Curare con il cinema (2002) : La critica

23 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
Curare con il cinema (2002) :  La critica
Recensioni e prefazioni dei volumi di Ignazio Senatore
0

Enzo Alberione – Milano 2002

“Io partirei da una frase del tuo libro…”Deponi le mappe, le cartine e gli altri tradizionali e rassicuranti strumenti di navigazione. Non cercare un approdo sicuro.” Mi sembra che questa sia un po’ la dichiarazione di metodo fatto da questo libro che nonostante la divisione per argomenti tematici, in realtà è una grande “imitation voyage” all’interno del cinema. La cosa più interessante del tuo libro è, a mio avviso, proprio la scelta della narratività. In qualche maniera il cinema si è sviluppato come racconto di storie. George Lucas dice: “Movies are story telling” ed effettivamente la stragrande maggioranza del cinema è costituito su storie, su narrazioni per immagini. Nel libro dici che i film finiscono ad essere apparentati ad “accadimenti psicologici in forma di storia”. In un passaggio successivo citi Arnheim ” Pensare esige immagini e le immagini contengono pensiero”…E questo è molto interessante…Da questo punto di vista credo che l’operazione che è dell’analista, del terapeuta, dello spettatore è sul binario della de-costruzione della storia. Mi è sembrato, inoltre, molto interessante rispetto ad una questione che mi sono spesso chiesto; nel momento che vediamo un film siamo di fronte ad una finestra o se siamo di fronte ad uno specchio? Cioè se sto guardando qualcosa al di fuori di me, l’altro da me o se sto guardando me, quel me sconosciuto che poi corrisponde ad un altro da me?…In un’altra parte del libro fai riferimento a quelle strutture narrative, tipiche del “genere” (e che ha la capacità d’intercettare l’attenzione del grande pubblico): ” E le nostre classificazioni nosografiche non si basano, come gli indicatori di “genere”, sulle ridondanze e sulla serialità dei sintomi dei nostri pazienti. Nel nostro genere di narrativa, le trame non sono le nostre teorie?” Questo mi sembra uno dei passaggi più chiari ed illuminanti del libro perché mi costringe a chiedermi, di fronte ai film che vedo, quali sono le storie che io mi racconto? E perché mi rispecchio in questa storia… Da questo punto di vista, il titolo, forse, può trarre in inganno…Io credo che possa essere vero come “medicina omeopatica”…cioè ci si cura con piccole inoculazioni di elementi patologici ma credo che valga sopratutto come un paragone, come un confronto con una serie di casi virtuali di pazienti immaginari e nello stesso tempo come educazione alla varietà, alla singolarità degli approcci. Mi sembra che questo libro restituisca quella verità che è solo dei grandi medici e dei grandi terapeuti, cioè che prima della malattia esistono i malati e che il problema è con la relazione, con la storia del paziente e non con la sua patologia…Mentre rivedevo certe immagini (perché uno dei pregi di questo libro è la tua ricerca certosina sulle sequenze, sui passaggi più significativi di certi film che appartengono nella stragrande maggioranza alla memoria collettiva) mentre pensavo che ci fossimo persi, intrappolati nella varietà dei casi, in realtà, trovo quell’unità antropologica che dà senso al libro ed è quello che tu chiami “l’insaziabilità del desiderio”…Tu scrivi: “L’uomo è alla continua caccia di una sensazione di pienezza. Platone rappresenta la natura umana sotto forma di una giara sfondata, di piviere (un uccello che mangia e defeca nello stesso tempo), di recipienti che non si possono mai colmare….” Sentire questa mancanza spiega l’origine di tante situazioni patologiche e nello stesso tempo dà conto di un’attitudine di fondo dello spettatore che è innamorato delle immagini e che ama un’assenza e che si perde sempre un po’ in un film… Una critica? Il personaggio di “Matrix” l’hai scritto sbagliato…Si chiama Neo e tu hai scritto Mio, come il formaggino…”

 

Gian Piero Brunetta Padova Giugno 2002

“Io credo che il cinema sia un luogo comune…Credo sia molto utile prendere dalle competenze altrui per utilizzare in tutti i modi possibili il cinema, sia come luogo di storie, d’antropologia, d’incrocio di culture, sia come luogo in cui degli scienziati possano trovare degli elementi che aiutino la comprensione di se stessi e degli altri. Questo libro, credo, sia una ricerca, un modo di far chiarezza dentro un proprio percorso professionale, attraverso il cinema. Il cinema è un luogo di storie..C’è dentro tutto, un mondo di mondi…Prendiamo il cinema italiano da “Roma città aperta” ad oggi; racconta la vita degli italiani, giorno dopo giorno, il più grande diario di vita collettiva…Nel cinema ci trovi i sogni e la realtà…Perciò a me piace andare a parlare di cinema e cibo, cinema e antropologia….Il cinema è un luogo per studiosi “indisciplinati” che non hanno un rispetto estremo per la disciplina. Non c’è bisogno di grande esperienza ma di una grande motivazione ed una grande passione. E questo è fondamentale…Per chi si mette in contatto con la storia del cinema, il valore aggiunto è la tua passione…e questo si vede nel tuo libro. Il difetto del libro è che tu scegli film di una qualità “alta”…Non ci sono film “spazzatura”. Se vai nel mercatino dell’usato non ci trovi il grande quadro ma trovi come è fatto l’immaginario collettivo…Molto cinema “trash” italiano racconta più o meglio di alcuni film e mostrano la psicoanalisi, il trauma, la famiglia non in maniera alta ma insegna altrettanto bene…Mi fai venire in mente, ad esempio, nel caso dell’impotenza questo scambio da “La moglie vergine”…Il dottore si rivolge al paziente che è affetto da impotenza e gli dice: ” Tu sei sano come un pesce!” E il paziente gli risponde: ” Eh, si, il fatto è che il pesce non è sano come me”…Questo mi sembra un modo “terapeutico” di curarsi al cinema…Il cinema mostra anche questo…Il tuo lavoro ci guida nel cinema più alto…Leggendo il tuo libro mi hai fatto venire in mente un’altra cosa…Sai, all’Università ci sono tre tipi di professori: il professore a tempo pieno, a tempo parziale e a tempo perso…Puoi trovare un libro, scritto da Sergio Bertelli, un ottimo storico…dove leggi: “In quel film non ci può essere il gladio perché in quel secolo aveva un’altra forma…Il muro di Babilonia non era alto 45 metri ma 43 e mezzo….” Per me questo è un lavoro a tempo perso…Se fai lo storico devi andare a capire come mai “Star wars” o “Il cacciatore” è entrato nell’immaginario collettivo, come mai dei film hanno lasciato delle tracce? Credo che il lettore ha bisogno di scoprire perché uno scrive un libro…Alla fine è utile aver letto un libro come il tuo semplicemente per il piacere di leggere questa serie di citazioni che ti mettono in moto altre connessioni….Sono come reti neuronali che attivi…La scelta dei dialoghi nel libro, poi….Questo è un modo “corretto” di stare nel proprio territorio, di lavorare sulle parole che è la tua competenza…”

