“I disturbi del comportamento alimentare: Clinica, interpretazioni ed interventi a confronto” (a cura di Ignazio Senatore) – Franco Angeli Editore (2013): Le prime 5 pagine

30 Gennaio 2015 | Di Ignazio Senatore
“I disturbi del comportamento alimentare: Clinica, interpretazioni ed  interventi a confronto” (a cura di Ignazio Senatore) – Franco Angeli Editore (2013): Le prime 5 pagine
Volumi di Ignazio Senatore: Anoressia e bulimia
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1) Andando a ritroso nel tempo possiamo trovare nella mitologia delle storie che descrivono dei veri e propri disturbi del comportamento alimentare?

 

Senatore: La mitologia é ricca di numerosi riferimenti che rimandano al cibo. Che dire di Cynara, la bella fanciulla che osò rifiutare la corte di Zeus che fu da questi trasformata, per punizione, in un carciofo o di Artemide che fu mutata da Dioniso in un noce? Ma la mitologia è anche ricca di comportamenti alimentari, a dir poco patologici; Crono divora i figli, Zeus ingoia la moglie Metis, Dioniso mangiato dai Titani, Tantalo che dà in pasto agli dei il figlio Pelope e, punito per aver assaggiato l’ambrosia, il cibo destinato agli dei, è gettato nell’Ade; legato ad un albero ricolmo di frutti in mezzo ad un lago, ogni qual volta provava a bere, il lago si asciugava e quando provava a prendere un frutto, i rami s’allontanavano.

Per quanto attiene più nello specifico a dei disturbi DCA, messe da parte la proverbiale polifagia di Ercole, credo che le storie di Fedra e di Persefone siano tra le più indicative e possano essere inscritte, in qualche modo, nell’ambito della patologia anoressica.

Euripide (1) narra che Fedra, figlia di Minosse e Pasifae, s’era innamorata perdutamente del casto Ippolito, il figlio che suo marito Teseo, re di Atene, aveva avuto dal precedente matrimonio con Antiope la regina delle Amazzoni. Fedra si strugge in silenzio ma, giorno dopo giorno, cade in depressione fino a non alimentarsi più. Temendo che si lasci morire, la nutrice rivela ad Ippolito la passione che sta struggendo la sua padrona. Ippolito reagisce sdegnato e Fedra, per vendetta, prima di impiccarsi, in uno scritto, lo accusa, ingiustamente, di aver abusato di lei. Ippolito fugge e Teseo, adirato, chiede al padre Nettuno di uccidere il figlio. Il dio del mare allora fa imbizzarrire i cavalli del carro di Ippolito che, perdute le redini, muore, infrangendosi sugli scogli.

Persefone (2), figlia di Demetra e di Zeus, era una fanciulla vergine che, negando la propria sessualità, preferiva raccogliere fiori e giocare con le amiche. Rapita da Ade, dio dell’oltretomba ed ancora fanciulla, contro la sua volontà, divenne la sua sposa. Trascinata negli Inferi le venne offerta della frutta ed ella mangiò senza appetito solo sei semi di melograno. Persefone ignorava però il trucco di Ade: chi mangiava i frutti degli inferi era costretto a rimanervi per l’eternità. La madre, dea dell’agricoltura, che garantiva la fertilità delle terre, adirata, bloccò la crescita delle messi e rese la terra infertile. Zeus intervenne; Persefone, che non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe allora rimasta nell’oltretomba solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati ed avrebbe trascorso così sei mesi con Ade negli inferi e sei mesi con la madre sulla terra.

E se la vicenda di Fedra ci ricorda come la deriva depressiva possa indurre una donna a non alimentarsi più, quella di Persefone descrive alla perfezione il legame tra rifiuto del cibo e quello della sessualità.

2) Prima di diventare uno dei segni più evidenti di un comportamento DCA, il digiuno è stata una pratica d’appannaggio dei filosofi e fortemente suggerita dai Padri della Chiesa. Credi ci siano delle correlazioni tra il digiuno legato alle “sante anoressiche” del Medioevo e quello praticato dalle pazienti anoressiche dei nostri giorni?

