,

ritenendo che il suicida, sebbene sembri volere negare il proprio rapporto con il mondo, in

realtà lo cerca disperatamente (lo stesso titolo di questo articolo, celebre aforisma di Andrè Malraux, evidenzia questo concetto). Anche i teorici della Teoria dell’attaccamento, in un’ottica

similare, interpretano tale atto come un meccanismo di attaccamento attivo, la cui funzione

consisterebbe nel segnalare ad individui appartenenti allo stesso gruppo sociale e carenti di

relazioni interpersonali valide con il soggetto, la volontà di punirli per il loro atteggiamento

rifiutante. Il suicidio si configura perciò come un catalizzatore dell’attenzione del gruppo

sociale, un legame d’attaccamento alternativo.

In un’ottica più recente il fenomeno del suicidio può essere interpretato su tre livelli contemporaneamente:  quello sovrastrutturale (ideologico, religioso); quello strutturale (sociale, legato alla comunità di appartenenza ed al ruolo occupato in essa); quello sottostrutturale (problematiche psichiche individuale,aspetti di personalità). Nell’indagine su ciascun evento, dunque, non è possibile trascurare una contestualizzazione del disagio individuale.

 Analizzando il fenomeno da un punto di vista puramente etologico, l’uomo non può uccidere o uccidersi in quanto il codice genetico impedisce di uccidere all’interno della propria specie, per non indebolirla. Si può fare eccezione a questa regola esclusivamente se si riesce a considerare se stessi o l’altro  come meno di un uomo, al di fuori della specie. In un’ottica sociologica, la perdita dei rapporti sociali svuota l’uomo della sua umanità, definendolo come diverso, come non uomo. La rabbia verso coloro che lo rendono animale inferiore, al di fuori della specie,  non potendo essere esercitata distruttivamente verso il mondo intero, verrebbe rivolta verso se stessi.

Definizione

Le condotte suicidiarie vanno dal suicidio a termine, al tentativo di suicidio, al parasuicidio. Il tentato suicidio  è definibile come un comportamento autolesivo finalizzato alla morte del soggetto, che comporti un danno clinicamente identificabile [1]. Comprende sia il tentativo ad alta letalità in cui il soggetto sopravvive solo per una casualità, sia quello a bassa letalità, generalmente impulsivo. Con il termine parasuicidio si intende un atto non letale, a fine dimostrativo o una condotta senza chiaro intento di morte, lesiva per l’individuo (ad esempio il vomito protratto nelle bulimiche). Solitamente è associato a importanti richieste di aiuto.

In genere, colui che si suicida è un individuo vulnerabile, socialmente e/o psicologicamente isolato, che non sa dare risposte adeguate alle necessità e ai problemi della quotidianità; il suicida presenta un grave “scollamento” tra il senso della realtà e il suo mondo immaginario. Il risultato finale è la rischiosa convinzione che il corpo (e la vita stessa) siano all’origine del dolore fisico e/o esistenziale: è sufficiente liberarsene, per rasserenarsi.

Suicidio nell’adolescenza

Il rapporto con la morte durante il ciclo vitale si evolve notevolmente e subisce importanti variazioni. Nell’infanzia è quasi assente, in quanto è comune una tendenza a vivere una dimensione di eterna esistenza ed onnipotenza e quando lo sfiora, la fine della vita viene percepita come la fine del mondo. Nell’adolescenza questo pensiero compare in modo irruento e spesso viene ingenuamente sfidato con comportamenti a rischio tendenti a sottolineare la percezione del concetto di morte come lontano e quasi puramente teorico. Con il raggiungimento dell’età adulta il ricordo di questi vissuti determinerà stupore per l’incoscienza dimostrata in occasioni di pericolo.

I fattori scatenanti per gli adolescenti sono apparentemente banali: insuccessi scolastici, delusioni affettive, frustrazioni de liti in ambiente familiare. Può essere ingannevole tuttavia rilevare il suicidio di un adolescente come conseguenza di un preciso e ben definito momento scatenante, dimenticando le complesse dinamiche che possono condurre all’autoeliminazione. Né bisogna trascurare che l’oscillazione tra il timore della morte e la sua fascinazione è emblematica di questa fase della vita, come osservato da E. Borgna “non voglio morire, ho paura della morte, ma posso superare questa paura solo sfidando la morte stessa: solo cercandola e realizzandola” [2]. Esporsi al pericolo diventa così non necessariamente un modo per farsi del male, ma una modalità per dimostrare a se stessi la propria invulnerabilità.