 

Valerio Caprara – Napoli, 9 Aprile 2002

“Conoscevo il tuo primo libro (L’analista in celluloide N.d.R) ed avevo paura che questo volume volesse presentare una delle solite declinazioni di servizio a cui viene piegato il cinema; cinema e psicoanalisi, cinema e pastasciutta, cinema e adolescenti, cinema e terzo sesso, cinema e la conquista di Samarcanda…qualsiasi cosa dagli estranei al testo, non ai film, a quell’avventura nel testo che è di ciascuno di  noi, che è individuale, che è particolare, che è sorprendente… Ecco dai numerosi estranei che si affollano sul cinema, così come gli avvoltoi sulla carcassa nei documentari di Piero Angela, ebbene la riproposta è sempre quella; collegare il cinema a un fenomeno, più o meno importante, più o meno alla moda, più o meno eccentrico rispetto al cinema stesso. E allora ci si trova di fronte a delle esperienze allucinanti, per cui tutto ciò che in quel film si è sentito, quello per cui ti sei battuto, viene ridotto in poltiglia, viene ridotto ad un manuale, l’ennesimo manuale che ti viene fornito per vivere una vita che sia corretta, che sia ordinata, che  sia sempre possibile spiegare e che sia utile e positiva. Vedo, leggendo il tuo libro, e questa è una riflessione veramente positiva che mi ha dato il libro, vedo che è un gioco che ti fa entrare ed uscire dalla tua figura professionale. E’ un discorso che rende particolarmente difficile da braccarti, difficile da agguantarti; in certi casi sei il cinefilo, in altri il terapeuta, in alcuni casi non sei nessuna delle due figure, in alcuni casi sei addirittura uno dei protagonisti del film raccontato, ed in alcuni altri sei addirittura come uno “zelig” che s’incarna nelle figure di tutti i film interpretati. Qualche volta sei anche il paziente ed altre volte sei anche il lettore…. Perché tu sei fatto così…sembra che ti ponga molto modestamente, a parte delle cose, e poi alla fine, ti ritrovi che interpreti anche la tua parte di lettore e gli suggerisci anche la risposta ed è la parte più appassionante ed affascinante di questo libro. I film diventano un’esperienza di un racconto che, continuamente, si sposta e si spiazza. In queste pagine entrano dei film molto diversi tra loro e tu costruisci una tela che, qualche volta sembra molto precisa, istoriata, con dei titoli e dei riferimenti precisi, delle scelte e quando uno crede di aver capito i film che ti piacciono…Hai messo Moretti e Silvio Orlando in copertina…, allora sarà di quella “banda”, di quella “fazione”…ed invece poi dopo, con quest’astuzia (che è la filigrana della tela) con questi rimandi ossessivi e compulsivi che ti fanno precipitare in un oceano di note mostruoso, che ti fanno ricostruire trame, che ti fanno ritrovare critici, che ti fanno suggerire interpretazioni e subito dopo un’interpretazione diversa, con questo gioco, compi quello che è la tua opera più bella. La ragione per cui questo non è sicuramente un libro che non finisce, come tanti libri, buttato sul mucchio o messo sullo scaffale, senza più speranza di essere ripescato, perché è una tela di Penelope, è un lavoro che unisce una serie di dati, che ti chiama ad una sorta di giochi mnemonici, che ti da una serie di pezze d’appoggio di cultura cinematografica, ma poi, immediatamente li precipiti in un mare talmente vasto ed in una serie di associazioni mentali, di ricordi, di flashback e qualche volta di flash-foward… che particolarmente difficile sarà straccarsene, particolarmente difficile sarà incasellarlo nella recensione nuda e cruda. E ‘un’esperienza, un po’ vicino al cinema dei surrealisti, al cinema dell’avanguardia…Il massimo di cultura cinematografica, sparpagliato e reinterpretrato, a modo tuo, come facevano i grandi sperimentalisti del cinema, in modo che tutto quello che è particolarmente noto, conosciuto, letterariamente acquisito, viene disperso e lo si potrà ritrovare solo con un mezzo, continuando ad andare al cinema…Anche perché la tua giusta competenza non sconfina mai nell’arroganza, nella prosa ultimativa di molti critici e di molti saggisti, ci fa capire che dobbiamo continuare nella ricerca del nostro particolare film…Noi capiamo benissimo che, seguendo il cibo e le diete, i traumi, le vendette, passando da “Don Juan de Marco” a “Strana la vita”, per fortuna, in maniera “politicamente scorretto”, tu ci vuoi fare “impazzire” con il cinema… E si sa, quando s’impazzisce, s’impazzisce d’amore… Tutto fa, il cinema, tranne che “curarci”, anzi ci fa “ammalare” ancora di più…Un’ultima annotazione…Vorrei sottolineare come sei stato bravo a raccontare le trame cinematografiche…Raccontare le trame, per chi fa critica è disastroso, perché bisogna raccontarle bene, condensarle, fare entrare lo spettatore nello spirito del film, senza possibilmente usare il “metodo” Grazzini…Il tuo modo di raccontare le trame, mi sembra l’opposto della vaghezza di chi usa il cinema per utilizzarlo nella scuola, nel dibattito al Rotary o in parrocchia…Che bello sarebbe unire alcuni incipit delle trame…Mi ha ricordato un po’ i racconti dell’omosessuale de “Il bacio della donna ragno“, chiuso in galera…”