 

Senatore: Nel Fedone (1) Socrate afferma che un vero filosofo non può curarsi di piaceri del mangiare e del bere. Un vero filosofo, infatti, deve sapersi astenersi dalle leccornie e moderarsi nel bere, senza vantarsi della propria condotta.  Lucio Anneo Seneca (2) sostiene che le pietanze ricche e gustose non sono salutari e “da quando si sono inventati i condimenti per eccitare l’ingordigia, lo stomaco si è guastato, l’organismo si è riempito di umori malsani, il sistema nervoso è diventato instabile e debilitato e la medicina ha assunto crescente complessità”. Secondo il filosofo romano le pietanze complesse, oltre ad indebolire il corpo, sarebbero dunque dannose per l’anima ed avrebbero generato i vizi. Per Plauto la gola è la generatrice delle liti, per Boezio la madre dell’ignoranza, per Seneca la fomentatrice di tutti i mali, per Sofocle nemica della castità, per Plutarco, l’officina dei vizi, infine, per San Girolamo e i Padri della Chiesa, la gola è la porta d’entrata della lussuria e la fame ed il digiuno é il miglior scudo dell’animo casto.

Questi riferimenti così insistiti al cibo come cedimento voluttuoso della carne ed al digiuno come pratica mistica che avvicinava a Dio, hanno trovato  la massima espressione tra il Trecento e il Quattrocento e numerosi studiosi (3), (4), (5) hanno sottolineato i complessi rapporti tra digiuno, ascetismo, misticismo e santità.

Come ricordano Santonastaso e Favaretto (6) “il cristianesimo medioevale era dominato dal disprezzo per il corpo “abominevole rivestimento dell’anima”. (…) La magrezza fisica, in quanto aspetto del corpo purificato costituiva  un requisito indispensabile nel cammino verso la santità.”

Per Elisabeth Abbott (7) “Santa Caterina si sostentava quasi unicamente con l’ostia della comunione, mandando giù solo un po’ di acqua fredda e masticando erbe amare che poi sputava. Era raro che mangiasse qualcosa: il cibo la faceva letteralmente star male, causandole convulsioni allo stomaco atrofizzato e dolori. La tecnica mastica-e-sputa di Caterina qualche volta falliva, e succedeva che un boccone, un singolo fagiolo magari, le scendesse nello stomaco. Allora, qualunque cosa avesse mangiato, la vomitava. Comunque non era capace di provocarsi il vomito volontariamente e sviluppò quindi la dolorosa abitudine di introdursi nello stomaco steli di finocchio o di altre piante per ottenere le necessarie contrazioni.”

Nonostante diversi autori (3,4,5) abbiamo cercato dei punti di contatto tra le sante Medioevali e  le pazienti anoressiche che giungono alla nostra osservazione, le differenze tra loro appaiono nette ed evidenti. Santa Caterina e le altre “sante anoressiche” utilizzavano il digiuno come strumento di mortificazione della carne e come mezzo di purificazione per sentirsi più vicino a Dio. Nel Medioevo l’ideale mistico-religioso  era socialmente condiviso ed il digiuno che le giovani sante anoressiche mettevano in atto suscitava nei contemporanei ammirazione ed approvazione. La scelta anoressica delle nostre pazienti va inscritta, invece, in una matrice assolutamente laica e risponde primariamente al bisogno di voler diventare magre ed ossute per poter cancellare un corpo che rimanda ad una femminilità ed a una maternità che é per loro fonte di ansia e di angoscia

Sbaglia però chi ritiene che l’ideale della donna magra ed efebica sia comparso all’orizzonte solo sul finire degli anno Ottanta. Come ricorda Lars Fr. H. Svendsen (8) “negli Anni Venti la moda si collocò sullo stesso piano della scultura e dell’architettura in quanto a “modernità”. La moda femminile degli abiti diritti e dei seni piatti era in perfetta sintonia con la distribuzione delle linee e delle superfici dell’arte cubista che si produceva per mano di Legèr e di Braque. Era uno stile che bandiva l’ornamento a vantaggio della cultura della forma.”

