Ignazio Senatore: “Cinema e alcol” Rivista di Alcologia – N.13 – 2012

8 Novembre 2012 | Di Ignazio Senatore
Ignazio Senatore: “Cinema e alcol” Rivista di Alcologia – N.13 – 2012
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  1. Introduzione

“Il bere è un ottimo coperchio per tante cose.”  (Da Dalla Terrazza)

“Basta un sorso per capire se è buona la bottiglia” (da “Il letto racconta.”)

“Mia madre è arrivata a novant’anni, e sapete perché? Non ha mai toccato un bicchiere di whisky…si attacca direttamente alla bottiglia” (Da Baciami stupido)

“Il mondo mi sembra tanto sudicio quando non bevo.” (Da I giorni del vino e delle rose)

Sono sempre stato affascinato dalla capacità del cinema di declinare il complesso e variegato universo alcolomanico. Nel volume “Curare con il cinema” avevo dedicato all’argomento due capitoli: “Cipria, smalto, rossetto ed una bottiglia di whiskey” e “Sul desiderio alcolomanico ed altre storie” e nel successivo “Cinema, mente e corpo” proposto una serie di schede film ed un’accurata filmografia ragionata. In questo articolo guiderò il lettore tra le numerose pellicole prodotte sul tema,  suddividendo quelle più significative in alcuni sottogruppi.

  1. Gli alcolisti cronici

Sin dagli albori del cinema, registi e sceneggiatori, hanno mostrato quei personaggi che brindano e festeggiano con parenti ed amici, matrimoni, successi e ricorrenze. Parimenti, al di là dell’aspetto conviviale e socializzante del bere, lo schermo ha descritto quei personaggi perennemente attaccati alla bottiglia che, nel corso della narrazione, completamente sbronzi, finiscono per perdere se stessi e franano di colpo sul pavimento, come dei burattini senza fili, Registi e sceneggiatori mostrano impietosamente la loro discesa negli inferi, siano essi clochard (Ironweed, Angeli con la pistola…), scrittori falliti (Factotum, Giorni perduti…), vittime di eventi traumatici o dolorosi (Dalla terrazza, Sotto il vulcano), fino a filmarli quando, in crisi d’astinenza, sono colti da delirium tremens ed allucinano topi, lucertole ed iguana (Giorni perduti, I senza nome). In Giorni perduti di Billy Wilder (1945), (forse) la pellicola più evocativa prodotta sul tema, Don Birman (Ray Milland), solo e disperato, cerca di affogare la propria disperazione nell’alcol. Né l’amore di Helen, né le discrete attenzioni di Gloria riescono a distoglierlo dal suo progetto autodistruttivo. Con affilata precisione Wilder mostra il dramma del protagonista, con la mente sempre più corrosa dall’alcol, costretto a bere sin dal mattino per evitare di essere travolto dall’insorgere delle crisi d’astinenza. Ma, forse, al di là del plot narrativo, il film verrà ricordato per quella scena d’antologia che mostra le terrificanti allucinazioni visive che colpiscono Don; in preda al delirium tremens allucina un topo in una feritoia del muro di casa ed, un attimo dopo, visualizza un pipistrello che azzanna il roditore. In Tenera è la notte di Henry King  (1962) Dick Diver (Jason Jr. Robards) è un valente psichiatra che ha sposato la ricca Nicole, sua ex paziente ed, abbandonata la professione, accecato dal lusso e dal bel mondo, finisce per perdere la propria identità professionale. Con il passare del tempo, la nostalgia per il lavoro si fa sempre più acuta e , dopo aver accumulato una serie di fallimenti professionali, Dick diluisce delusioni e frustrazioni nell’alcol. Sul finale, a Nicole non resta che chiedere il divorzio ed immergersi in un nuovo amore. Ambientato negli Anni Venti, il film è una sciatta e lenta trasposizione del bellissimo romanzo del 1934, scritto da Francis Scott Fitzgerald. Seppur stilisticamente deludente, descrive con maestria la deriva di un uomo che, dopo aver sacrificato il proprio talento sull’altare dell’effimero e della vacuità, annega irrimediabilmente nei fumi dell’alcol. In Via da Las Vegas di Mike Figgis (1995) Ben (Nicolas Cage), licenziato come sceneggiatore ed abbandonato da moglie e figlio, ritira tutti i risparmi e parte alla volta di Las Vegas con l’obiettivo di ubriacarsi fino morire. Mentre vaga completamente sbronzo per la città incontra Sara, una bellissima prostituta d’alto bordo che si prende cura di lui. Tra i due scatta l’amore e la donna, dopo averlo tirato fuori dallo squallido alberghetto dove si era rifugiato, lo ospita in casa e prova, invano, a strapparlo dal suo progetto autodistruttivo. Sin dalle prime sequenze Figgis mostra il protagonista perso e smarrito che, dopo aver bruciato la foto che lo ritrae con moglie e figlio, si aggira come un ombra per Las Vegas e, nel corso del film a Sara, confiderà:“Non mi ricordo se ho incominciato a  bere perché mia moglie è scappata o se mia moglie è scappata perché ho cominciato a bere. Ma chi se ne frega.” La pellicola, dolente e disperata, deve la propria forza nella coraggiosa scelta del regista di non edulcorare la trama con un lieto fine ma di lasciare che la scelta autodistruttiva del protagonista non muti neanche con l’entrata in campo della bellissima e tenera Sara, un angelo biondo, dannato e disperato come lui.