 L’adolescenza è la fase in cui si costruisce l’identità personale, un processo di definizione di sé che procede di pari passo con le trasformazioni fisiche. Ogni evento traumatico che si verifichi in questa fase può avere risonanze importanti sulla struttura di un soggetto “in divenire”. Dal punto di vista clinico i sentimenti di disperazione, l’impulsività, l’abuso di sostanze, gli stati d’ansia incontrollabili sono le dimensioni psicopatologiche principali da indagare nella valutazione del rischio suicidario.

Il disturbo psichico che più frequentemente viene diagnosticato è la depressione. L’individuazione  di questa condizione clinica è molto più complessa in questa fase della vita, in quanto sintomi quali irritabilità e tendenza a sottrarsi alle relazioni sociali  sono spesso al confine con il normale atteggiamento del soggetto rispetto ai cambiamenti dovuti alla crescita.   Tuttavia, a parte una piccola percentuale di adolescenti che segnalano con un tentativo di suicidio il debutto ufficiale in una grave psicosi o uno stato depressivo maggiore, la maggior parte di essi sono difficilmente inquadrabili in una diagnosi clinica convincente o a posteriori vengono con non poche forzature incasellati nosograficamente più per una necessità del clinico di spiegare ciò che apparentemente sembra inspiegabile; piuttosto sono riconducibile a problematiche critiche quali lutti e difficoltà vissute come insormontabili.

Il discorso relativo all’isolamento sociale come elemento cardine del rischio suicidario, è ancora più evidente in adolescenza, periodo in cui l’appartenenza al gruppo di riferimento è vissuto come essenziale ed il terrore di essere socialmente invisibili viene alimentato anche dal modello televisivo e multimediale di successo. La vergogna che deriva da un fallimento è riconducibile al sempre maggiore scarto rilevabile tra il Sé reale e quello Ideale, frutto della “società del Narcisismo”.La mortificazione che deriva dal mancato riconoscimento da parte dei coetanei è un’esperienza ancor più dolorosa per quei ragazzi le cui esigenze di conferme non siano sufficientemente appagate in famiglia ed in cui il Sé ideale sia più irraggiungibile.

L’adolescente di per sé è vulnerabile in quanto si confronta con cambiamenti notevoli in diverse aree. La prima è certamente l’acquisizione di competenze sessuali. L’emergere di nuove pulsioni e necessità porta a scontrarsi, non sempre in maniera incruenta, con mutamenti radicali dell’immagine corporea  e delle certezze coltivate in infanzia, con la necessità di confrontarsi anche con una definizione di identità di genere e sessuale. Molti autori sostengono che proprio in quanto il corpo viene ad essere improvvisamente uno sconosciuto, si presta in maniera sorprendente ad essere sede del persecutore, sede delle frustrazioni inevitabili nel cambiamento sia in quanto significante della crescita sia poiché si presta ad essere simbolo del legame con i genitori divenuti a loro insaputa ostacoli insormontabili invece che risorse al servizio del processo di crescita [3,4,5]. È ampiamente noto che la maggior parte degli adolescenti sperimenti stati di incertezza e dubbio rispetto alla propria identità sessuale e che nonostante molti abbiano comportamenti omosessuali, solo una minoranza acquisisce poi un orientamento predominante o esclusivamente omosessuale. Un’area di recente interesse ha esplorato il delicato rapporto tra rischio suicidario e problematiche dell’identità sessuale, in particolare una serie di ricerche ha verificato in che modo l’orientamento sessuale delle persone possa costituire un fattore di rischio. Si evince che gli omosessuali hanno una probabilità significativamente maggiore degli eterosessuali di tentare il suicidio e che la quasi totalità dei tentativi di suicidio erano avvenuti in adolescenza ed erano associati alle problematiche emotive del riconoscersi omosessuali [6]. Il periodo di riconoscimento della propria diversità è vissuto come una fase di stravolgimento emotivo, di crollo di autostima e di compromissione delle relazioni sociali. Alcuni studi [7] evidenziano due  fattori di rischio probabilmente correlati tra loro:il precoce riconoscimento della propria omosessualità e la non conformità al ruolo maschile. Il primo dato suggerisce che probabilmente esiste una relazione inversa tra problemi psicosociali ed età nell’acquisizione della identità omosessuale: minore è l’età in cui ci si definisce omosessuali maggiori sono i rischi psicosociali, e ciò è probabilmente dovuto al fatto che i preadolescenti sono meno maturi emotivamente, hanno meno abilità sociali e sono quindi meno in grado di fronteggiare l’isolamento e l’ostilità sociale. Dal secondo risultato se ne ricava che la conformità di genere nei maschi omosessuali ha come un effetto protettivo. L’essere effeminati può accentuare il senso di diversità con gli altri ed esacerbare il senso di disagio psicologico e l’esposizione al rifiuto dei pari, all’isolamento e alla ridicolizzazione.