 

3) Sin dalle origini la  letteratura è ricca di riferimenti alle cibo. Basti pensare ai pranzi luculliani citati da Petronio Arbitrio nel Satyricon, alle abbuffate descritte in Gargantua e Pantagruel di Francois Rabelais fino alle protagoniste super-grassone di Galatea di James.M. Cain e di Buon compleanno Mr. Grape di Peter Hedges. Quale opera letteraria ritieni abbia, all’opposto, descritto un chiaro disturbo del comportamento alimentare di stampo anoressico?

   

Senatore: Messi da parte Arkadij, il protagonista de L’adolescente di Dostoevskij (1) che digiuna con il fine di dimostrare la propria volontà di potenza, tra i numerosi romanzi e scritti che costeggiano il vastissimo tema dei disturbi dell’alimentazione  quello che descrive con affilata precisione l’universo anoressico è Un digiunatore di Franz Kafka (2), scritto nel 1922. In questo straordinario racconto lo scrittore praghese narra di un uomo, (al quale non attribuisce né nome, né cognome), divorato dall’incoercibile bisogno di voler digiunare. L’ossessione del protgonista del racconto era tale che, a furia di digiunare, era divenuto la principale attrazione di un circo e mostrato come un fenomeno da baraccone, in una gabbia al centro della pista. Per accrescere ancora di più la curiosità degli spettatori, alcuni guardiani, su ordine del padrone del circo, erano preposti a sorvegliarlo ed a impedirgli che potesse nutrirsi di nascosto. Una precauzione inutile, questa, adottata solo per rendere ancora più affascinante e misterioso quel singolare personaggio che, non solo non aveva alcuna intenzione di assumere del cibo ma che, all’opposto, attratto dall’idea di voler digiunare, provava, invano, a ribellarsi alla decisione del proprietario del circo che, allo scadere dei quaranta giorni, lo costringeva a mangiare di fronte ad una folla osannante. Dopo essere stato per tanti anni la stella del circo, un bel giorno, inspiegabilmente, il pubblico aveva perso interesse per lui..Caduto nel dimenticatoio era stato relegato con la sua gabbia in vicinanza alle stalle dove un giorno era morto lontano dai clamori della folla. In questo breve racconto Kafka ci descrive la cieca disperazione dello stenico ed incoercibile protagonista che, solo sul finale, in risposta al custode che gli chiede perché non può smettere di digiunare, risponde: “Perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie ed avrei mangiato a quattro palmenti come te e gli altri”.

Meno poetico del precedente è il recente “La solitudine dei numeri primi” (3) che ruota intorno ad Alice, una ragazza anoressica abituata a mettere in atto delle condotte di eliminazione ed in grado di pesare gli alimenti con lo sguardo e di selezionare le sue trecento calorie per la cena. Con maestria Giordano descrive le modalità con le quali la protagonista del romanzo mette in atto le condotte eliminatorie ed illustra come Alice, mangiando con la mano destra poggiata sul tovagliolo, dopo aver recintato, strategicamente, il proprio piatto con il bicchiere del vino e dell’acqua, con il contenitore del sale e dall’oliera, non appena i suoi si distraggono, spinge il cibo già sminuzzato fuori dal piatto, dentro il tovagliolo.

  1. Quali poesie possiamo prendere a prestito per descrivere l’universo DCA?

 

Senatore: Costeggiando la produzione letterearia di questi secoli numerosisime potrebbero essere le poesie che, seppur non affrontando tout-court il tema dei DCA, potrebbero essere prese a prestito per descrivere la fragilità emotiva, lo sbandamento, il senso di vuoto e di spaesamento che attangalia le pazienti che giungono alla nostra osservaizone. Tra le tante vorrei citare, innanzitutto “I piaceri della porta” (1)

“I re non toccano le porte./ Non conoscono questa felicità./spingere davanti a sé con dolcezza o bruscamente/ uno di quei grandi pannelli familiari/ voltarsi verso di esso per rimetterlo a posto, tenere fra le braccia una porta/ La felicità di impugnare al ventre/ per il suo nodo di porcellana/ uno di quegli alti ostacoli di una stanza; quel corpo a corpo rapido con il quale per un istante trattenuto il passo/ l’occhio si apre e il corpo intero/ si accomoda al suo nuovo appartamento/ Con una mano amichevole la trattiene ancora/ prima di respingerla decisamente e di rinchiudersi, così di cui lo scatto della molla potente/ ma ben oliata lo assicura piacevolmente.”

