“La famiglia gialla, nera e vermiglia” in “Cinema, giovani, famiglia” (a cura di Peppe Iannicelli) – Cinecircoli Giovanili Socioculturali

12 Aprile 2005 | Di Ignazio Senatore
“La famiglia gialla, nera e vermiglia” in “Cinema, giovani, famiglia” (a cura di Peppe Iannicelli) – Cinecircoli Giovanili Socioculturali
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“Le foto di famiglia ritraggono volti sorridenti; nascite, matrimoni, vacanze, feste di compleanno dei bambini… Si scattano fotografie nei momenti felici della propria vita. Chiunque sfoglia un album fotografico, ne concluderebbe che abbiamo vissuto un’esistenza felice e serena, senza tragedie. Nessuno scatta una fotografia di qualcosa che vuole dimenticare…” (“One hour photo”)       

“Voglio farti un discorso sulla famiglia…Quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi alle virtù… Ed adesso ripeti insieme a me…Santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini… dove i bambini sono torturati da quando dicono la prima bugia. La volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo..” (da Ultimo tango a Parigi)                                                                                                                                                 

“Nessuna foto di papà?”

“Non stette in casa il tempo necessario a fargli una foto” ( “Un marito per Tillie”)

 

Psicoanalista: Mi dica, signor Williams, lei era infelice da piccolo?

Williams:       No, no, ho avuto un’infanzia perfettamente normale…

Psicoanalista: Capisco. Voleva uccidere suo padre e dormire con sua madre… (da Prima pagina)                  

“Quando una casa va a fuoco, cosa è la prima cosa che si mette in salvo, dopo che gli animali e i familiari sono messi in salvo? Le foto di famiglia!” (“One hour photo”)

  1. Introduzione

Il cinema è fatto di sguardi. Quelli che si scambiano i protagonisti dei film e non solo. Comunemente, il popolo di cinefili intende per “sguardo” la cifra stilistica del regista (il tipo d’inquadratura, l’uso del rallenti, la scelta della fotografia…) la sua “poetica”, la sua visione del mondo. Rimandando ad altra sede il commento sulla complessità della scrittura filmica e sui  diversi linguaggi utilizzati dai maestri del cinema, nella prima parte dello scritto, segnalerò quei film italiani, divenuti “simbolo” dei cambiamenti antropologici e sociologici, avvenuti nell’istituzione famiglia, nel corso di decenni.

  1. Dal Neorealismo ai giorni d’oggi

Ogni regista è immerso nella realtà socioculturale in cui vive ed è necessariamente influenzato da essa. De Sica e Rossellini, “padri” del Neorealismo, non potevano che rappresentare le macerie del dopo-guerra e le rappresentazioni familiari che affollavano lo schermo non potevano che essere melanconiche e desolanti. La fame, la miseria, la disoccupazione, in quegli anni regnavano sovrane ed, inevitabilmente, finivano per influenzare gli scambi emotivi e le dinamiche interpersonali dei protagonisti. “Ladri di biciclette”, diretto nel 1948 da Vittorio De Sica ne è forse il più fulgido esempio. Come è noto la vicenda si dipana dal furto di una bicicletta ai danni di un povero operaio. Ma il vero protagonista della vicenda è l’intenso rapporto tra Antonio (Lamberto Maggiorani) un padre spezzato dall’inesorabile durezza della vita e suo figlio Bruno (Enzo Stajola) un ragazzino precocemente adultizzato e costretto, in tutto il film, a sorreggere e a sostenere il suo sfortunato genitore. I melodrammi “strappalacrime” di Raffaello Matarazzo, pur diretti in quegli anni, interpretati da Ivonne Sanson ed Amedeo Nazzari, affrontano poetiche diverse da quelle “neorealiste”. In “Catene” (1949) per scagionare il marito geloso ed autore di un delitto d’onore, Rosa confessa, in un aula di tribunale di aver avuto una relazione (che non ha mai avuto) con la vittima. In “Tormento” (1950) dopo l’arresto del marito, Anna si sacrifica per il bene della figlia e lascia che la piccola venga allevata da una suocera insensibile ed anaffettiva. Ne “I figli di nessuno” (1951) Luisa è una dipendente e Guido, il proprietario di una cava. Il loro amore è contrastato dalla madre di lui che non tollera le differenze sociali. Luisa, in segreto, dà alla luce un bambino che le viene rapito dalla madre di Guido. La donna decide di prendere i voti e diventa Suor Addolorata. Nel tragico finale,  i due si ritroveranno al capezzale del figlio morente. Dalle trame appena citate appare evidente come i personaggi interpretati da Ivonne Sanson siano il vero cuore pulsante di ogni pellicola di Matarazzo.  Impegnata nel duplice e complesso ruolo di sposa e di madre, sarà lei che abdicherà alla propria felicità, in nome dell’intero gruppo familiare. Questi melò, definiti “neorealisitici-popolari” erano la faccia appassionata e pulita della famiglia tradizionale e l’enorme successo che il pubblico decretò loro fu l’inequivocabile testimonianza del bisogno, imperante nel popolo italiano, di sentirsi partecipe di emozioni elementari e genuine.