 Claudio Carabba – Firenze 3 giugno 2002

“Intanto vorrei dirti che io mi considero uno spettatore “psicolabile”, di quelli di cui tu parli anche tu (regressione, proiezione ed identificazione…). Io soffro specialmente di identificazione nonostante sia da più da cinquanta anni che vada al cinema…Tendo a deprimersi se vedo una storia melanconica e tendo ad esaltarmi se vedo un western con Clint, Stallone…Quindi mi preoccupava il titolo del tuo libro perché non credevo tanto al cinema come terapia e credo che non ci credi neanche tu…Il tuo libro parte dallo studioso americano Salomon di Pittsburg…Mi ha colpito Pittsburg, la città de “Il cacciatore”, film di trip di “essere altrove”, film interpretabile anche come un sogno, una sbronza di amici che non si sono mai mossi da Pittsburg…Dopo ho iniziato a leggere il libro e non era quello che mi aspettavo perché procedi per associazioni, con un ragionamento vicino alla “schizofrenia” e procedi per associazioni e spiazzamenti continui…Per esempio c’è un capitolo che mi ha colpito su “Cinema e famiglia”. Uno si aspetta che parti da “Il padre della sposa” e finisci con “Kramer contro Kramer” e invece… i due poli che scegli sono due titoli “Taxi driver” e “Blade runner”…”Taxi driver” come negazione, la famiglia inesistente, la famiglia negata (De Niro è uno di quei tanti eroi che non si sa come sono nati e come sono venuti al mondo e non hanno un confronto diretto con figure materne e paterne…) e “Blade runner” , i ricordi indotti che forse non erano i suoi…Questo approccio è molto originale, anche perché parli anche di Bellocchio de “Il nome del padre” e dei temi più classici ma sempre con questa fantasia e con questo occhio che tende a deviare…Ovviamente accumuli i tuoi ricordi di spettatore che non sono i miei…Il tuo metodo di raccolta é il metodo di ricordare molto (anche con citazioni testuali precise) i film che ti hanno colpito ed appassionato…Tu dividi il tuo ragionamento partendo da “Specchio delle mie trame…) e poi procedi via via, in maniera singolare. C’è un capitolo sul cibo e giochi molto con i titoli  “Pane amore e psichiatria” ma questo gioco è anche un modo di leggere il cinema…Questo libro mi sembra più le tue memorie di spettatore e il tuo modo di amare il cinema…Ci sono dei romanzi americani sulle memorie dello spettatore al cinema…C’è un libro che amavo molto “L’uomo che andava al cinema” che a memoria diceva: “C’è gente che si ricorda che è andato sul Partenone o di quella volta che andò al Central Park ed incontrò una ragazza…Anch’io ho incontrato una ragazza al Central Park ma non mi ricordo nulla…Ricordo, invece, di John Wayne che cade nella polvere e spara in “Ombre rosse” e mi ricordo del gattino ne “Il terzo Uomo” di Orson Welles che sta nel portone della buia Vienna…Come ti dicevo, avendo passato metà della mia vita in una sala buia, credo, che non so se la funzione del cinema sia curativa o peggiorativa ma certamente è una funzione fondamentale dell’uomo che guarda e che tende ad essere altrove. Con te condivido l’amore per il noir, per l’espressionismo tedesco…Ho apprezzato il modo con cui tu hai sdrammatizzato alcuni temi come quelli dell’alcolismo, il capitolo sui dottori ed il fatto che hai aperto il capitolo con quella citazione di Totò tratta da Totò Diabolicus…Hai poi analizzato il tema della seduzione, partendo dal film “Don Juan de Marco”…con dei riferimenti a Truffaut de “L’uomo che amava le donne”. Ma se penso al Don Giovanni, non penso a Losey o a Mozart ma ad Errol Flynn, ad un film degli Anni Quaranta, più plebeo e spadaccino che, credo di aver visto quando avevo sei, sette anni….Ecco nella mia memoria di spettatore “psicolabile” e fragile, mi sento “eroico e baldanzoso”…In questo senso, non so se questa visione infantile mi ha aiutato a diventare grande o mi abbia fatto regredire….Senz’altro non credo che la terapia sia il film scelto in copertina (La stanza del figlio N.d.R) ma credo più a Charles Bronson “Armonica” che suona in attesa che arrivi Henry Fonda in “C’era una volta il West” o “Il generale Custer”.Una critica al libro? Hai scarsa memoria verso il cinema d’avventura, epico e western…”

 