In questa poesia Ponge descrive quel piacere tattile legato allla possibilità di aprire la porta, negato al sovrano, che può essee letto come una metafora più ampia dell’inerzia e dell’analfabetismo emotivo, tipico delle pazienti DCA,  incapaci di entrare in contatto non solo con il proprio mondo interiore ma anche con quello dele relazioni interpersonali.

Su questa scia mi sembra possa inserirsi anche la struggente poesia “Eppure non basta” che testimonia quel profondo sentimento di angoscia e di insoddisfazione che non premette a queste adolescenti di poter affacciarsi alla vita e goderne i frutti ma di sentirsi, all’opposto, spettatrici di un mondo di cui vorrebbero far parte ma di cui si sentono messe a parte.

“E’ fuggita l’estate/ E nulla rimane/ Si sta bene al sole/ Ma questo non basta. Quel che poteva essere/ una foglia dalle cinque punte/ si è posata sulla mia mano/ eppure questo no, non basta./ Né il bene, né il male/ sono passati invano/ Tutto era chiaro e luminoso/ Ma tutto questo non basta  La vita mi prendeva sotto l’ala,/ mi proteggeva, mi sollevava/ ero davvero fortunato/ eppure questo non basta. Non sono bruciate le foglie/ Non si sono spezzati i rami/ Il giorno è terso come il cristallo. Ma tutto questo non basta.(2).

In “Si, al di là delle gente” Salinas descrive un altro degli aspetti tipici dell’universo DCA: quel cercare nel sintomo anoressico o bulimico, disperatamente ed incessamente, non solo un riparo per le loro frustranti ed inappagabili insoddisfazioni ma, sopratutto, un’area fantasmatica che, seppur patologica, possa accoglierla e contenerla.

 “Si, al di là della gente/ti cerco/Non nel tuo nome, se lo dicono/ non nella tua immagine, se la dipingono./ Al di là, più in là, oltre./ Al di là di te ti cerco/ non nel tuo specchio/ e nella tua scrittura/ nella tua anima nemmeno./Di là, più oltre./ Al di là, ancora, più oltre/ di me ti cerco. Non sei ciò che io sento di te/. Non sei/ ciò che mi sta palpitando/ con sangue mio nelle vene/ e non è me/ Al di là, oltre ti cerco./ E per cercarti, cessare/ di vivere in te, e in me/, e negli altri./ Vivere ormai di là da tutto/ sull’altra sponda di tutto/ per trovarti,/ come fosse morire.”

Vorrei chiudere questo breve excursus sul tema con “Sei la mia schiavitù, sei la mia libertà” di Hikmet che fotografa mirabilmente l’ambivalenza e la conflittualità che queste pazienti mostrano di fronte alla loro malattia: “Sei la mia schiavitù sei la mia libertà/ sei la mia carne che brucia/ come la nuda carne delle notti d’estate/ sei la mia patria/ tu, coi riflessi verdi nei tuoi occhi/ tu, alta e vittoriosa/ sei la mia nostalgia/ di saperti inaccessibile/ nel momento stesso/ in cui ti afferro.“

 

5) In che modo la cinematografia internazionale ha trattato il tema dei DCA? 

 

Balestrieri:  Non esistono molti film che mettono in scena veri e propri DA. Mentre nel cinema esiste un’indubbia fascinazione per le menti malate, anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata non stimolano evidentemente sceneggiature ritenute interessanti da registi e produttori. La fisicità di corpi sgraziati nella lotta per e contro il cibo è ancora un argomento tabù. Direi inoltre che, all’interno della limitata scelta possibile, io preferisco i film in cui il DA non ha un ruolo centrale nella sceneggiatura e invece si intreccia con le altre storie dei personaggi.

Tra le opere da non perdere, citerei in primo luogo un film assolutamente affascinante che non palesa un qualche DA codificato, ma in cui l’alimentazione (assieme all’evacuazione) è centrale, sia nella sua perversa glorificazione, così come nel suo significato mortifero. Si tratta di “Il ladro, il cuoco, sua moglie e il suo amante” di Peter Greenaway. Il festival non gratuito del disgusto, delle ossessioni e delle perversioni rendono questo film così ricco di simbolismi assolutamente da vedere.

 Su un piano completamente diverso sta il film “Dolce è la vita” di Mike Leigh, che racconta la vita quotidiana in una famiglia della lower class inglese nell’epoca tatcheriana. Il film conferma lo stile di Leigh, caratterizzato da una critica sociale venata di humor, con una recitazione assolutamente naturalistica. Vi si racconta di due figlie gemelle ventenni molto diverse: una è attenta, collaborativa e disponibile, ma ha anche abdicato ad una propria femminilità, vestendosi e acconciandosi da maschio e scegliendo di fare l’idraulico; l’altra è gratuitamente aggressiva contro tutti, confusa e arrabbiata con il mondo, affamata di sesso e anoressica. Quest’ultima rappresenta il problema maggiore della famiglia, per l’odio che comunica e per i suoi comportamenti inadeguati. Di notte si abbuffa e vomita, di giorno accoglie clandestinamente in casa un ragazzo con cui pratica giochi sessuali perversi, attualizzando la sua convinzione che i maschi siano solo stupratori, pervertiti e approfittatori. Ciò che regge il tutto è l’unione tra i genitori e lo sforzo di entrambi di non arrendersi al quotidiano, comunicando una positività di sentimenti e di volontà di riscatto. Il film mi piace particolarmente per l’equilibrio tra l’acuta descrizione dei comportamenti dei protagonisti e la critica sociale di una normale periferia inglese, unite ad un piacevole humour britannico.

 Segnalerei infine “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” di Jon Avnet, per l’acuta messa in scena di una casalinga depressa del profondo sud americano. In evidente sovrappeso, senza prospettive e frustrata dall’indifferenza del marito, pure lui obeso, incontra in un ospizio una signora ottantenne, che le riaccende la voglia di vivere raccontandole la storia di due giovani amiche anticonformiste. Ben diretto e recitato, il film presenta un interesse specifico per il disturbo da alimentazione incontrollata della protagonista, che continua a preparare pranzi e cene e poi continua a mangiucchiare tutto il tempo fuori pasto. La frustrazione esistenziale si accompagna ad una inibizione sessuale ed emotiva, che ad un certo punto trova una svolta.

Senatore: Messi da parte i “ciccioni”, descritti al cinema come dei personaggi simpatici e divertenti che si arrendono, di fronte alla complessità ed alle asperità della vita, gettandosi sul cibo, tralasciato il ruolo della “fame” sullo schermo, magistralmente descritto dal Neorealismo italiano (e non solo), il cinema ha declinato con “pudore” e disincanto anche il tema dei disturbi alimentari.(1,2, 3,4)

Ne “La merlettaia“, diretto nel 1977, da Claude Goretta, Pomme é una ragazza semplice, chiusa ed introversa che lavora come apprendista in un negozio di parrucchiera e che non ha avuto ancora accesso ai piaceri della vita; è vergine, non ha amici e non si è mai fidanzata. Mentre è in vacanza n Normandia incontra Francois, un giovane studente d’estrazione borghese che frequenta l’università della Sorbona. I due escono insieme, s’innamorano e vanno a vivere in un monolocale a Parigi. Francois sembra inizialmente attratto dalla genuina inerzia emotiva e dal carattere docile e sottomesso di Pomme ma poi, deluso ed insoddisfatto, dopo averla squalificata e criticata aspramente, la lascia. Pomme non regge all’abbandono e si chiude sempre più in se stessa,. Tornata a casa dalla madre, rifiuta di alimentarsi, vomita ed è ricoverata prima in ospedale e poi in un manicomio dove scivolerà, in una dolce follia.

In “H2Odio” (2006) Alex Infascelli narra di quattro adolescenti, Summer, Ana, Christina e Nicole che, per dar vita ad un digiuno purificatore, a base di acqua, decidono di trascorrere una settimana con la loro amica Olivia, in una casa dove quest’ultima viveva da bambina. Olivia, chiusa ed introversa, ben presto inizia ad isolarsi ed è sempre più risucchiata dal pensiero della sorella gemella, defunta quando era ancora insieme a lei nell’utero materno e della cui morte si sente responsabile. Sconvolta e smarrita, complice il digiuno purificatore, Olivia inizia a confondere fantasia e realtà e sprofonda sempre più nella pazzia. In “Primo amore”, diretto nel 2004 da Matteo Garrone, la vicenda prende spunto da un annuncio pubblicato su un quotidiano da Vittorio, un orafo di Vicenza al quale risponde Sonia, una single che lavora come commessa in un negozio. I due s’incontrano, legano immediatamente e vanno a vivere insieme. Per Vittorio non è abbastanza magra e lei, per accontentarlo inizia a perdere qualche chilo. Ma Vittorio le impone di rispettare un regime dietetico sempre più rigido; attento a controllare le abitudini alimentari di Sonia, tralascia il lavoro ed è costretto, dopo poco, a chiudere il proprio laboratorio. Per dimostrare a Vittorio di amarlo, Sonia accetta di ridurre ancora più drasticamente il cibo. Divenuta scheletrica, pallida ed emaciata, sul finale, troverà la forza di liberarsi del suo persecutore.

Messe da parte i film che costeggiano la patologia anoressica non si può non citare il capolavoro di Marco Ferreri “La grande abbuffata”, pellicola sarcastica e graffiante, apologo della crisi della società capitalistica, diretta nel 1973, che narra di quattro amici che si riuniscono in una villa alle porte di Parigi con l’intento di abbuffarsi e mangiare a sazietà fino a morirvi.

Altre pellicole mostrano, anche se sullo sfondo, un comportamento che è chiaramente di tipo bulimico. E se in “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, diretto nel 1991 da Jon Avnet, Evelyn è una grassa casalinga infelice che affoga le frustrazioni in deliziosi manicaretti, in “Dolce è la vita” di Mike Leigh (1990), Nicola è una ragazzina instabile, infelice e capricciosa che scarica le tensioni accumulate in famiglia e con i coetanei con delle colossali abbuffate che terminano con il vomito autoindotto. Il regista inglese impietosamente punta la mdp sul volto della giovane protagonista e la mostra mentre ingurgita voracemente e compulsivamente nella sua stanzetta cibi dolci e salati e vomita poi il tutto in una busta di plastica.  In Inghilterra è ambientato anche “Miss Monday”, diretto da Benson Lee (2000), vicenda che ruota intorno alla crisi creativa di Roman, un giovane sceneggiatore che s’imbatte in Gloria, una donna che somaticamente corrisponde alla protagonista della sceneggiatura che sta cercando di scrivere. Attratto ed incuriosito dalla donna s’intrufola nel suo appartamento e mentre sta frugando tra le sue cose per scoprire passioni e debolezze è costretto a nascondersi in un armadio in seguito al precipitoso ed inatteso rientro a casa di Gloria. Roman inizia a spiare i suoi comportamenti e scopre che è una donna sola, depressa e frustrata. Dopo averla vista piangere, disperarsi ed aggirarsi come un’ombra tra le quattro mura domestiche e cercare un vano pizzico di felicità in uno stanco e pallido rituale autoerotico, l’osserva mentre, nel bel mezzo della serata, durante la visione di un film romantico in televisione, ingurgita, nervosamente, i cibi più svariati, ingozzarsi fino all’inverosimile per poi andare in bagno a vomitare e scoppiare infine in uno struggente pianto consolatorio.