Nel 1955 Pietro Germi gira il “Il Ferroviere”, film incentrato sulla storia di Andrea Marcocci, un capofamiglia vecchio stampo, un po’ burbero ed un po’ guascone, che vede scompaginarsi, a poco a poco, davanti ai suoi occhi, il proprio nucleo familiare. Giulia e Marcello, sono i figli inquieti che cercano di ribellarsi al suo dispotismo (più di facciata che di sostanza). Giulia (Silvia Koscina) ha una relazione extraconiugale e manda a monte il proprio matrimonio; Marcello (Renato Speziali) è uno sbandato, frequenta cattive compagnie e non sembra intenzionato a trovare lavoro. Sara (Luisa Della Noce) la moglie di Andrea è descritta come il classico “angelo del focolare”, silenzioso e passivo. Come nel citato capolavoro di De Sica, sarà Sandro (Edoardo Nevola) il figlio più piccolo di Andrea a restare accanto al padre nei momenti di sconforto e a riportarlo a casa, dopo una sua tormentata fuga. Il “Neorealismo” è già alle spalle ma lo sguardo del regista (caldo e partecipe) lascia però intendere che la famiglia italiana sta già (inevitabilmente) cambiando pelle. Vennero poi gli anni della “commedia all’italiana” e di quei “piccoli” capolavori firmati da Dino Risi. “Poveri ma belli” (1956) ed i sequel “Belle ma povere” (1957) e “Poveri milionari” (1959) offrivano uno spaccato del cosiddetto “boom economico italiano” degli Anni Cinquanta. I protagonisti di questa pellicole scanzonate e divertenti, sono Romolo (Maurizio Arena) e Salvatore (Renato Salvatori) due giovani “vitelloni” che, dopo aver fatto (inutilmente) la corte alla splendida Giovanna (Marisa Alassio) si fidanzano l’uno con la sorella dell’altro, pianificano il loro futuro e mettono su famiglia. Le loro giovanissime mogli, Anna Maria (Alessandra Panaro) e Marisa (Lorella De Luca) sembrano non solo più assennate e più adulte dei loro mariti ma in grado di cavarli, in più occasioni dagli impicci. Non siamo ancora alla parità dei diritti tra marito e moglie ma, nei suoi film, Risi segnala che nella società italiana qualcosa sta lentamente cambiando. Qualche anno dopo la rappresentazione del mondo proletario e sottoproletario invade prepotentemente lo schermo.

Nel 1960 Visconti ci abbaglia con “Rocco ed i suoi fratelli” (una storia di una famiglia del profondo Sud costretta ad emigrare per lavoro al Nord) e l’anno successivo, Pasolini con il suo indimenticabile “Accattone”, ci descrive “l’innocenza” sottoproletaria delle borgate romane. Ma è la decadenza del mondo borghese ad attrarre sempre più i registi e gli sceneggiatori.