Alberto Castellano- Napoli 31.1.2002

“Da “addetto ai lavori”, posso dirti che abbiamo a che fare con molti libri di cinema che continuano ad uscire…Da anni escono molti libri di cinema spesso vuoti, ripetitivi, bizzarri, stravaganti… però c’è una certa stanchezza di tipo tradizionale, dei malloppi, dei saggi polverosi che non sempre si leggono con piacere, un po’ faticosi, più da consultare che da leggere. Questo libro non viene da un critico, da un saggista.  E forse proprio per questo é un libro riuscito… Tu sei uno che fa lo psicoterapeuta di professione ma con questo “vizio”, il cinema, una passione, un’ossessione che coltivi da anni, sei riuscito a mettere insieme quelle che sono le tue passioni. E’ molto raro trovare un libro, uno studio che sia al tempo stesso profondo e leggero, rigoroso e divertente, scientifico ed utile. Alcuni libri sono molto belli ed interessanti da leggere ma sono difficili da consultare…Questo é un libro che in ogni capitolo ci sono una quantità di note filologicamente impeccabili… la filmografia e la bibliografia, un lavoro da topo di biblioteca e di cineteca…Poi anche il taglio di tipo ironico e divertente mi é piaciuto e credo dai titoli che hai dato ai capitoli “Un trauma chiamato desiderio”, “Pane, amore e psichiatria”, ti sei anche divertito a fare questo libro…A proposito del libro precedente (“L’analista in celluloide” N.d.R) che aveva un altro approccio più timido, più da “opera prima”,questo libro l’ho visto come un libro di chi è più padrone della materia ma anche come un’occasione per ricomporre nella sua memoria dei frammenti sparsi di cinema… La cosa più importante del tuo libro che viene fuori é che tra la psichiatria ed il cinema c’é un’interazione più radicata e profonda di quello che spesso si crede. E’ anche vero che tu sei uno psicoterapeuta un po’ anomalo da questo punto di vista…Io conosco non pochi dei tuoi colleghi e non tutti hanno l’atteggiamento e la disponibilità che tu hai per il cinema…Anzi ci sono alcuni operatori della psichiatria che hanno avuto nei confronti del cinema un atteggiamento di diffidenza e di ostilità, considerandolo addirittura un mezzo pericoloso altro che terapeutico. E’ chiaro che il campo è molto vasto e che il concetto di “terapeutico” del cinema va preso per le molle ed è anche molto delicato però é un libro che si fa leggere e che diverte….Tra l’altro un tratto originale del libro é che riporti brani interi di dialoghi, estrapolati dai film che ci accompagnano e ci riconducono subito a quello che è comparso sullo schermo. Alla fine li ho visti un po’ come dei brandelli di un racconto unico del rapporto tra il cinema e la psichiatria che evidenziano, in fondo, le ispirazioni visive della psichiatria e le potenziali relazionali del cinema é questo secondo me il nodo…Un’altra cosa che mi affascinava del tuo libro è quando parli della “Sindrome di Sheherazade”… il fatto che per il tuo mestiere di psicoterapeuta, sei “condannato” a raccontare delle storie…In altre parole, chiarisci subito anche poi il nesso fra la vocazione dell’essere “costretto” a raccontare delle storie ed il cinema e la letteratura che, sono poi le due forme “costrette” a raccontare delle storie…Ovviamente il cinema é uno strumento più duttile per essere utilizzato a scopo “terapeutico”… Proprio in questi giorni stavo leggendo il libretto di Proust “Il piacere della lettura” e lui parla proprio delle potenzialità terapeutiche della lettura…Dice però che é importante se si usi la lettura per risvegliare la vita spirituale ed individuale e non per sostituirsi… Poi fa un discorso sulla dimensione  solipsistica della lettura… Lui queste cose le ha scritte all’inizio del Novecento quando il cinema non era ancora nato…”