Altrettanto importante sembra il ruolo del sostegno familiare. La scoperta da parte dei genitori dell’omosessualità del figlio spesso corrisponde ad un periodo di stravolgimento nelle dinamiche familiari ma anche quando l’omosessualità non viene scoperta né rivelata, la situazione per l’adolescente può essere ugualmente stressante in quanto spesso attua un monitoraggio, a volte esasperato, delle informazioni su di sé per mantenere la clandestinità.

Indipendente dal discorso legato alla sessualità, ma altrettanto importante e da non trascurare, la spinta centrifuga verso il mondo esterno che il soggetto,interprete fino ad allora del ruolo di figlio in famiglia,sperimenta e vive con ambivalenza. Sentimento spesso alimentato da genitori tendenti ad arrestare il naturale processo di crescita, o quantomeno a non sostenerlo, per una inadeguatezza al ruolo. Non c’è adolescente senza momenti depressivi connessi a sentimenti di perdita, primi fra tutti quelli dovuti al distacco dai genitori. Le angosce soprattutto sperimentate dalla madre, sono a volte di eccezionale intensità e promuovono difese molto rigide che interagiscono con le ansie di abbandono, i sentimenti di colpa e di vergogna del figlio che con grande disperazione cerca di dimostrare a sé stesso e agli altri di potercela fare e di non essere condannato a rimanere figlio per sempre. Come  tenere in vita la madre mentre la si uccide è la questione spesso insolubile di fronte alla quale l’adolescente si ritrova. D’altra parte il figlio condivide spesso le angosce della madre: neppure lui sa come andrà a finire. Il non riuscire a fronteggiare questa fase di separazione-individuazione in maniera adeguata, porta al suicidio, che rappresenterebbe l’estremo tentativo di ricostruire l’unione perduta, ritornando nel ventre materno [8] e ripristinando l’equilibrio precedente. La mancata approvazione del mondo esterno e l’emergere di sconfitte nella quotidianità, favoriscono queste tendenze profondamente regressive atte a porre rimedio al senso di disperazione e di vuoto. L’80% dei tentativi di suicidio nei giovani avviene con assunzione di farmaci; più raramente con flebotomia,precipitazione, armi da fuoco, gas, annegamento,ingestione di tossici [9]. Altro fenomeno diffuso è quello dei “suicidi a grappolo” (episodi che coinvolgono più soggetti in un ambito spazio-temporale limitato o di gruppo). Qualsiasi sia la modalità e la determinazione del tentativo, va sottolineato che esso è comunque segnale di un disagio da non sottovalutare e di una scarsa tolleranza alle sofferenze ed alle frustrazioni. Per quanto riguarda il rischio di recidive nei sopravvissuti, esse sono più probabili quando alla base del tentativo vi è stato un sentimento di vergogna, una ferita narcisistica, mentre lo sono di meno quando il gesto è stato compiuto per un senso di colpa secondario ad un tono dell’umore deflesso, in quanto il gesto suicidario in sé , anche se fallito,funge da sistema di espiazione e consente una possibilità di crescita interiore [9].

Ribadito comunque che non esiste una personalità tipo dell’adolescente suicida e che in questo campo qualsiasi esemplificazione risulta riduttiva e fuorviante, un’interessante, ben nota e per certi versi condivisibile disamina è quella di V. Andreoli [10]:  egli sostiene che i giovani di oggi non riescano ad elaborare in modo adeguato la percezione della dinamica temporale  ed in particolare il concetto di futuro. Essendo alterata la concezione di futuro scompare anche la dimensione prospettica di morte, che assumendo fattezze cinematografiche e televisive (come un colpo di scena, sorprendente quanto provvisorio e necessario alla trama), diventa un modo per tirarsi fuori da situazioni scomode come se fosse un fatto transitorio e non definitivo [11]