  1. Le alcoliste

Seppur interpretate da attrici di indubbio fascino come Faye Dunaway, Meryl Streep, Lee Remick, Kim Basinger e Meg Ryan, la fabbrica dei sogni ha impietosamente mostrato diverse protagoniste che, dopo aver dissipato tra i fiumi dell’alcol la propria bellezza, vanno incontro ad un inarrestabile processo d’autodistruzione. In Piangerò domani di Daniel Mann  (1955), biopic romanzato della vita di un’attrice in voga nei primi anni 30) Lillian (Susan Hayward) è una star affermata. Dopo la morte di  David, suo futuro sposo, si attacca sempre più alla bottiglia. Sin dalle prime battute la stessa Lillian commenta con estrema lucidità la propria scelta alcolomanica: “Aveva ragione mia madre, la tensione diminuiva, Dopo il secondo bicchiere piombai in un sonno profondo, il primo dalla morte di David. Da quella sera in poi bevvi sempre. L’appoggio di mia madre era ormai superfluo. Il coraggio mi veniva dalla bottiglia, per la prima volta mi sentivo sicura in scena. Sentivo anche di piacere al pubblico, e me lo pensavo, ero  qualcuno, ero meravigliosa, ero la più brava cantante del mondo.” E successivamente: “Vivevo nel terrore che mi scoprissero, che il mio nome finisse su tutti i giornali. Come tutti gli alcolizzati mentivo a me stessa. Mi dicevo che bevevo perché avevo un animo sensibile, ero un artista e non ero compresa, Un giorno era per sollevarmi perché ero a terra, un altro era per calmarmi, un altro perché ero euforica.”. Incapace di mettere ordine nella propria vita sentimentale, perennemente sbronza, Lillian abbandona le scene fino a ridursi a girare, senza meta, per strada come una clochard, elemosinando un goccio di whisky. In preda al delirium tremens tenterà il suicido ma grazie agli AA uscirà dal tunnel dell’alcolismo. In Amarsi di Luis Mandaki (1994)  la dolce e sorridente Alice (Meg Ryan) madre dei piccoli Jess e Casey, “felicemente” sposata con Michael, pilota d’aereo, già dal mattino non disdegna di bere un goccio d’alcol. ed in un crescendo è ricoverata in una clinica per alcolisti. Dopo affanni e tormenti, Alice riesce a ritrovare se stessa. Pellicola zuccherosa che ruota intorno ad Alice, una donna giovane e bella che, dietro i suoi smaglianti sorrisi, nasconde un mondo d’inquietudine e di tormenti, legato al difficile, disarmonico e conflittuale rapporto con il marito. Il film visivamente piatto merita però la visione perché mostra Michael che si mette in gioco e frequenta un gruppo di aiuto-aiuto per familiari di alcolisti e, sul finale, mostra la smarrita protagonista che in un incontro degli AA racconta come sia riuscita a debellare il demone dell’alcol:

“Salve, mi chiamo Alice e sono alcolizzata. Sono sobria da 124 giorni. Ho bevuto la mia prima birra quando avevo nove anni. Mio padre è un alcolista e a mia madre piaceva dare la colpa al suo cattivo esempio se io bevevo. Così ci colpiva tutti e due. Comunque, mi è piaciuta quella birra e quelle che sono seguite. So che sono stata fortunata perché certe volte portavo fuori le mie bambine ed ero completamente sbronza. Un sabato ho portato la mia piccola con me e quando sono tornata a casa, mi sono accorta che non c’era più e non mi ricordavo dove ero stata. Non avevo idea di dove fosse. Ho passato tre o quattro ore a chiamare tutti i negozi che frequentavo, finché, il ragazzo del fornaio bussò alla porta: avevano trovato il mio indirizzo su un assegno. L’ho ricompensato, ma non sono più entrata in quel negozio. Il fondo l’ho toccato 184 giorni fa, quando la mia bambina mi ha visto mandare giù un’aspirina e vodka e l’ho picchiata. E quando sono svenuta, lei era sola con me e ha creduto che fossi morta. E per tutta la vita lei, di questo poterà il segno. Lo so che devo perdonarmi per quello che ho fatto a mio marito. E’ spaventoso quanto ci si può odiare per essere deboli e meschini. E lui, non poteva salvarmi, così gli ho scaricato tutto addosso, ho dato a lui ogni colpa, ma non bastava mai. Mi capite? Quando ha cercato di aiutarmi gli ho detto che mi faceva sentire piccola ed inutile, ma non è così. Facciamo tutto da soli…L’ho allontanato da me perché sapevo che se avesse visto sul serio come ero dentro, non mi avrebbe amata. Siamo separati. Ora lui, se n’è andato via. Ed è stato così duro implorarlo di non restare. Non lo so se avrò mai un’altra occasione ma adesso devo convincermi che ne merito una, come la meritano tutti.”

  1. Le coppie alcolomaniche

 Non possono mancare quelle pellicole che mostrano alcune coppie che, per tutta la durata del film bevono come una spugna (Chi ha paura di Virginia Woolf?, Ironweed…) Ne I giorni del vino e delle rose di Blake Edwards (1962) Joe Clay (Jack Lemmon), addetto alle pubbliche relazioni precipita, senza accorgersene, giorno dopo giorno nell’alcolismo. Sua moglie Kirsten (Lee Remick), dopo aver resistito alle pressioni di Joe che l’invitava a bere con lui, comprende che l’alcol potrebbe fungere da collante per tenere insieme la coppia ed inizia a bere in sua compagnia. Joe, perennemente alticcio, perde un lavoro dopo l’altro; Kirsten, sempre più brilla, dà fuoco all’appartamento mettendo a repentaglio la vita della figlia. Dopo un’ennesima sbronza, Joe, grazie all’aiuto di Jmmy, un ex alcolista che frequenta un gruppo di Alcolisti Anonimi, non tocca più un goccio di whisky. Kirsten, invece, continua a negare la propria condizione e, schiava dell’alcol, finisce per perdersi definitivamente. Seppur il regista mostri con tocco crudo e realistico Joe, ricoverato in ospedale ed in preda alle crisi d’astinenza da alcol, la pellicola è venata da un’evidente dose di paternalismo e “didatticamente” contrappone Joe, un alcolista che si lascia alle spalle i fantasmi legati all’assunzione di alcol grazie all’appoggio degli Anonimi Alcolisti, a Kristen,, una creatura fragile che viene, irrimediabilmente, risucchiata nei gorghi dell’alcol. In Barfly di Barbet Schroeder (1987) Henry Chinaski (Michey Rourke) scrittore di talento, senza lavoro e perennemente al verde, trascorre le giornate svolazzando, come una mosca, da un bar all’altro di Los Angeles. In una delle sue solite scorribande notturne incontra Wanda Wilcox (Faye Dunway) una donna affascinate ma già irrimediabilmente corrosa dal whisky. In questo film, liberamente ispirato alla vita di Charles Bukowski, Schroeder regala ad i suoi eroi una patina cupa e disperata. Rourke si aggira sullo schermo gonfio di botte, trasandato e con la barba incolta; la bellissima Dunway non gli è da meno ed indossa una vestaglia sdrucita, ha i capelli spettinati e perennemente un bicchiere (mezzo pieno/mezzo vuoto) di whisky tra le mani. Impietosamente il regista sottolinea come l’alcol possa ridurre in cenere la vita, le aspirazioni ed i sogni di chi non è riuscito a mettere ordine nella propria vita e si lascia divorare da un persecutore interno, rigido, severo ed inflessibile che lo spinge, giorno dopo giorno, a mollare sempre più gli ormeggi e ad andare alla deriva. Ma (forse) il pregio maggiore del film è quello di non voler raccontarci un’impossibile storia d’amore tra due loser perennemente sbronzi ma quella di mettere in scena l’amara vicenda di due disperati che, consapevoli della loro fragilità, non si giurano amore eterno ma si limitano a scaldarsi un po’ il cuore. In una scena simbolo Wanda si rivolge ad Henry e nel metterlo in guardia, gli sussurra: “Se dovesse arrivare un uomo con una bottiglia di whisky, andrei con lui, subito.”  

Conclusioni

Al di là delle eventuali motivazioni che sottendono la scelta alcolomanica, colpisce la scelta dei registi e sceneggiatori di non mettere mai in scena il “corpo” alcolomanico Nei numerosi film prodotti sul tema non compaiono mai un medico internista, un gastroenterologo od un medico di famiglia che sottopongono ad accertamenti clinici, ad esami ematochimici, l’alcolista di turno. Psichiatri e psicoanalisti, generalmente, non ne cavano un ragno dal buco e la “guarigione” del protagonista avviene, per lo più, in maniera magica, grazie ai suoi sforzi individuali o all’aiuto degli Alcolisti Anonimi (Amarsi, Fuori dal tunnel, I giorni del vino e delle rose,  Otto  milioni di modi per morire…) o dei gruppi d’auto-aiuto. Vorrei chiudere questa breve incursione sul tema con la disarmante “confessione” di Joe Kavanagh (Peter Mullan) ex alcolista, protagonista di My name is Joe di Ken Loach (1998) che, rivolgendosi agli Alcolisti Anonimi, racconta la propria storia: “E’ stato Shanks a portarmi a calci al primo incontro con gli AA. Me ne stavo là e mi rodeva da morire e non vedevo l’ora di andarmene da quel posto. Seduto davanti a tutti c’era un tizio con la faccia piena di cicatrici, una faccia da bastardo. Cominciò col dirci che aveva pugnalato il postino e che gli avevano dato l’ergastolo e mentre questo tizio parlava, lo guardavo e dicevo: Questo è un alcolizzato”: Voglio dire questo tizio si era fatto quindici ani di galera e poi lo avevano scaricato in un dormitorio, solo come un cane. E allora cominciò a bere, il bere porta alla galera, la galera di nuovo al dormitorio, il bere alla galera…Ma mentre lui ci raccontava a me non me ne fregava niente. Restavo seduto lì con un sorriso stampato sulla faccia e la vita di questo poveraccio era alla frutta ma tutto questo non mi smuoveva di una virgola. Infatti ho stretto la  mano a quei poveri disgraziati e non appena uscito da quella porta ho pensato: “Ma io mi chiamo Joe e porca puttana, non sono un alcolizzato!” Cinque anni dopo ci ho rimesso piede, era stato di nuovo Shanks a trascinarmi. E stavo lì perché non riuscivo a togliere il “Non” da quella maledetta frase. Non ci arrivavo a sette semplici parole:”Mi chiamo Joe e sono un alcolizzato. C’era una donna quella sera, una donna minuscola, tutta pelle e ossa che parlava sempre con un filo di voce e se ne uscì con una cosa molto semplice e disse:”Se continuo a bere mi condanno da sola”  e questo mi toccò veramente, perfino nello stato in cui ero e stavo di merda, lei mi fissò negli occhi e disse: “Ricordati che non sei solo”. Guardai quello straccio di donna e pensai: “Sto così pure io”. Fu proprio lei a darmi il coraggio ad iniziare i dodici passi, oltre a Shanks, ovviamente. Io non sono uno stupido, lo so che ho molta strada da fare e vivo alla giornata; vedete io prego e se Dio vuole riuscirò a farcela, anche se so che c’è il baratro dietro ogni angolo, ma sono molto contento di trovarmi qui e contento di essere di nuovo sobrio. Grazie”.

Bibliografia

  1. Senatore: “Curare con il cinema” – Centro Scientifico Editore – 2002
  2. Senatore: “Il cineforum del dottor Freud” – Centro Scientifico Editore – 2004
  3. Senatore: Psycho cult” Centro Scientifico Editore – 2006
  4. Senatore “Cinema Mente Corpo” Zephyro Editore – 2010
  5. De Bernart, I.Senatore: “Cinema e terapia familiare”- Franco Angeli – 2011
  6. Senatore: “Roberto Faenza. Uno scomodo regista” – Falsopiano 2011

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