 Giuseppe D’Antonio – Salerno, 21.3.2002

“La prima traccia per un possibile discorso sul tuo libro parte della presentazione di Gianni Canova  che, mi ricorda, molto stranamente un testo di Calvino per presentare “Tutti i film” di Fellini...Anche Calvino parla dell’idea di un cinema che abbia la possibilità di lenire le ferite della vita, le ferite che sulla vita lascia il tempo… Sappiamo che tutta l’arte della riproduzione hanno al fondo di se, come il tentativo di sospendere, di lenire, di ricompattare le ombre della vita che fuggono, i sensi del tempo che si frantumano da noi…C’è questa figura in qualche modo dominante e che riguarda la ceramica, la pittura … che è la figura della nostalgia, la capacità in qualche modo nella riproduzione dello oggetto di trattenerlo presso di noi perché non sfugga. E questa era anche l’idea di Bazin quando scriveva “Che cos’è il cinema”, cioè “riuscire, in qualche modo, a trattenere, a vincere la morte  attraverso l’immagine e pur tuttavia, lasciando che questa immagine, come dire, avesse una sua vita, una sua esistenza, nel tempo del racconto cinematografico”. Ed un altro autore francese diceva che il cinema é “la morte al lavoro”…E la possibilità di poter trattenere le figure della morte e, in qualche modo, di respingerla attraverso il tempo che si ripresenta, attraverso la possibilità di rivedere, attraverso la possibilità di fermare l’immagine o l’illusione dell’immagine che può fermare il tempo, ci mette in contatto con un bellissimo film di Truffaut che è “La camera verde” che mi sembra sia la sua riflessione su quello che il cinema può essere…Un altro elemento che mi sembra fondamentale per il cinema, credo sia la “sala cinematografica” perché é un luogo di celebrazione, in qualche modo singolare… Perché è una prossimità senza conoscenza, è una comunità senza comunione, se non nel momento in cui il fascio di luce colpisce lo schermo e noi, che non ci conosciamo, non sappiamo chi siamo, siamo sospesi nello stesso tempo del racconto e, in qualche modo, costretti a confrontarci, pur ignorando l’uno dell’altro, con le stesse dinamiche di emozioni e di esperienze che quella storia ci sta raccontando. E questo, ovviamente, accade solo nella sala buia…Però c’è il buio e c’è il vuoto…L’atto iniziale del cinema sta lì e quel momento di sospensione è irriducibile ed impossibile da eliminare…Non solo come diceva Sorlin, c’è questo vuoto e questa attesa iniziale ma, quando comincia un film, solitamente parte dal buio, parte dal nero; é raro trovare il caso in cui c’è immediatamente luce…e questo mi fa pensare al grosso intreccio fra cinema e psicoanalisi…Truffaut diceva che: “La vita é un’esperienza della sottrazione, il cinema è un’esperienza dell’addizione… La vita è qualcosa che scende, il cinema è qualcosa che sale…” Secondo Truffaut, la vita é qualcosa che scende (perché i ritmi in qualche modo vanno lentamente diminuendo, le pulsioni esistenziali si assottigliano)  mentre il cinema sale, tende in qualche modo ad una celebrazione epifenomenica, fino al punto  della conclusione. Non so se hai notato che, alla conclusione del film, c’é l’abitudine del fermo immagine, dello stop di fotogramma… In moltissimi film si utilizza questo vezzo e sull’ultima immagine bloccata scorrono i titoli di coda. Quasi che, con questo stop di fotogramma, si avesse la sensazione che il racconto finisse qui…C’è un divenire di vita oltre questo frammento, ma la storia, la dimensione di narrazione che siete venuti a celebrare in questa sala, si interrompe, c’è un tempo che è stato in qualche modo completato, finito… Questo “tempo” che siamo andati a condividere nella sala con altri è un tempo della sospensione del tempo progettante. Noi abbiamo investito con un atto fiduciario colui che ci veniva a raccontare una storia ( per questo quando i film non ci piacciono noi siamo molti arrabbiati) e noi abbiamo sospeso il nostro tempo e abbiamo goduto, come la definisce il filosofo Guido Fink, di una meravigliosa oasi del tempo, che lui definisce “l’oasi della gioia”: “Un luogo in cui, sospese tutte le tensioni e sospesi tutti i meccanismi costruiti sull’attesa e sul progetto, si possa godere del presente senza limitazioni e si possa raccogliere di questo presente l’esperienza curativa del ricomporsi con se stessi, con il proprio tempo interiore.”  Dopo aver letto il tuo libro, ricco di sterminate citazioni, (ti confesso che, pur essendo  uno che fa cinema da venti anni, mi sono  un po’ vergognato, perché tu sei andato a cercare, con percorsi di scavo sotterraneo, film che solo dopo averli letti, mi rendevo conto che erano riferimenti assolutamente precisi) vorrei farti un’osservazione che mi incuriosiva molto. Nel tuo lavoro c’è una “patologia”… non so se è la forma di amore estremo per il cinema o come tutti gli amori estremi è una sorta di tradimento. Questo rimanda, naturalmente, al concetto di “cinefilia”…che è questa passione sterminata per il proprio oggetto, fino al punto di nutrirsene al limite dell’ossessione, della saturazione totale della memoria, anzi con la paura che la memoria non possa contenere tutte le immagini possibili, che c’è sempre una parte della nostra memoria che fa decadere l’oggetto per cui noi siamo costantemente in attesa di poter catalogare, sistemare, dare un senso, una sorta di cineteca ideale come la biblioteca di Babele, questo mi sembrava in qualche modo un’ossessione, una gioiosa ossessione…Infatti, tu usi solitamente “Mi veniva improvvisamente in mente”, ed i film affiorano come una sorta di memoria proustiana…La domanda che volevo farti é la cinefilia é un amore estremo per il cinema o è una degenerazione del concetto d’amore? Non c’è il pericolo di un’ossessione che finirà, inevitabilmente, disillusa perché, come diceva Valery: “La carne è debole ed, ahimè, io ho letto tutti i libri.”  Si, la carne è debole e c’è proprio un’incapacità nostra di poter raccogliere tutto e di poter conservare tutto. La memoria è selettiva, la memoria ha bisogno di vivere i propri lutti e di abbandonare le proprie ossessioni e perderle. Nessuna cineteca ideale può contenere tutto il cinema, non lo potrà fare e non è neanche giusto che lo faccia…Poi un’ultima annotazione. Mi sembra che nel tuo testo c’è una presenza fortissima della dimensione narrativa e degli elementi delle sceneggiature, riproposte con grande attenzione e con grande precisione, ma mi sembra che ci sia una sorta di sottovalutazione della dimensione forte del lavoro sulle architetture delle immagini e sul valore che può avere anche dal punto di vista di riflessione sulla psicoanalisi. A volte lo stile narrativo, lo stile iconografico, la scelta di angoli di ripresa, la scelta di forme di montaggio, la scelta di un certo tipo di colore, di ambientazione, di atmosfere che si costruiscono con il dosaggio delle forme espressive quali la pittura, della scenografia, quello è un territorio un po’ sacrificato nel tuo testo, un territorio di smisurata potenzialità ed una ricostruzione di una storia dell’immagine, con una valenza o con un carico di lettura di variante psicoanalitica, credo non sia stata mai tentata…  

Linea d’ombra- Salerno Film Festival”

Stefano Della Casa – Torino, 7 maggio 2002

Vorrei partire da lontano e più precisamente da una circostanza piuttosto curiosa, legata ad un film che non hai citato nel tuo libro, ma che tu non puoi sapere, perché è una storia tipicamente torinese e che riguarda i rapporti tra medicina e cinema. Nel film “Il gatto a nove code” di Dario Argento, gli sceneggiatori del film, senza saperlo, hanno dato il nome ad uno dei personaggi del film (che poi si rivelerà essere l’assassino), ad un primario di un ospedale di Torino. Questo primario, molto famoso, si era arrabbiato moltissimo… Poiché era parente di un esercente di Torino, proprietario di molte sale torinesi, per cui, dopo la sua telefonata, solo sulle copie torinesi, ogni volta che si accennava al cognome del personaggio, la pellicola veniva “grattata” e copriva il suono…Questo dimostra che i medici sono molto suscettibili per quanto riguarda il cinema e sono molto potenti…Secondo me, la cosa bella di questo libro e che rende piacevole la sua lettura è il fatto che sfugge a quello… Allora quelli che si occupano di cinema, temono come la peste bubbonica, sono le rassegne tematiche tipo “cinema e agricoltura”…”cinema e…” perché poi si aprono dei dibattiti tipo: “Perché la figura dell’elettrotecnico non è presente nel cinema ed invece i pompieri sì?…” La cosa più interessante e che mi piace di più del tuo libro è che tu raccogli dei dialoghi (che poi è quello che si può fare in un libro) e i dialoghi non sono nemmeno quelli più “medicalmente” significativi ma, sono quelli più significativi e basta…Poi c’è il gioco che si può fare: cosa c’é e cosa non c’é…Devo dire che di film citati ce ne sono molti e si capisce che sei uno che ha buone frequentazione cinematografiche, anche non del tutto scontate…C’è una certa tendenza rispetto al cinema americano, c’é abbastanza film italiano, poi ce ne sono molti altri che si intrecciano tra loro… Non  é citato quello che reputo il regista più visionario dei registi italiani che é Dario Argento… Sai, riflettendoci, mi viene in mente che dal tuo libro si potrebbe ricavare la traccia per un bel “Fuori Orario”, la nota trasmissione notturna, fatta di montaggi sensazionali, nel senso che da sensazioni, un po’ come la scrittura automatica dei surrealisti. Questo per me è il più bel complimento che si può fare ad un libro che riesce a creare questo tipo di sensazioni…” 