Fattori di rischio

Il suicidio rappresenta la terza causa di morte tra i giovani, arrivando al 12% di tutte le morti tra i 15 ed i 24 anni [12]; negli Stati Uniti ogni 2 h un giovane di età inferiore ai 25 anni compie un suicidio. L’ideazione suicidaria rappresenta anche un importante marker di problemi mentali, comportamentali (comportamenti sessuali a rischio), uso di sostanze, e condotte antisociali che possono persistere fino all’età adulta. Appare, pertanto, evidente come sia importante riconoscere i fattori sottostanti il rischio suicidario nei giovani. Tra questi si individuano: precedenti tentativi di suicidio, concomitante uso di alcool e stupefacenti, familiarità per suicidio, quadri psicopatologici rilevanti nei genitori, facilità di accesso a strumenti letali come le armi, precedenti di abuso sessuale o psichico, tendenze omosessuali, rapporti conflittuali in famiglia, mancanza di coinvolgimento nella vita scolastica o sul lavoro. In particolare, ci sono molte evidenze di una predisposizione al suicidio in soggetti esposti ad eventi traumatici. Alcune esperienze condividono stili cognitivi ed affettivi che predispongono un ragazzo ad una condizione psicopatologica che può determinarlo [13]; tra questi gli abusi fisici e sessuali sono stati ampiamente associati al suicidio.  Poco è stato studiato circa i maltrattamenti psicologici [14; 15]; l’American Accademy of Pediatrics li definisce come un pattern ripetuto di interazione dannosa tra il bambino e chi se ne prende cura, con conseguenze negative sulla salute mentale , includendo disordini internalizzanti (depressione, ansia, ideazione suicidi aria), e problemi esternalizzanti (distrubi della condotta, aggressività, abuso di alcool e sostanze, comportamento suicidario).   Il trauma della vittimizzazione nei bambini è spesso associato con l’impulso autodistruttivo che emerge dall’isolamento, solitudine, depressione e ridotta autostima. Per quanto riguarda l’uso di alcool  l’assunzione  può  essere responsabile dell’effetto disinibente che trasforma l’impulso auto-distruttivo in azione [16]. Molta importanza è stata data all’abuso di alcool come fattore esacerbante ed elicitante il suicidio. L’abuso di alcool aumenta il numero di suicidi non pianificati tra coloro che hanno un’ideazione suicidaria e l’uso di alcool è predittivo di successivi tentativi. Inoltre, gli alcolisti che tentano il suicidio usano metodi più letali dei non alcolisti (Nielsen 1993). Una storia familiare positiva di alcoolismo è associata con entrambi abuso di alcool e comportamento suicidario. Individui depressi con una storia familiare positiva di alcolismo presentano una più alta prevalenza di abusi sessuali e fisici, più tentativi suicidari, un maggiore intenzione di morte e con una maggiore letalità [17].

 Zilboorg (1936) rileva che in molti casi, coloro che si suicidano o tentano di suicidarsi hanno avuto in infanzia ed adolescenza un’esperienza di nucleo familiare con uno dei due genitori più defilato in termini di presenza affettiva. Le esperienze infantili traumatiche predisporrebbero l’individuo ad un’instabilità emotiva che porterebbe all’isolamento sociale. Questi due elementi (conflitti familiari e scarsa partecipazione alla vita della comunità), in uno studio del 2006 condotto negli Stati Uniti su adolescenti americani, vengono indicati come i maggiori predittori di rischio suicidario.

È noto come di fronte ad un medesimo fenomeno ci siano risposte soggettive diverse da parte dell’adolescente a seconda del funzionamento psicologico e quindi della struttura di personalità, del periodo evolutivo e del funzionamento familiare. Un concetto importante a questo riguardo è quello di resilienza che indica la presenza di risorse personali che , nonostante circostanze difficili permettono all’individuo il loro superamento senza gravi conseguenze psicologiche. In quest’ottica potremmo pensare che un tentativo di suicidio rappresenti il segnale di una limitata capacità di resilienza

Intervento terapeutico

Il trattamento dell’adolescente che ha tentato il suicidio va attentamente valutato data anche le peculiarità della fascia d’età in cui interviene. Nella progettazione dell’intervento si dovranno tenere in considerazione due aspetti fondamentali: la gestione della crisi acuta ed il trattamento più a lungo termine. Se il gesto è preceduto da un’accurata pianificazione, va considerato molto più seriamente di un suicidio che non è andato a compimento. Il gesto andrà sempre valutato in base all’obiettivo

che il giovane si è posto ed il contesto entro il quale è maturato: esso potrà rappresentare una

risposta ad una crisi in famiglia, ad una perdita di un legame, o rappresentare una richiesta di

attenzioni o di affetto.

