“Dei navigatori della mente: Freud, Wenders ed Antonioni” in “La mente altrove” (a cura di Massimo de Mari, Elisabetta Marchiori, Luigi Pavan) – Franco Angeli

22 Agosto 2005 | Di Ignazio Senatore
“Dei navigatori della mente: Freud, Wenders ed Antonioni”   in “La mente altrove” (a cura di Massimo de Mari, Elisabetta Marchiori, Luigi Pavan) – Franco Angeli
Scritti sul cinema pubblicati su altri volumi
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Faccio film non per esprimere pensieri ma per pensare ed è questo il caso di “Prima della rivoluzione” ed è per questo che il film continua ancora a divenire in me. (Bernardo Bertolucci)

“In una storia c’è sempre un inizio, un centro e una fine ma non necessariamente in quest’ordine.”  (Jean Luc Godard)

“Non c’è parola a cui non s’accompagna fulmineamente un’immagine” (Pier Paolo Pasolini)

“Mi sembra che le immagini mi importino più delle storie. Oppure che le storie altro non sono che un pretesto per fare delle immagini. (Wim Wenders)

  1. Introduzione

Aprire un passaggio tra il visibile e l’invisibile. Su cos’altro la psicoterapia fonda il proprio statuto? Da anni, nei miei lavori propongo una scrittura non divulgativa che invece di fornire risposte cerca di innescare dubbi e curiosità. Il cinema, mio fedele compagno di viaggio, mi ha fornito spesso delle pertiche per poter meglio comprendere la complessità dell’animo umano.

“C’è un’intera generazione di bambini che vive davanti al piccolo schermo passando di continuo da un canale all’altro, dedicando più o meno cinque secondi a ogni singolo programma per paura di perdere qualcosa di importante su un altro canale. In realtà non guardano. Semplicemente ricevono quel che appare sullo schermo, senza seguire nulla. Insomma la saturazione di immagini è tale che le immagini che ci circondano sono diventate irrilevanti: sono talmente tante che finiscono per diventare arbitrarie, per non rappresentare più nulla…Penso che la gente abbia perso la capacità di guardare una cosa sola. Ci siamo abituati a vedere sempre vicino qualcos’altro. Un po’ come saltare da un programma all’altro: appena si ha la sensazione di aver capito quello che sta succedendo qui, adesso, si passa subito ad un altro canale

Così, allo stesso modo, la gente ha perso la capacità di concentrarsi su un unico argomento.

Viviamo sempre di più nel bisogno di sistemare ogni cosa in mezzo ad altre, dentro un contesto e nessuno resta più colpito dalla verità di una sola immagine. Tutti ne vogliono un’altra che sia la precedente o la successiva, abituati al fatto che, dopo, in effetti, arrivi inesorabilmente qualcosa d’altro, o che addirittura possa arrivare nello stesso istante in contemporanea…Vent’anni fa era diverso, le nostre menti funzionavano in un altro modo fino agli Anni Settanta, voglio dire, i pensieri delle persone non saltellavano con tanta frenesia.”

Con queste affermazioni Wim Wenders (1993) ci mette in guardia sui repentini cambiamenti che sono avvenuti in questi anni nell’immaginario collettivo. Il grande regista tedesco ci ricorda, infatti, che nell’epoca in cui viviamo le immagini hanno preso il sopravvento sulla parola, modificando radicalmente l’architettura del pensiero umano. Peter Greenway afferma in maniera più perentoria che il 1983, anno nel quale è databile l’invenzione del telecomando televisivo, è il punto di non ritorno di questa “rivoluzione epocale”. In una civiltà governata dalle immagini, c’è da chiedersi se le psicoterapie, “appiattite” su un registro “verbale e vittime di un logocentrismo millenario (All’inizio era il Verbo) sono ancora in grado di nutrire l’immaginario del paziente? In una civiltà colonizzata dal culto dell’immagini la vecchia e gloriosa psicoterapia, basata sulla ”talking cure” non dovrà (forse) lasciare il passo alla “looking cure”? Circumnavigando i temi cari alla narrazione terapeutica, in questo scritto, mi interrogherò sulle modalità che adottiamo per “montare” le storie che il paziente ci porta in seduta.