 Gianluca Farinelli Bologna 5 giugno 2002

Il tuo libro è molto interessante e anche molto divertente…E’ un  libro che racconta di un rapporto intimo che hai con il cinema, come racconta Canova nell’introduzione…Il libro è così strabordante della tua passione per il cinema che può essere letto in diversi modi ed usato per mille citazioni. Come sai, di mestiere faccio il direttore di una cineteca e quando penso ai rapporti tra cinema e psicoanalisi penso ad un film che più amo e che è stato salvato grazie ad un Ospedale Psichiatrico…Se oggi è possibile vedere “La passione di Giovanna D’Arco” nella versione integrale di Dreyer è grazie al fatto che negli Anni Venti, una copia di questo film si è salvata perché era conservata in un Ospedale Psichiatrico norvegese…E ti chiedo se tu nascondi qualche film rarissimo…Ritornando al tuo libro, Canova nell’introduzione parla del mistero della cura del cinema…Noi cinefili ci ritroviamo in questa sua affermazione cioè che il cinema ,in qualche misura, ci possa curare dal quotidiano e che in mille occasioni ci siamo rifugiati in una buia sala…Il nostro concittadino Renzo Renzi che ha scritto un libro che si chiama “La sala buia” , ci racconta dell’amore e del disamore per la sala cinematografica…Canova ci dice che, probabilmente, è impossibile spiegare perché il cinema ha su di noi un effetto curativo…A me è venuto in mente uno scritto di Musatti, scritto nel 1950: “Tuttavia un fatto rimane. L’immagine filmica parla con una particolare immediatezza al nostro inconscio. L’inconscio, cioè, possiede una particolare capacità di risonanza di fronte all’immagine filmica. E questo in forza della somiglianza che tali immagini (così come noi le viviamo con il loro carattere di realtà) presentano con le fantasie inconsce.” Questo termine risonanza, mi pare particolarmente forte…Vorrei ricordare quello che dice Hugo Von Hofmstal, nel 1921 e parla del cinema come “surrogato del mondo del sogno” e che “grazie al cinema, noi ritroviamo la realtà. Tutte le capacità del nostro subconscio emergono e tutto quello che non riusciamo a vivere nella vita, grazie al cinema che ci avvicina al mondo del sogno, riusciamo a toccarla, ad esprimere quella parte di vita che non riusciremo a viverla.” Questa bellissima citazione del 21, mi ricorda un po’ quell’affermazione di Hitchcock: “Il cinema è la vita a cui sono stati tolti i momenti noiosi”…

 

Fabio Ferzetti – Roma 29 maggio 2002

“A parte l’assoluto stupore per la spaventosa massa di film che hai raccolto e catalogato ed un pizzico d’invidia per il tuo sapere cinematografico, credo che con questo libro ti sei messo molto in gioco, sia come persona che come psicoterapeuta….Leggendo il tuo libro, di fronte a questa sorta di ossessione per le parole, per i dialoghi, mi sono chiesto se tu eri “ossessionato” ed “afflitto” da questo “eccesso” di memoria… Mi hai fatto ricordare “Il mnemonista” (che tu hai citato) o Funes, il personaggio di Borges che non poteva dimenticare nulla e mi sono chiesto se tu, di fronte ai tuoi pazienti, come l’analista di Moretti, costantemente (tuo malgrado), come un rubinetto che non riesci a chiudere, hai un immediato flusso incessante di associazioni, di parole e anche di immagini cinematografiche. Tutto questo è estremamente ricco e proposto in una forma molto immediata…Bernardo Bertolucci, qualche anno fa, diceva “Vorrei fare un libro sul cinema ma fatto solo di citazioni cinematografiche. Non vorrei mai dire niente io, ma fare parlare i film che mi hanno nutrito, alimentato ed aiutato a costruire la mia identità di cineasta”. In qualche modo, questo è un sogno che hai realizzato perché è fatto quasi l’ottanta per cento da parole altrui. E’ un libro a due facce; da una parte potrebbe sembrare di facilissima ed agevole lettura (perché ci sono in fondo i dialoghi delle scene che tu sistematizzi per argomenti; l’alcol, la seduzione, la famiglia….) e ti sembra di sfogliare un album illustrato… dall’altra é una lettura di un libro estremamente impegnativo e meno facile di quanto possa apparire a prima vista. Il libro é organizzato in due parte e mi sembra che tu, nella prima parte del volume, mostri come il cinema sia una sorta di gigantesca cartina di tornasole “sociologica” (nel cinema passa tutto ciò che succede in noi ed intorno a noi e ci aiuta a capire anche nei film di consumo e più corrivi, ci parla di “noi”). Nella seconda parte, il cinema diventa “specchio deformante”, qualcosa che mima, senza saperlo, (talvolta sapendolo) un incredibile repertorio di forme narrative che alludono ad un insieme di relazioni tra paziente ed analista. A leggere tutte queste citazioni disseminate nel libro, credo che tu voglia farci notare come il cinema contemporaneo sia un incredibile mosaico di patologie…E questo è abbastanza impressionante (anche se sappiamo che questo fenomeno é anche di tipo merceologico e spinge le case di produzione a mettere in cantiere un certo tipo di film). La critica che farei al libro? C’è un indice analitico, alla fine di ogni capitolo, ma è disseminato nel libro…Poi ci sono delle cose che lasci lì…Ad esempio tu definisci “inquietante” il maestro de “L’attimo fuggente”. Mi sarebbe piaciuto se avessi approfondito di più riflessioni come questa…  Invece, volutamente, tu le lasci lì…Comunque, io credo che il tuo libro resterà nel mio scaffale e che lo consulterò continuamente ; è diviso per temi, offre una quantità di dialoghi…”