Meno ai bordi della storia, invece, il disturbo bulimico di cui è affetta Elena, ricercatrice di biologia molecolare, protagonista de “La Venere di Willendorf” (1997) di Elisabetta Lodoli. Spenta, taciturna e alla ricerca di se stessa, Elena è sposata con Enrico ma i due non si cercano, non si desiderano più; lui la tradisce con una giovane studentessa e lei non trova di meglio che compiere delle abbuffate notturne per scaricare la rabbia e l’infinita tristezza che ha accumulato dentro di sé. Il film si chiude con Elena che tutta sola, in cucina, si appresta a compiere l’ennesima abbuffata notturna.

In Maledimiele di Marco Pozzi (2011), infine, Sara (Benedetta Gargari), studentessa modello, sedicenne, dopo una delusione amorosa, decide di perdere peso con l’obiettivo di raggiungere i 38 chili. Per ottenere il suo scopo, riduce drasticamente l’alimentazione ed aumenta, contemporaneamente, l’attività fisica.

I suoi genitori, un medico oculista Enrico (Gianmarco Tognazzi) ed Anna (Sonia Bergamasco), una gallerista che opera nel sociale, troppo coinvolti dal lavoro e dilaniati da una strisciante crisi coniugale sembrano non rendersi conto dei problemi della figlia. Sola e senza amiche, Sara si chiude sempre più in se stessa ed affida alle pagine del suo blob le sue dolorose riflessioni.

Messi da parte i numerosi film TV prodotti in questi anni sul tema dei DCA (The best little girl in the world di Sam O’ Steen (1981), For the love of Nancy di Paul Schnieder (1994), A passo di danza di Mark Haber (1999), Hunger point di Joan Micklin Silver (2003) ed il nostrano Briciole di Ilaria Cirino Pomicino (2004), vorrei segnalare, infine, due pellicole, completamente diverse tra loro che lambiscono i complessi rapporti tra cibo e psicopatologia. Nel grottesco e divertente “Soffocare” di Clark Gregg (2008), tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, Victor, ex studente di medicina, ha abbandonato la Facoltà per pagare la retta di una lussuosa clinica privata dove è ricoverata la madre Ida, una donna eccentrica ed anticonformista, divorata dal morbo di Alzheimer. Victor lavora come  comparsa al Colonial Williamsburg Park, un parco a tema per turisti e scolaresche, che ripropone, anacronisticamente, la vita al tempo dei pionieri. Frustrato, sesso-dipendente, incapace di costruire una significativa relazione affettiva, frequenta ogni sera un ristorante diverso dove, mentre sta mangiando, finge di essere sul punto di soffocare con del cibo. Come da copione, uno sconosciuto corre in suo soccorso e lo salva. I due  iniziano a chiacchierare, Victor riesce a fare il pieno di affetto e di calore e, puntando sulla generosità del suo soccorritore, finisce anche con lo spillargli qualche quattrino.

Duro e “disturbante” è, invece, “Feed” (2005) di Brett Leonard che ruota intorno a Philipp Jackson, un poliziotto che navigando in rete s’imbatte in un dominio dove compaiono delle super-obese, talmente grasse che sono inchiodate al letto. Docili e consenzienti sono ingozzate con dei papponi energetici e degli intrugli ipercalorici. Jackson inizialmente pensa che si tratti solo di un sito gestito da un inguaribile sporcaccione ma poi scopre che tutto ruota su delle scommesse dove è possibile puntare sul giorno in cui la supercicciona morirà. Il sito è gestito da Michael Carter, una persona che ha avuto già in passato dei problemi con la giustizia e che, nel corso della vicenda espone all’incredulo Jackson le sue deliranti farneticazioni: “Mi piace considerarmi un facilitatore, uno che rende capaci. Rendo capaci le mie donne di liberarsi dalla pressione sociale a cui uniformarsi, ad una normalità fisica basata solo sull’astrazione, sugli indici metabolici e sugli indici di massa corporea. Io le lascio essere quello che vogliono e le amo proprio come sono. Io non credo che tu capisca appieno quello che sto facendo. Ho una profonda ammirazione per la bellezza, la quale bellezza non è quella delle ragazze anoressiche con fianchi che si spezzerebbero se mai dovessero partorire un bambino. La moda, la cultura e Madison Avenue hanno usurpato la vera bellezza. Le modelle sono ragazze ossute ed androgine, senza seno, somigliano tanto agli uomini e non hanno curve, non hanno fianchi, solo microscopici sederi ossuti e neanche un pelo. La moda ha ridotto la loro femminilità in qualcosa definita dai vestiti e dai capelli piuttosto che dal corpo stesso. Le donne che io nutro sono libere dall’artificiosa molla della vanità, non dovranno sottomettersi al bisturi del chirurgo per farsi ridurre il seno o per farsi appiattire la pancia. Io le ho liberate davvero, appoggio il loro desiderio di gratificazione e consento loro di essere belle. La verità è che agli uomini piacciono le donne grandi e morbide, non costipate e lugubri con l’alitosi da malnutrizione. Nutrire una donna, onorarla, occuparsi di lei, accettarla proprio così com’è, questo significa davvero amare una donna.” Il regista prova, timidamente, a fornire una possibile spiegazione che sottende il malsano comportamento di Carter; rimasto orfano a nove anni, da piccolo la madre, immobile a letto, gli ripeteva: “Nutrimi”. A chiudere il cerchio Morgan Spurlock che è andato a ficcare il naso, per meglio dire la bocca e la gola, nella famosissima catena del marchio Mac Donald’s. Il regista- scrittore, vegetariano convinto ed acceso sostenitore di un’educazione alimentare, corretta ed equilibrata, dopo aver visto, in televisione, un documentario su due ragazze obese che avevano citato la famigerata catena di fast-food, ha deciso di immolarsi come cavia e di nutrirsi, esclusivamente, con i prodotti che venivano smerciati in questi anonimi e spersonalizzanti templi del sapore americano. Il suo obiettivo? Dimostrare che quel tipo di cibo, somministrato a milioni di americani (bambini compresi) nuoce gravemente alla salute. Coadiuvato da un’equipe di medici composta da un internista, da un gastroenterologo e da un cardiologo, il nostro eroe si è nutrito per un mese intero (e per tre volte al giorno) solo dei famosi hamburger, patatine ed hot-dog serviti in queste famigerate multinazionali del gusto e del palato americano. Il risultato? In breve tempo, la sua salute (che fino ad allora era praticamente perfetta) è andata man mano precipitando; i valori ematochimici sono completamente saltati, il fegato si è (quasi) spappolato ed il suo peso ponderale ha registrato un aumento di ben tredici chili. Morgan Spurlock, dopo essere stato giudicato dall’equipe medica “un soggetto altamente a rischio di vita” ha dovuto, suo malgrado, interrompere la degustazione dei succulenti panini ed hot-dog. Da questa sua emozionante, autodistruttiva  e “folle”esperienza, lo scrittore ne ha tratto un film “Supersize me” che ha suscitato un enorme strascico polemico in patria. La Mac Donald’s, a seguito delle contestazioni ricevute per i suoi malsani panini ipercalorici, ha ritenuto opportuno ritirare dalla catena dei suoi fast-food, il “famoso” “Super-size”, supersbobba che veniva servita, a tutti gli insaziabili jankee, accompagnato da due litri di Coca Cola. Vorrei concludere questo piccolo excursus sul tema citando l’irresistibile commento sulla dieta tratto da Il professore matto, diretto nel 1996 da Tom Shadyac. Ehi, cos’è tutta questa storia di grasso e calorie! Sai chi te lo ha messo in  testa? Quella dannata televisione! Ogni volta che l’accendo, parla di perdere peso, essere sani, tornare in forma! Vanno tutti in giro da anoressici dicendo che quello è salute! Io so cosa è sano e ti dico un’altra cosa. Tanto per cominciare non capisco perché tutti vogliono perdere peso!  Non dobbiamo essere per forza della stessa misura! Dobbiamo essere diversi; grandi, piccoli, medi, nani! Tutto questo è già contemplato. Non so perché tutti vogliono essere della stessa misura! “

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