  1. Interpretazioni e costruzioni

In “Costruzioni  nell’analisi” del 1937 Freud sottolinea con grande acutezza che l’analista non deve limitarsi all’utilizzo delle interpretazioni, bensì deve organizzare il proprio lavoro, secondo un modello che lo porterà, “mattone dopo mattone” a procedere per costruzioni. Se tale procedimento risulterà corretto, l’analista favorirà nella mente dell’analizzato il recupero dei ricordi che, nel corso della cura, risaliranno alla coscienza. Freud sottolinea come ogni struttura verbale contenga al suo interno una “matrice visiva” e che l’analista con le sue “costruzioni”, rinvia il paziente, inevitabilmente, ad una sorta di “ginnastica visiva”. Da ciò ne discende che parole ed immagini sono strettamente collegate e concorrono insieme a costituire la matrice del pensiero di un soggetto. Freud, con il termine “costruzioni” suggerisce all’analista una modalità associativa fatta per immagini che non può non rimandare a quel processo che, nel dispositivo cinematografico, viene definito montaggio.

  1. Per una breve storia del montaggio cinematografico

Generalmente si attribuisce a Melies la “scoperta” del tutto “casuale” del montaggio. La macchina s’inceppò per un minuto e poi continuò a funzionare come prima. Le stampe mostrarono immagini di persone, carri e cavalli, che furono improvvisamente, trasformate in altre immagini, a causa del ritardo del tempo. Ma fu certamente Griffith,* nel 1915, il primo regista ad aver mostrato il volto di un attore “staccato” dal corpo (il primo piano), a rompere la linearità temporale della storia  inserendo scene del passato (flashback) e a mostrare momenti diversi di un medesimo episodio (montaggio alternato). Le immagini non erano più semplicemente riprodotte ma organizzate in forma di racconto. Ma forse il primo grande teorico del montaggio fu Eisenstein. Per il grande regista russo, il racconto filmico solo attraverso il montaggio aveva la sua capacità di significazione. Eseinstein nei suoi film introdusse il “montaggio dialettico” (costruito a partire dallo “scontro” delle immagini e basato sulla funzione attiva dello spettatore, continuamente sollecitato a comprendere tramite inferenze la connessione tra le singole scene) ed il “montaggio delle attrazioni” (metaforizzato e finalizzato a colpire emotivamente lo spettatore: l’immagine dell’acqua e quella di un occhio significano piangere; l’immagine di un orecchio vicino a quella di una porta ascoltare; un coltello più un cuore tristezza e così via. Secondo Eseinstein il continuum della visione e la stessa narrazione filmica era fortemente “orientato” dal “taglio” e dalla “successione” con cui erano “montate” le diverse inquadrature del film. Che al tempo, il montaggio fosse una tecnica assolutamente rivoluzionaria, lo testimonia questo singolare aneddoto raccontato da Bela Balazs (1952)

“Uno dei miei amici moscoviti mi raccontò il caso di una nuova domestica arrivata in città per la prima volta in un kokos moscovita. Era una ragazza intelligente, aveva frequentato la suola, ma per una serie di strane circostanze non aveva mai visto un film. I suoi padroni la mandarono al cinema dove si proiettava una qualsiasi commedia popolaresca. Tornò a casa pallidissima, imbronciata. Ti è piaciuto le chiesero e disse indignata. .E’ orribile (…) Ho visto uomini fatti a pezzi: la testa, i piedi, le mani, un pezzo qui, un pezzo là, in luoghi diversi.”

*Secondo Malraux : La leggenda narra che Griffith sia stato così colpito dalla bellezza di un attrice di un suo0 film da far girare di nuovo una scena, questa volta più da vicino, il momento che lo aveva emozionato, e che, nel tentativo, riuscito, di sostituire un’immagine all’altra abbia inventato il primo piano. Sergio Brancato (2003) a commento di questo brano scrisse:

“La contadina siberiana vede per la prima volta un film e resta sconvolta dal montaggio, terrorizzata perché legge il passaggio dal campo medio al primo piano e al dettaglio delle mani dell’attore, non come una soluzione narrativa ma come una violazione del corpo fisico; pensa cioè che nel montaggio fossero state mozzate le teste e le mani.”

Secondo queste storiche formulazioni, lo spettatore non era più ai margini della storia ma era un soggetto chiamato in prima persona a comporre le “cinefrasi” suggerite dal regista e a dare un senso alla stessa narrazione cinematografica. Le immagini filmiche sono, quindi, cascate di concatenazioni ed al tempo stesso tracce di quelle che  le precedono e le succedono. Da ciò ne discenda che il continuum della visione risulta fortemente orientato dal taglio e dalla successione con cui sono state montate le diverse inquadrature dei film. Nel corso dei decenni, tramontate le teorizzazioni estreme di Eseinstein e degli altri registi russi, i registi tendono a rendere sempre più impercettibili i cambi di inquadrature ed il montaggio da rendere quasi invisibile il “decoupage”. Ma al di là della scelta stilistica del regista, come afferma Anna D’Elia (2002)

“La narrazione  sempre montaggio, cioè sguardo sull’invisibile, capacità di far vedere. Accostando due o più inquadrature, quello che non appare in nessuna di esse, ma che nasce come aggiunta di senso negli occhi dello spettatore.”