Leonardo Gandini – Bologna 4 giugno 2002

Ci sono due cose che vorrei dire sul tuo libro che mi è apparso molto bello ed interessante…La prima cosa è che questo libro si apre con le affermazioni di uno psicologo americano che si chiama Solomon, il quale cerca di convincere i suoi pazienti a diventare “cinefili”, nella convinzione che se i propri pazienti frequentassero con assiduità le sale cinematografiche trarrebbero delle indicazioni che, probabilmente, potrebbero aiutarli a risolvere i loro problemi psicologici….Leggendo questo libro ho avuto una gran voglia di diventare un “paziente”, di compiere il percorso opposto proprio perché, in qualche modo, potendo frequentare il cotè psicoanalitico, nella condizione di paziente, potrei comprendere meglio alcune cose sulla possibilità terapeutica del cinema, che è l’argomento di questo libro…Cioè, sino a che punto, il cinema può aiutare a vivere meglio la nostra quotidianeità…Da questo punto di vista, il tuo libro è una piccola miniera, basandosi non tanto sul principio che sarebbe molto banale (non solo sul rispecchiamento di problemi e psicopatologia sul grande schermo) quanto sull’idea che sia il cinema  che la terapia siano in qualche modo accomunati da un’idea di narratività, per la quale il raccontare ed ascoltare le storie si può vivere meglio…Mi piacerebbe chiederti se ( al di là dei tanti film da cui vengono estrapolati i dialoghi, dialoghi che secondo te sono indizi di problemi psicologici, di malattie…) sarebbe possibile guardare il cinema anche dal punto di vista della “messa in scena” e chiederti fino a che punto questa ricerca, un po’ da minatori ( cioè scavare dentro il cinema alla ricerca di indizi che ci possono ricondurre alla psicopatologia e alla sintomatologia…) fino a che punto sarebbe possibile rinvenire qualcosa di utile che non pervenga tanto dai dialoghi, al piano dei comportamenti verbali dei personaggi, quanto al piano della gestualità e al modo in cui i personaggi sono “messi in scena”…Quindi attraverso i primi piani piuttosto che attraverso il campo lungo, quindi attraverso il montaggio piuttosto che al movimento di macchina e al campo-controcampo…Tu, nell’ultima parte del libro accenni a questo, al modo di raccontare del paziente…Tu spieghi molto bene questo: ci sono dei pazienti che raccontano storie in maniera molto diversa l’una dall’altro e nel loro modo di raccontare le storie (naturalmente chi ne ha le possibilità professionali per farlo) è possibile individuare alcuni problemi piuttosto che altri…Ci potremmo chiedere, fino a che punto si potrebbe arrivare ad una sorta di “psicopatologia” del regista cinematografico? Proseguendo il discorso,  Tu fai degli esempi molto interessanti, in riferimento a dei pazienti che si appropriano, in qualche modo di episodi di film che hanno appena visto, mescolandoli alle proprie esperienze e raccontando in seduta degli episodi che fanno passare in parte come propri o che hanno lasciato su di loro alcune sequenze di film…Mi chiedo, fino a che punto, (stando nell’ottica di Salomon) il film può aiutare a star meglio…un cinema che banalizzi e volgarizzi le questioni che sono care alla psicoanalisi….Cioè, fino a che punto può funzionare meglio un film di verdone che un film di Polanski? Fino a che punto un cinefilo può considerare banale, schematico, mediocre nella rappresentazione di determinati temi può, paradossalmente, avere un flusso migliore di un film che vi è superiore da un punto di vista estetico, eccede in raffinatezza, in sofisticatezza formale?”