Gli adolescenti sono tradizionalmente restii a cercare spontaneamente aiuto per le loro difficoltà, e spesso arrivano all’attenzione del clinico portati dai famigliari. Accade spesso che anche la stessa famiglia abbia difficoltà ad aprirsi per timore di modificare la seppur precaria omeostasi familiare. La tendenza più diffusa è la negazione dell’atto da parte di chi sta intorno al ragazzo, si evita di parlarne nel tentativo di normalizzare la situazione. Questo non aiuta l’adolescente a dare un senso all’esperienza ma ne esaspera il vissuto di disperazione che è un aspetto saliente dell’atto suicidario, molto più della depressione che è una condizione possibile, ma non necessaria.

L’obiettivo dell’intervento terapeutico successivo ad un tentativo di suicidio deve essere teso ad allentare le tensioni che hanno portato il soggetto a pensare di non avere via di uscita per evitare che ci siano nuovi recidive. Un intervento immediatamente successivo ad un gesto suicidario si colloca in una finestra temporale in cui le usuali difese psicologiche sono crollate e, prima che si riorganizzino, c’è margine per proporre un adeguato intervento di cura e sostegno, teso non solo al superamento della crisi, ma anche e soprattutto ad un significativo cambiamento delle capacità adattive del soggetto. Per raggiungere questi obiettivi può essere necessario un ricovero, durante il quale l’intervento viene effettuato in equipe, in maniera tale da gestire più agevolmente le quote di angoscia, le preoccupazioni e la complessità legata alla gravità dell’evento occorso. Uno dei maggiori rischi per l’intervento è l’abbandono precoce della terapia. Per limitare questo problema si ritiene fondamentale il coinvolgimento nell’intervento di tutto il nucleo familiare, tenendo anche conto che ambedue i genitori, ma più spesso più uno dell’altro, sono i reali destinatari dell’acting commesso dal figlio o dalla figlia, al di là dei falsi bersagli dichiarati.
Considerare uno dei due genitori non tanto come la causa o comunque il promotore dell’ acting del figlio, quanto come il destinatario dell’appello, induce a prendere in seria considerazione il progetto di recapitarlo affinché il figlio non sia costretto ad alzare il volume e la gravità dei gesti da compiere per riuscire a farsi intendere. è essenziale instaurare un’alleanza terapeutica che assicuri il mantenimento della terapia e contrastare la negazione di un disagio come causa dell’evento; negazione che si attiva sia nel giovane che nei genitori, ansiosi di “ritornare alla normalità” . Gli incontri sono finalizzati alla comprensione del comportamento suicidario, al dare un nome alla disperazione del soggetto e a contestualizzarla nell’ambiente di vita quotidiana, oltre che ad escludere la presenza di rilevante psicopatologia. In questi ultimi casi va valutata l’opportunità di associare una terapia farmacologica adeguata. In condizioni depressive la scelta è più ardua in quanto ci sono evidenze discordanti relative all’impiego di antidepressivi. Studi recenti concordano nel sottolineare come essi possano precipitare negli adolescenti comportamenti suicidiari, agendo prima sulla disinibizione motoria e solo successivamente sull’umore. Altri studi ipotizzano un aumento dei sucidi nei giovani pazienti non trattati. Più in generale si può dire che attualmente il trattamento farmacologico con antidepressivi nel caso di adolescenti suicidari non è considerato di prima scelta ma da impiegare se non si sono ottenuti risultati soddisfacenti con la psicoterapia, purchè i familiari garantiscano la regolarità del trattamento, che non deve essere gestito esclusivamente dall’adolescente.  A questo intervento nelle vicinanze temporali del gesto suicidale faranno ovviamente seguito altri colloqui che materializzano il progetto che è stato predisposto nel corso del colloquio di restituzione. Si tratta di un processo più o meno lungo, il termine del quale è raggiunto allorché si abbia ragione di ritenere che i principali fattori che potrebbero congiurare ad ispirare una recidiva dell’ atto suicidale sono largamente sotto controllo e divenuti oggetto di franca discussione e di elevato livello di consapevolezza. Una fase delicata a cui va prestata particolare attenzione è proprio la conclusione del rapporto terapeutico. Non di rado, infatti,  gesti autolesivi vengono espletati in concomitanza con questa fase del trattamento, poiché riporta a vissuti di separazione, accentuando la negazione come difesa verso il senso di perdita incombente. Il processo di conclusione, quindi, dovrebbe essere programmato per tappe, attraverso una riduzione progressiva dei contatti con il terapeuta, il quale dovrebbe condurre l’adolescente a decidere di terminare il trattamento. Sedute di follow-up e contatti telefonici dovrebbero essere comunque mantenuti nel lungo periodo come monitoraggio continuo del rischio.

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