  1. Montaggio e psicoterapia

“Ho cominciato a osservare la gente, a vedere quando batteva gli occhi, e ho cominciato a scoprire qualcosa di molto diverso da quello che s’impara nelle classi di biologia al liceo, cioè che il batter d’occhi sarebbe semplicemente un mezzo per inumidire la superficie dell’occhio… Mi pare che il ritmo del battere gli occhi sia legato ai nostri stati emotivi e alla natura e frequenza dei nostri pensieri, più che all’ambiente atmosferico in cui ci capita di trovarci. Il batter d’occhi aiuta la discriminazione interiore dei pensieri, oppure è un riflesso involontario che accompagna quel processo mentale…E non solo la cadenza, ma anche il momento preciso del batter d’occhi è significativo. Cominciamo una conversazione con qualcuno e osserviamo quando questi batte gli occhi. Io credo che scopriremo che l’ascoltatore batterà gli occhi nel momento preciso in cui si sarà “fatto un’idea” di quello che stiamo dicendo, né prima, né dopo…Il batter d’occhi avviene quando l’ascoltatore si rende conto che la nostra “introduzione” è finita e adesso diremo qualcosa di significativo, oppure quando sente che ci stiamo “scaricando” e non diremo più nulla di significativo per il momento. Quando abbiamo un’idea o una sequenza d’idee collegate, battiamo gli occhi per puntualizzare e separare quell’idea dal resto. Analogamente nel film, un’inquadratura ci presenta un’idea, o una sequenza d’idee, e lo stacco è un “batter d’occhi” che le separa e puntualizza.”

Queste geniali riflessioni sul”batter d’occhi”, non sono opera di uno psicoanalista o di qualche esperto pensatore ma di Walter Murch (2000) uno dei più grandi montatori * della storia del cinema che, grazie al suo lavoro, ha potuto osservare in che modo una persona, quando entra in relazione con un altro, monta i propri pensieri e le proprie emozioni. Ma quanti terapeuti sono in grado di utilizzare quel “batter d’occhi”, quella scansione ritmica che il paziente, inconsapevolmente ci offre in seduta? E se è vero, inoltre che non esiste narrazione senza montaggio, perché non interrogarci sulle modalità che utilizziamo per “ritagliare” ed “incollare” le storie che proponiamo al paziente? Nella nostra pratica clinica utilizziamo un “montaggio dialettico”, basato sulle immagini in collisione o piuttosto un decoupage invisibile che è inserito nella narrazione?

* Walter Murch, vincitore di tre premi Oscar, ha montato numerosi film tra cui “Apocalipse now” e “La conversazione”, “American graffiti”, Il talento di Mr Ripley”, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.

  1. Il ruolo delle immagini in psicoterapia

Italo Calvino che nelle sue “Lezioni americane” (1993) ci ricordava che nella nostra mente è sempre in funzione una sorta di “cinema mentale” in cui le immagini prendono forma e non cessano mai di proiettare immagini nella nostra vita interiore. Prima di lui, Arhneim (1974) affermava:

“Pensare esige immagini e le immagini contengono pensiero”

Sulla scorta delle riflessioni fin qui, c’è da chiedersi se, e in che modo, offriamo uno spazio d’accoglienza alle immagini che il paziente ci porta in seduta. “Orbene gli psicoanalisti costatano in modo del tutto generale che, quando i loro pazienti sono frequentatori del cinema, come per lo più è il caso, moltissimi resti diurni sono situazioni semplicemente tratte da quanto è stato veduto recentemente in un film. Talora è il paziente stesso, dopo aver raccontato un sogno, dice di un particolare frammento: “Sa, avevo già visto ieri al cinema una scena del tutto simile”. Oppure l’analista si accorge della corrispondenza ed interroga il paziente: “La storia che lei ha sognato corrisponde molto ad un episodio contenuto in un film attualmente in visione. Ha per caso veduto tale film?” E il paziente riconosce con meraviglia. “Già, non ci avevo pensato. E’ proprio come in quel film: L’ho visto una delle sere passate.” Cesare Musatti (1961) in questo suo scritto, ci ricorda non solo che può essere lo stesso paziente a parlarci di un film in seduta ma che gli stessi frammenti dei film che ci porta vanno “analizzati” al pari di qualsiasi altra sua produzione onirica e verbale.

“A me succede che quando una persona mi racconta la sua storia io “vedo”. Mi racconta un sogno e io mi chiedo spesso di portarmi delle fotografie perché mettono in movimento nel paziente e in me, un montaggio. Io me lo immagino e poi me le confronto con l’immagine reale che ha portato il paziente. A me quello che può succedere, spontaneamente, è di “fare del cinema”da mattina a sera di costruire un racconto su questo… Se io sono così coinvolta in queste cose, cosa trasmetto all’altro? Se un paziente mi porta un sogno di un neonato fasciato nelle bende e mi associa…a me, invece, me ne viene in mente altre…Mi ricordo di una campana di vetro e di un santo sotto una campana di vetro…E cosa centra con la storia del paziente? E’ una mia immagine ed io provo a restituire questa mia visione. Per esempio, facciamo che io sono perseguitata da quella di “Rosemary’s baby”…Io mi interrogo su come questo paziente mi muove l’immagine di “Rosemary’s baby”. E questo è il transfert ed il controtransfert…E come si lavora sulle immagini di transfert e sul contrasfert? Un’analista o è un ripetitore di formule o lavora sulla relazione, partendo dalla esperienze del mondo e quindi anche partendo dal mondo…MI interessano sempre meno i testi sacri e preferisco leggere una sceneggiatura…Mi interessa andare oltre il già dato…anche perché ogni persona che si presenta è una nuova pista. Solo così è una nuova co-narrazione e produce un’evoluzione. Spesso le persone arrivano raccontando in maniera molto “sciatta” le quattro cose che hanno raccontato già ad altri analisti…Spesso questi racconti di “non ricordo”, sono rigidi e banali: “Io a quattro anni….” Per non rimuovere il “non  ricordo” il paziente si affida a tutto.. Un’altra cosa che vorrei sottolineare è che non esiste un simbolo che vada bene per tutti…La cosa più interessante è andare a vedere perché questo simbolo per questa persona…Perché si seleziona un’immagine e non un’altra? Se uno sogna una caverna perché deve essere per forza un’immagine del corpo femminile? Bisogna andare a vedere perché le è venuta in mente. E se uno ha visto “Il pianeta delle scimmie”? Il cinema ci porta nella storia dell’universo collettivo Stando all’ultimo Freud, l’analisi è una costruzione non è un dato…Freud nel suo ultimo scritto capovolge l’interpretazione per simboli codificata e dice che non esiste il dato ma il costruito all’interno della relazione…Questo costruito si nutre di tutte le immagini che sono nella mente e nel corpo e nell’inconscio del paziente e dell’analista…

Con queste sue affermazioni Lella Ravasi (Intervista in www.cinemaepsicoanalisi.com) si spinge ancora oltre e ci segnala come l’utilizzo di certe immagini cinematografiche non solo possono una traccia possibile per poter comprendere lo “sguardo” del paziente ma che quello che ci racconta può essere compreso solo se riusciamo a decifrare con lui, il senso di certe esperienze e di certi ricordi  che la fruizione di un film può mettere, inconsapevolmente in moto.

  1. Conclusioni

“Poi ho imparato che in un film non ha senso raccontare ad ogni costo una storia. (…) Le storie danno alla gente  la sensazione che esista un senso e un ordine dietro l’incredibile confusione di tutti i fenomeni che ci circondano. La gente sembra desiderare quest’ordine più di qualunque altra cosa (…) Le storie sono una struttura artificiale che aiuta gli uomini a vincere le loro maggiori paure: la paura che non ci sia Dio e che essi non siano altro che minuscoli elementi fluttuanti dotati di percezione, perduti in un universo che trascende ogni loro immaginazione. Le storie, creando contesti, rendono la vita sopportabile e sono di aiuto contro questa paura. Per questo motivo i bambini vogliono ascoltare delle storie prima di addormentarsi. (…) Quello che mi rende sopportabile l’osservazione di una carta geografica è il trovarvi un itinerario, un percorso per attraversare il paesaggio, o la città. E ciò che fanno anche le storie: descrivono percorsi di orientamento in un universo dove si può andare in milioni di luoghi diversi, senza arrivare in nessun luogo se non si ha una storia.”   Wim Wenders (Senatore 2004) assieme ad Michelangelo Antonioni, a Jean Luc Godard e ad altri registi contemporanei, non è altro che il cantore di una cinematografia che fonda le proprie basi sull’anti-narrativà, sulla costruzione di storie che rimangono incerte e sospese nel tempo e su una tessitura visiva che trae la propria forza sulle immagini fuori campo. Come più volte ho affermato nei miei precedenti volumi (1994, 2002, 2004) il mio approccio terapeutico s’ispira a questa poetica. Più che affidarmi a griglie preconfezionate, a tecniche standard buone per qualsiasi stagione, a prescrizioni certe e collaudate, ogni volta che incontro un paziente, spero di sorprendermi e di sorprenderlo.

“In una lezione al Centro Sperimentale di Cinematografia chiesi ad uno studente di mostrarmi alla lavagna un disegno che rappresentasse il film “Titanic”. Lui mi ha fatto le onde del mare, la nave e poi la sagoma dell’iceberg, Io gli ho detto manca qualcosa, manca la cosa più importante. Ognuno ha detto la sua e poi siamo arrivati al dunque; mancava la parte sommersa. Il Titanic ha urtato l’iceberg soprattutto sott’acqua e l’urto che ha preso non era visibile. Questa è la regia. La regia è qualcosa che non si vede, quello che si vede sono le riprese di un film, per cui quando ci sono dei ragazzi che scalpitano per andare a fare gli assistenti, non so il quattordicesimo assistente di Scorsese, pensando che guardando le riprese di Scorsese capisce cos’è un grande regista, sbaglia poverino, perché Scorsese sta solo effettuando le riprese del suo film; la regia l’ha già fatta. La regia se la porta da casa…La regia è una cosa che uno fa mentre mangia, mentre va al gabinetto, mentre parla con un amico. La regia è una cosa che sta dentro e sta anche dentro al film. Quello che si vede è il risultato di questo lavoro che ognuno di noi sente di fare ma guai a confondere la regia con la direzione del set…E’ un’altra cosa. Allora sarebbero capaci tutti di fare un film, dalle segretarie di edizioni a tutti quelli che sanno cosa è un raccordo, il campo ed il controcampo. Essere regista è un’altra cosa. “ 

Parafrasando Gianni Amelio (Senatore 2005) se i giovani assistenti alla regia vogliono imparare dai grandi maestri del cinema i trucchi del mestiere, anche i giovani ed inesperti psichiatri sono alla ricerca di modelli da apprendere in fretta e da poter somministrare in un batter d’occhio al primo paziente che gli capita a tiro. Ma l’incontro con un paziente non può essere la ricerca di approdi sicuri, di tecniche apprese a tavolino e riproposte, meccanicamente, in seduta. Compito del terapeuta deve essere, invece, quello di andare alla ricerca della parte sommersa del paziente che non è visibile e che non emerge ancora in superficie. Come chiudere questo mio scritto se non con l’affermazione di un grande cineasta come Douglas Sirk ? (Senatore 2004)

“Le angolazioni sono i pensieri del regista. L’illuminazione sono la sua filosofia. Dirò di più: il cinema l’ha mostrato molto prima che Wittgenstein e alcuni miei contemporanei imparassero a diffidare del linguaggio come autentico medium e interprete della realtà.  Così ho imparato a fidarmi dei miei occhi più che della vacuità delle parole.”

 

Bibliografia

Arnheim R(1974) Il pensiero visivo, Einaudi, Torino, (pag 299)

Balazs B.(1952) Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino  da Brancato

                                        (op. cit) (pag 112)

Brancato S.(2003) La città delle luci, Carocci,Roma, (pag 113)

Calvino I. (1993) Lezioni americane, mondatori, Milano (pag 93)

D’Elia A. (2002) Mappe percettive: il cine,a e lo sguardo” in (a cura di M. Vinella) Il cinema racconta.

Pedagogia e didattica del linguaggio cinematografico, Luca Sassella Editore, Roma, (pag) 73

Freud S. (1937) Costruzioni nell’analisi OSF 9 Bollati Boringhieri, 1967-1993, Torino

Marlaux A. (1946), Sul cinema, Ed.Medusa, Milano, 2002 (pag 27)

Murch W. (200) In un batter d’occhi, Lindau, Torino (pag.59-60)

Musatti C. (1961) Psicologia degli spettatori al cinema, in Dario F. Romano Scritti sul cinema, Testo & Immagine, Torino , 2000 (pag 40, 41)

Ravasi L.   (Intervista ww.cinemaepsicoanalisi.com)

Senatore I. (1994) L’analista in celluloide. La figura dello psicoateraeuta al cinema, Franco Angeli, Milano

Senatore I. (2002) Curare con il cinema, Centro Scientifico Editore, Torino

Senatore I. (2004) Il cineforum del dottor Freud, Centro Scientifico Editore, Torino

Senatore I. (2005) Il cineforum del dottor Freud Atto II, (in corso di stampa) Centro Scientifico Editore, Torino

Sirk D. (da Senatore 2004, (op. cit,) (Pag 212)

Wenders W. (1993) Una svolta, Socrates, Roma (pag 408)

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