 Mario Sesti – Roma 21.2.2002

“Innanzitutto, voglio dire subito che non so se ho capito questo libro… Nel senso che mi é piaciuto ma per delle ragioni che non mi sembrano quelle che sono evidenti nel titolo… Non ci vedo un rapporto di qualsiasi tipo, tra la cura e la psicoterapia. Innanzitutto un libro molto originale, nel senso che é un testo saggistico che, per la maggior parte é costituito di parti “non originali”. E’ come se le parti non originali fosse una sorta di didascalia pescato in un bacino comune che é l’immaginario cinematografico. Il termine immaginario cinematografico” é un termine molto abusato ed io non ho mai trovato una definizione “scientifica” davvero convincente…Di questo libro mi piace esattamente questo gesto che, non é scritto nelle parole, con il quale, ad un certo punto, si inizia un capitolo, si danno delle premesse e, come in una sorta di piccolo videogame, basta mettere un’ascissa, una coordinata  e da lì, non so… “cinema e cibo”, escono fuori tante immagini che appartengono a quell’immaginario: “Ah, si è vero, l’abbiamo visto…” Mi piace molto anche il modo in cui, viene usato con una descrizione, quasi, da naturalista (non ci sono, per esempio, quelle descrizioni di movimenti di macchina, di analisi che piacciono tanto ai semeiotici e che rendono così faticosa la lettura e che invece sono così belli, quando il film sono così straordinariamente belli e naturali), il fatto che si riportino dei dialoghi, quasi con una perizia stenografica…E’ come se si dicesse che, questo qualcosa può essere richiamato attraverso le parole, pur essendo tratti, in sostanza, da immagini, semplicemente perché tutti noi partecipiamo in questo qualcosa e tutti noi siamo in grado di sapere che quando lui dice “cinema e psicoanalisi”, ci vengono in mente tre o quattro psicoanalisti del grande schermo. C’é un ‘approccio quasi “comportamentista” nel modo in cui le sequenze sono descritte…come se fossero dei piccoli fenomeni naturali…C’é un approccio quasi da naturalista e i film sono oggetti, come delle piante, le sequenze come delle suppellettili, come degli spazi, come delle materie e possono essere descritti con cura. La maniera é quella di trasferire i dialoghi…Poi c’è il riassunto, la trama, spesso molto più scrupolosa di quanto in genere non si faccia, per esempio, in questi casi nei libri di cinema, dove almeno che non si tratti di dizionari e di enciclopedia non c’é bisogno di un’analitica proprio precisa.. Se devo essere sincero, non capisco come questo  centri con la cura, però mi piace…Mi comunica un’intimità con il cinema, che appartiene ed ha a che fare con il conscio e con l’inconscio collettivo…Il tuo libro somiglia un po’ ad una sceneggiatura…La scelta del linguaggio, poi, di questo libro, l’idea di parlare di cinema, in questa maniera é più forte, secondo me, di quello che dovrebbe essere il suo contenuto. Del resto, la scelta linguistica,  dei rapporti tra cinema e psicoanalisi non è mai stata molto brillante… Mi veniva in mente Calvino… Scrisse un meraviglioso articolo dopo la morte di Bunuel e disse una cosa che mi è rimasta molto impressa e che mi sembra giustissima per capire il cinema…Disse: “ Bunuel non era solo uno che aveva fatto dei film e che aveva analizzato l’inconscio collettivo ma aveva estesol’immaginazione”…Il cinema é una forza d’abrasione, é una violenza percettiva. Dopo il cinema, tutto ciò che è stato un linguaggio per immagini e suoni, non ha avuto mai la stessa violenza, dalla televisione fino ad Internet: la capacità di suoni e d’ immagini di colpirci, di attirarci, di monopolizzare la nostra attenzione, di rimanerci conficcati nella memoria per sempre…Non esiste nulla nella storia dell’umanità, come il cinema che é dilagato come un’epidemia; In meno di un anno, il cinema é dappertutto, non solo a Parigi e a Londra, ma é a Bombay, a Melbourne… Ed è evidente che questa forza non poteva non avere riflessi sulla scienza dell’inconscio. Io credo che il libro più bello sull’argomento sia quello di Christian Metz che, seguendo il tracciato freudiano e lacaniano, dice che le affinità tra cinema e psicoanalisi non sono per quanto riguarda il contenuto, la sua capacità di narrazione ma perché c’é una profonda affinità nella sintassi: spostamento e condensazione…Questo libro prende una tangente completamente diversa… Ed é come se desse per scontato tutto questo e partisse dal presupposto che, questo legame é così forte che basta un minimo stimolo per produrre un massimo risultato… Basta mettere in comunicazione la nostra sensibilità, la nostra memoria, la nostra cultura, la nostra esperienza con l’immaginario cinematografico perché questo produca, immediatamente, un cortocircuito. Questo non viene mai detto nel libro, non è mai oggetto di una frase, di un’analisi, quindi é ancora più forte, perché detto in maniera obliqua. Si dà per scontato questo ed il risultato di questo é che si può scrivere questo libro. Si può scrivere un saggio su “cinema e cibo”, facendo delle didascalie, introducendo dei dialoghi e semplicemente farne una descrizione, un resoconto materiale e formale di tutte le sequenze che parlano di questo argomento. Questo mi ha stupito, mi piace molto, e mi sembra che sia qualcosa di molto originale…”

Stefano Socci- Firenze 3 giugno 2002

“Il tuo libro suscita molte curiosità…Sfogliando le pagine mi sembra che procedi per blocchi, per andare a scoprire cosa c’é nell’altro blocco..E questo sistema di narrazioni per blocchi mi ha fatto pensare ad un’idea di montaggio…E’ un montaggio di una serie di situazioni e di temi che tu hai realizzato attraverso l’esperienza della voce “fuori campo”…ma in campo non ci sono immagini ma ci sono parole, dialoghi…Un libro realizzato come un film ma nei momenti in cui ci dovrebbero essere le immagini troviamo delle parole e le parole si sostituiscono alle immagini. Potrei dire che il progetto del libro è abbastanza ambizioso…Le parole, pur essendo abbastanza “forti” e i dialoghi sono ben scelti…Io sono andato avanti perché i dialoghi mi sembravano così interessanti e così ben collocati e ben montati…C’è una curiosità che ti guida nella lettura…C’è una connessione, si vede…La cosa che suscita curiosità è anche questa: come riuscire a organizzar e un materiale così diverso, così sfuggente e frammentato (frammenti di dialoghi cuciti insieme…) é tutto questo è molto impegnativo…Quello che mi sembra è che ci sia una trama che si compone attraverso una forma narrativa…La tua forma narrativa è “calda”, in prima persona ( prendi appunti e ti ricordi dei film….) ma elenchi, a mio avviso, in modo molto “freddo” una serie di situazioni che appartengono a film diversi…Cioè c’è uno scarto tra la tua testimonianza “calda” e diretta e il materiale “freddo” che viene accostato…Quello che volevo sottolineare è che il fatto di ritrovarlo “cristallizzato”, “raffreddato” questo materiale cinematografico crea curiosità…E una forma di provocazione…Sinceramente, non credo che il cinema possa “curare” lo spettatore ma può aiutarlo a vivere. Il titolo del tuo libro mi ricorda, inoltre, un titolo di un libro di critica cinematografica, molto in voga negli Anni Sessanta che era “Vivere con il cinema”, cioè il tentativo di dimostrare che il ricordo, il frammento possa stimolare nel lettore una riflessione e questo mi sembra il grande merito del tuo libro…Quando siamo nella sala siamo presi, coinvolti nell’abbraccio delle immagini…In questo modo, invece, negando le immagini e facendo prevalere le parole sulle immagini, costringi lo spettatore ad una riflessione su quello che vede o che ha visto…La scelta dei film che hai fatto è molto personale…Ci sono i film di tutti i generi, ci sono i film d’Autore, c’è il grande cinema commerciale…Il  percorso e il panorama è abbastanza ampio…Quello che mi è piaciuto è il lavoro di ricerca che c’è dietro….” ” (Il Castoro- 1996)”

Comments are closed.

Questo sito utilizza strumenti di raccolta dei dati, come i Cookie. Questo sito utilizza Cookie tecnici e di terze parti per fornire alcuni servizi. Maggiori Informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi