Introduzione
Numerosi registi italiani si sono affacciati alla ribalta negli anni Novanta: Giuseppe Piccioni, Carlo Mazzacurati, Silvio Soldini, Alessandro D’Alatri, Pasquale Pozzessere, Massimo Mazzucco, Pappi Corsicato, Mario Martone, Antonio Capuano…Tra quelli che mi avevano infiammato di più c’era Daniele Luchetti, autore di pellicole diventate oggi oggetto di culto quali Il portaborse e La scuola, regista che negli anni avevo un po’ perso di vista. Un giorno ero andato al cinema per vedere non ricordo più quale film. In un’altra sala programmavano La nostra vita. Mi colpì il manifesto nel quale campeggiava Elio Germano, attore che mi aveva letteralmente conquistato in Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi. Dopo un rapido tira e molla, mi lasciai guidare dall’istinto e scelsi La nostra vita.Erano anni che non mi perdevo così al cinema e rimasi colpito dalla maturità stilistica con la quale Daniele aveva messo in campo la sofferta e palpitante vicenda del protagonista.Di corsa andai a ripescare Mio fratello è figlio unico, pellicola che Daniele aveva precedentemente diretto, ed debbi la conferma che si era nuovamente “ritrovato”.Mi balenò allora l’idea di confezionare questo volume e, prima di chiedergli di sposare il progetto, cominciai, discretamente, a ronzargli intorno e gli proposi di presiedere la giuria della terza edizione del Concorso di cortometraggi “I corti sul lettino- Cinema e psicoanalisi”. Daniele mi rispose molto cordialmente e mi disse che, pur essendo molti incuriosito dal tema del concorso, doveva declinare l’invito per motivi di lavoro. Iniziammo a chiacchierare e si creò da subito quel feeling che mi diede la spinta per proporgli l’idea del volume.Daniele non me lo fece ripetere due volte e, candidamente, mi confessò che anche in passato gli avevano proposto una monografia a lui dedicata ma che aveva sempre declinato gli inviti per impegni di lavoro.Ci siamo visti a Roma a casa sua e, mentre Daniele faceva gli onori di casa, mi confidò che abita in un piccolo “covo” di “cinematografari”;nello stesso palazzo vivevano Bernardo Bertolucci, Ivan Cotroneo ed Umberto Contarello. Ci siamo accomodati in salotto dove, alle spalle di un comodissimo divano, spiccavano, in ordine sparso, una pila di libri e dei DVD impilati tra gli scaffali di una parete attrezzata. L’arredamento minimalista, sobrio e discreto rispecchiava in pieno lo stile, il carattere ed il cinema di Daniele.I nostri incontri si sono svolti in un clima assolutamente informale e senza la gabbia di domande pre-confezionate. Sciolto e libero da qualsiasi sovrastruttura, mostrando doti di incallito cinephile, Daniele, in più di un’occasione, si è divertito nel rievocare episodi relativi ai film che aveva diretto. Grande professionista, innamorato del proprio lavoro, mi ha restituito costantemente l’idea di un artista che non si è mai adagiato sugli allori ma che si sfidava, costantemente, senza mai replicare clichè o percorsi già battuti in precedenza.Severo e mai indulgente verso se stesso, mai pago dei risultati raggiunti, si è sempre posto come obiettivo quello di non mai tradire se stesso e di tradurre sullo schermo cifre espressive mai esplorate precedentemente. Con grande spirito critico Daniele ha riletto i propri film, zigzagando tra un ricordo e l’altro, senza barare mai con se stesso. Ogni qual volta gli chiedevo di far luce su alcuni passaggi dei suoi film mi ha risposto di getto, senza mai liquidarmi con frasi filtrate da calcoli o da compromessi.La certezza che si mettesse costantemente in gioco mi è arrivata quando, dopo aver commentato il discusso finale de Il portaborse, mi ha detto che voleva scendere un attimo giù in cucina per prendere della frutta. Quando è risalito, dopo aver accennato ad un sorriso, prima di addentare una mela, mi ha detto:
“Ti devo ringraziare per questo modo diretto di parlare dei miei film perché sapere esattamente da una persona quello che hai fatto, ti fa fare una boccata d’aria. A parte, è così raro.”
Nel corso degli incontri Daniele ha spolverato i cassetti della memoria e fatto venire alla luce ricordi, aneddoti e particolari legati alla lavorazione dei suoi film. Daniele, quasi per gioco, ogni volta, per rassicurarmi mi diceva: “Non ti preoccupare. Ho sempre avuto la sindrome del “primo della classe” e facevo perbene tutti i compiti che mi venivano assegnati.” Daniele si è speso tanto e credo che abbia dato fondo a tutti i suoi ricordi, senza né remore, né censure. Ci siamo sentiti poi di tanto in tanto ed andava sempre di corsa, super impegnato tra le lezioni al Centro Sperimentale di Cinematografia, le riprese di qualche spot e la messa a punto di qualche nuova sceneggiatura. Tra le mille immagini per descriverlo, ho scelto questa di Jean Luc Godard che, secondo me, gli calza a pennello: “Ci sono due generi di artisti: alcuni camminano per la strada a capo eretto, guardando dritto in avanti. Osservano, progettano ed organizzano: i loro lavori sono interessanti, efficaci, ben svolti e talvolta anche splendidi. Questo è il gruppo dei sempre ammirati. Poi c’è l’altro tipo, quelli che camminano a testa bassa, persi nei propri pensieri e facendo sogni ad occhi aperti. Ogni tanto sono costretti a sollevar lo sguardo, sempre all’improvviso, e di colpo lanciano al mondo rapide occhiate trasversali. Questo è il gruppo che vede veramente: per quanto eccentrico o confuso sia il loro stile, essi vedono con meravigliosa chiarezza“.
“Il lavoro della regia è come il gioco a bivio. Sai, quei giochi dove devi scegliere tra una risposta A o B. In base alla tua risposta ti trovi in un posto dove non sai né dov’eri, né dove sei. Questo sempre perché scegli una cosa piuttosto che un’altra, scegli un attore piuttosto che un altro, un dialogo piuttosto che un altro. Alla fine scegliere tra due o più cose equivalenti porta il tuo film ad essere una cosa piuttosto che un’altra.” (Dalla Quarta di copertina)
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