Il cinema, Freud, Jung e i Padri della psicoanalisi

24 Giugno 2015 | Di Ignazio Senatore
Il cinema, Freud, Jung e i Padri della psicoanalisi
Articoli di Ignazio Senatore sui rapporti tra Cinema e psiche
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“Il cinematografo, come i romanzi polizieschi, permette di vivere senza pericolo le emozioni, le passioni e le fantasie destinate, in un’epoca umanitaristica,  a dover soccombere all’inibizione.” (C.G.Jung)

Come tutti sanno Freud non amava affatto il cinema e rifiutò nel 1924, un lauto compenso (100.000 dollari) propostogli da Samuel Goldwin (della Metro Goldwin Mayer) per collaborare alla stesura di copioni incentrati su storie d’amore tra personaggi famosi, a cominciare da “Antonio e Cleopatra”.

Lo stesso Freud declinò anche l’offerta di supervisionare la sceneggiatura de “I misteri di un anima” (film divulgativo sulla psicanalisi ) diretto da George Wilhelm Pabst  e “bacchettò” Karl Abraham, Presidente della Società Psicoanalitica Internazionale ed Hans Sacks che aderirono all’invito.

Lo stesso Abraham, nel 1925, tentò di convincere Freud ad avallare quest’operazione:

“Suppongo, caro Professore, che lei non manifesterà per questo progetto una simpatia smisurata ma sarà obbligato a riconoscere la costrizione che motivi di ordini pratici fanno pesare su di noi. Non ho bisogno di dirle che questo progetto è conforme allo spirito del nostro tempo e che sarà sicuramente messo in atto: se non con noi, lo sarà con persone incompetenti. A Berlino abbiamo un gran numero di psicoanalisti “selvaggi” che si precipiteranno avidamente sull’offerta, nel caso la rifiutassimo.”

Freud si dissociò dall’iniziativa ed in una lettera a Ferenczi ribadì:

“La riduzione cinematografica sembra inevitabile, così come i capelli alla maschietta, ma io non me li faccio fare e personalmente non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere… La mia obiezione principale rimane quella che non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione plastica che si rispetti un po’. Non daremo comunque la nostra approvazione a qualcosa di insipido…”

Nonostante i suoi gran rifiuti e grazie “all’invasione” di psicoanalisti (Simmel, Theodor Reich, Rapaport, Hartmann, Rado, Federn….) costretti dopo l’avvento del nazismo, a chiedere asilo negli States, il “verbo” psicoanalitico ben presto si diffuse negli States e fu “saccheggiato” da numerosi produttori e sceneggiatori che, al fianco dei classici “strizzacervelli”, scalcinati, seduttori ed imbroglioni, non mancarono di rappresentare sullo schermo i padri della psicoanalisi.

Sigmund Freud é citato in diverse pellicole. Alcuni registi si limitano ad appendere al muro la sua fotografia (“Corridoio della paura”, “Harold e Maude”) c’è chi cita un suo brano (“Diario di una schizofrenica”) o chi (“Transfert pericoloso”) dedica una revisione critica della sua opera: “Quel che Freud ha dimenticato di dirci”. C’è, infine, chi (“Splendore nell’erba”, “David e Lisa” “Il manuale del giovane avvelenatore”) esprime dei sagaci commenti sul fondatore della psicoanalisi.

Al di là dei divertenti e “doverosi” omaggi,  Sigmund Freud compare “ufficialmente” in quattro film.

Freud passioni segrete, pellicola diretta da John Houston, nel  1962. Film travagliato la cui oceanica sceneggiatura iniziale fu scritta da Jean Paul Sarte ed utilizzata solo in parte dal regista. Il film è una sorta di “detective story” che si sviluppa nei cinque anni che vanno dal 1885 al 1890 e mostra Freud che muove i primi passi all’ombra di Breuer, l’utilizzo del metodo ipnotico (poi abbandonato) e la “guarigione” di una paziente isterica, Cecilia che soffre di paralisi alle gambe e d’annebbiamenti della vista. Il film, girato con un bianco e nero accecante mostra (fin troppo) i turbamenti del giovane Freud di fronte alle sue scoperte ed il suo lavoro d’autoanalisi, condotto a partire dal famoso sogno legato a suo padre. Immerso in un’atmosfera che oscilla tra sogno e realtà, il film si avvale della convincente interpretazione nei panni di Sigmund Freud di Montgomery Clift.

Sherlock Holmes- Soluzione 7%, pellicola “minore” (diretta da Herbert Ross, nel 1976) narra dell’improbabile incontro tra Sigmund Freud e il grande investigatore Sherlock Holmes.

In una commedia leggera Un inguaribile romantico, diretta nel 1983 da Marshall Brickman, il fantasma di Freud (interpretato magistralmente da Alec Guinness) appare ad uno psicoanalista, innamorato della sua paziente e gli ricorda che dovrebbe indirizzarla ad un altro analista.

In Sogni d’oro (diretto da Nanni Moretti nel 1981), il regista Michele Apicella (Nanni Moretti), sta girando un film intitolato “La mamma di Freud” Il Padre della psicoanalisi compare mentre detta alla figlia Anna alcuni appunti ed, in una scena successiva, parla al telefono con Jung e gli annuncia che è stato invitato in America per alcune conferenze. In una terza sequenza Freud è per strada con un carretto pieno di libri e vende i suoi scritti più famosi insieme a del torrone e ad una cravatta double-face. Moretti non tradisce il suo stile e per gran parte della narrazione lascia (volutamente) nel dubbio lo spettatore, lasciandogli credere che sta assistendo ad una dissacrante e ironica rilettura del Padre della psicoanalisi ma in realtà le vicende riguardano un folle (Remo Remotti). che crede di essere Sigmund Freud.

Il giovane Carl Gustav Jung compare, invece, in tre pellicole.

In Cattiva (film diretto da Carlo Lizzani nel 1990), scossa per il suicido del padre e per la morte di una delle figliolette, morta in circostanze misteriose la ventiduenne Emilia Schmidt (Giuliana De Sio) è ricoverata in una lussuosa clinica privata sul lago di Zurigo. Il giovane Gustav Jung (Julian Sands) la prende in cura e si scontra con il professor Brockner, (Erland Josephson), direttore dell’istituto, fermamente convinto che Emilia sia affetta da “demenza praecox”. Certo che la malattia della paziente sia legato ad i suoi sensi di colpa, Jung accantonato il metodo ipnotico e quello della libera associazione, l’aiuta a ricordare l’evento traumatico che aveva scatenato la sua malattia, producendo catarticamente la sua guarigione. Pellicola un po’ calligrafica dedicata al grande psicoanalista svizzero, liberamente tratta da “Ricordi, sogni e riflessioni” di Carl Gustav Jung, che ha il pregio di mostrare da un punto di vista storico, le cure che venivano adottate al tempo. La trama ruota intorno al giovane, eroico ed instancabile psicoanalista svizzero, divorato dalla sete di sapere e che, incapace di maneggiare il proprio controtransfert, vacilla di fronte alla bellezza di Emilia.

In Prendimi l’anima (2003), il regista Roberto Faenza ci mostra nell’ospedale Burghölzi di Zurigo, Carl Gustav Jung (Iain Glen) ha in cura Sabina Spielrein (Emilia Fox) una giovane ebrea appartenente ad una ricca e colta famiglia russa. Nel corso del ricovero, attratto dalla sua fragilità, grazie al metodo delle libere associazioni, prova a scardinare le sue difese. Jung trascura la moglie Emma (Jane Alexander) e diventa l’amante di Sabina che migliora a vista d’occhio, relaziona con gli altri ricoverati e riprende a mangiare regolarmente. Jung continua a frequentare Sabina anche dopo la sua dimissione dall’ospedale ma, temendo che la scandalosa relazione extraconiugale possa compromettergli la carriera, l’allontana. Sabina, comprende che non può legarlo a sé, si mette in disparte e, con il passare degli anni, si laurea in medicina e, dopo essersi sposata, apre l’Asilo Bianco, il primo asilo per bambini ad orientamento psicoanalitico. Ma la repressione stalinista mette al bando la psicoanalisi e Sabina è costretta a rifugiarsi a Rostov, sua città d’origine. I titoli di coda ci informano che Sabina sarà uccisa nel 1942 dai nazisti insieme alla figlia Renate. Sospeso tra fiction e documentario, il film è basato sul carteggio segreto tra Jung, Freud e Spirlein, trovato casualmente nel 1977, a Ginevra, negli scantinati del Palais Wilson, sede dell’Istituto di Psicologia svizzero. Faenza mette in scena la tormentata storia d’amore tra il giovane Jung (allora trentenne) e Sabina Spierlein ma, più che impaginare un film sulla psicoanalisi, sembra proporre un viaggio nella passione amorosa e sulla sua disperata rinuncia. Sabina è descritta come una donna deprivata affettivamente sin da bambina, vittima di un padre violento che la picchiava continuamente. Fragile ma solare, tenace e volitiva, sin dalle prime battute, mostra una grande forza d’animo e riesce a relegare in soffitta i propri fantasmi. Al confronto Jung appare un uomo fragile, meschino e tormentato che sacrifica, cinicamente, l’amore in nome del decoro borghese e del prestigio scientifico. Faenza è attento alla ricostruzione storica del tempo e ci mostra Sabina, dopo aver tentato il suicidio, legata miseramente ad un letto di contenzione. Il regista arricchisce la vicenda lasciando che la giovane Marie (Caroline Ducev) lontana parente di Sabina, si rechi da Parigi in Russia per cercare documenti sulla vita di Sabina ed è aiutata nel suo peregrinare tra archivi da Richard Fraser (Craig Ferguson) uno storico scozzese che insegna all’Università di Glasgow.

In Dangerous method, diretto da David Cronenberg nel 2011, il giovane Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) giovane psichiatra, affascinato dalle teorie di Sigmund Freud (Viggo Mortensen), lavora nell’ospedale Burgholzli dove è ricoverata Sabina Spielrein (Keira Knightley), una ragazza russa dotata di grande sensibilità e di un’acuta osservazione. Grazie alla “talking cure”, la cura con le parole, Jung riesce a penetrare nell’animo della paziente che gli confida come i maltrattamenti e le umiliazioni subite dal padre le procuravano piacere. L’incontro con il ribelle, provocatorio ed anticonformista psichiatra Otto Gross (Vincent Cassel), assertore di una vita vissuta all’insegna del piacere, manderà ancora più in crisi il fragile ed insicuro Jung che, travolto dalla passione per Sabina, finirà per diventarne l’amante. Freud lo ha però designato come suo erede ed Jung sacrificherà l’amore per Sabina, pur di non essere sconfessato dal suo maestro. Il visionario David Cronenberg s’ispira al testo teatrale “The Talkin Cure” di Christopher Hampton e dirige il film più “tradizionale”, “didattico”, “scolastico” e “divulgativo” della sua invidiabile carriera di regista. Rispetto alla pellicola Prendimi l’anima di Faenza introduce la figura di Freud, interpretata dall’algido Mortensen, a cui offre grande spazio, specie nella seconda parte del film, e lascia che le dispute teoriche tra l’anziano fondatore della psicoanalisi ed il suo giovane allievo fungano da sfondo alla vicenda. Cronenberg non cade nelle secche del biopic e descrive Sabina come una donna fondamentalmente perversa, affetta da una grave forma di masochismo. Il regista canadese si limita nel complesso a svolgere con maestria il compitino e prediligendo gli ambienti chiusi, come l’ospedale Burgholzli e lo studio di Jung, amplifica il clima claustofilico che si respira nella pellicola.

 

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