Nel 1964 Francesco Maselli porta sullo schermo “Gli indifferenti”, tratto dal romanzo-capolavoro di Alberto Moravia, dolente e disperato affresco sulla crisi d’identità e sullo spaesamento dell’alta borghesia italiana. Carla (Claudia Cardinale) e Michele (Thomas Milian) sono due adolescenti inquieti ed alla ricerca della loro identità. La loro madre ha per amante Leo (Rod Steiger), un uomo senza scrupoli e che specula sulle loro ricchezze. Per “noia” e per “indifferenza”, Carla cadrà tra le braccia di Leo e Michele tra quelle di Lisa (Shelley Winter) una vecchia amica della madre.

Giungono poi gli anni della contestazione e, nel 1965, l’allora giovanissimo Marco Bellocchio, filma “I pugni in tasca”. La storia narra di Alessandro (Lou Castel) un adolescente “epilettico” e tormentato che si ribella alla falsità dell’ideologia borghese e che, in una scena diventata “cult”, getta la madre cieca da un dirupo. Il film scatenò le ire dei benpensanti ed inaugurò quel filone “ribellista” del cinema italiano ripreso poi nel 1968 da Salvatore Saperi con il suo “Grazie zia”. Questo altro film-scandalo (interpretato dalla seducente Lisa Gastoni e da Lou Castel) narra del rapporto “particolare” tra una dottoressa e suo nipote Alvise. Il ragazzo è il figlio ribelle di ricchi industriali e per protestare contro i falsi miti della società, finge di essere paralitico. Il finale tragico diviene, per il regista, la chiara metafora del destino cui andrà incontro la borghesia italiana.

Di taglio completamente diverso dai precedenti “Signore & Signori”, impietoso ritratto sulle ossessioni moraliste della provincia italiana, girato da Pietro Germi nel 1965.  Il film, caustico e velenoso, è la naturale continuazione di quel processo di dissacrazione contro i falsi miti borghesi, iniziato dallo stesso regista nel 1961, con lo strepitoso “Divorzio all’italiana”. Come è noto, in questa ultima pellicola, il protagonista è il barone Fefè (Marcello Mastroianni) un uomo sposato ed innamorato di Angela, la giovanissima cugina (Stefania Sandrelli). Per realizzare il suo sogno, l’uomo spinge sua moglie Rosalia nelle braccia di un suo spasimante e dopo averla ammazzata, confessa di aver compiuto il delitto per “onore”. La commedia fu un successo al botteghino e favorì l’abolizione dell’articolo 587 del codice penale che garantiva una pena minima a chi si macchiava di un delitto passionale per motivi d’onore.

Tratto dal racconto “Tema del traditore e dell’eroe” di Jorge Luis Borges, Bernardo Bertolucci nel 1970 dirige “La strategia del ragno”. Il film narra di un figlio che ritorna nella città dove molti anni prima, suo padre era stato ammazzato dai fascisti. Nel corso delle indagini, scoprirà che il genitore non solo non solo non era stato un eroe ma che era stato, addirittura, una spia di regime. Il dado è tratto. Abbattute le statue dei padri, delle madri, il cinema italiano deve fare i conti con le ceneri di quell’istituzione che un tempo veniva nominata “famiglia”.

Dopo l’irridente “Fantozzi” di Luciano Salce del 1975, interpretato dal vulcanico Paolo Villaggio, l’anno successivo Ettore Scola, con il suo “Brutti, sporchi e cattivi” si stacca dal coro e ci fornisce un’altra grottesca e  dissacrante descrizione di un nucleo familiare. Giacinto Manzella (Nino Manfredi) è un emigrante pugliese che vive in una baracca, nei sobborghi di Roma. Dapprima spara ad uno dei suoi figli, poi, per far dispetto alla moglie, si porta in casa una prostituta e la fa dormire con lui. I suoi familiari, nel contempo, cercano di avvelenarlo per rubargli l’indennizzo che ha ricevuto per la perdita di un occhio.

Seguono poi nel 1981 il capolavoro comico di Massimo Troisi “Ricomincio da tre”, il gustoso “Speriamo che sia femmina” (1985) di Mario Monicelli, l’intenso “Romance” (1986) di Massimo Mazzucco, il sorprendente “Da grande” (1987) di Franco Amurri, il sopravvalutato “Mignon è partita” (1988) dell’Archibugi, i nostalgici “La famiglia” (1988) e “Che ora è?” (1989) di Ettore Scola, il disincantato “Stanno tutti bene” (1990) di Giuseppe Tornatore,  il sussurrato “Evelina e i suoi figli” (1990) di Livia Giampalmo, l’irresistibile “Parenti serpenti” (1991) di Mario Monicelli ed il sofferto “Verso sud” (1992) di Pasquale Pozzessere.

Il 1993 è la volta di “Come due coccodrilli” di Giacomo Campitoti, primo film italiano imperniato su una “famigliastra”. La vicenda narra di un facoltoso imprenditore, sposato e padre di due figli (Saverio e Mauro). Ma l’uomo ama Marta (Valeria Golino) e da questa relazione extraconiugale nascono Gabriele e Martino. Alla morte della donna, l’uomo decide di accogliere in casa sua i due bambini. L’impatto con questa nuova realtà è traumatizzante per tutti. Gabriele (Fabrizio Bentivoglio) prova ad inserirsi in questa nuova realtà ma alla fine crolla emotivamente e scappa di casa. Ritornerà, anni dopo, nelle mura domestiche, per “regolare i conti” con i suoi fratellastri.

Un salto al 2001, anno in cui Nanni Moretti gira il suo intenso e commovente “La stanza del figlio”. Come è noto la vicenda si dipana dalla tragica morte del giovane Andrea, (Giuseppe Sanfelice) avvenuta a seguito di un’immersione subacquea. Giovanni (Nanni Moretti) Paola (Laura Morante) e la giovane figlia Irene (Jasmine Trinca) dovranno trovare la forza per elaborare il lutto della perdita del loro caro.

Ed è infine del 2002, lo straordinario “L’ora di religione” di Marco Bellocchio, pellicola che narra dello sconcerto di Ernesto Picciafuoco (Sergio Castelletto) di fronte alla notizia della beatificazione della propria madre. Nel corso del film, Ernesto scopre come la “santificazione” della donna era solo il frutto di un’astuta manovra di “mercato”, messa in piedi da alcuni dei suoi familiari. Diverrà questa per lui l’occasione per rileggere e ridisegnare il rapporto con la propria madre, una donna frustrante ed anaffettiva.

Dall’elenco dei film citati, ne discende una rappresentazione dell’universo familiare variegata, complessa e difficile da perimetrale: agglomerato di persone riunite solo sotto lo stesso tetto, luogo mentale dove è permesso lo scambio di emozioni e di affetti, incrocio di conflitti intergenerazionali, coacervo di drammi e di passioni personali, contenitore adeguato degli psichismi dei singoli componenti, spazio comunicazionale confuso, regno di triangolazioni, luogo di violenze e di abusi sommersi e taciuti.

  1. Le rappresentazioni seriali della famiglia sullo schermo

Dopo questo breve excursus dedicato al cinema italiano, proverò a mostrare come le cinematografie internazionali hanno raffigurato l’universo familiare in alcuni sottogruppi seriali e standardizzati.

  1. a) La famiglia inesistente

Il cinema deve il suo successo ad una serie di “generi” (il thriller, il poliziesco, il noir, il western, l’horror…) e ad una serie di marche iconografiche di riconoscimento. In un film western bisogna girare “necessariamente” una scena in un saloon, un paio di inseguimenti a cavallo, un assalto ad una diligenza e così via. Questi genere di film, orientati più sul ritmo e sull’azione non prediligono l’approfondimento psicologico dei personaggi e l’analisi delle loro dinamiche intrafamiliari. Il boom dell’home video ha poi spinto, in questi ultimi anni, le case di produzioni a finanziare sempre più prodotti di consumo, orientati sopratutto allo svago e all’intrattenimento del pubblico. Il risultato è una sempre maggiore spettacolarizzazione delle immagini a scapito del contenuto stesso del film. Far dimenticare agli spettatori i propri affanni e dolori, far disabituare a riflettere e a pensare; non è questa la parola d’ordine che da anni, vige non solo a cinema ma anche nelle TV di Stato e berlusconiane?

  1. b) La famiglia sfondo

In questi film, parenti ed affini, compaiono sullo schermo solo a margine della storia, come un mero pretesto narrativo e con una funzione decorativa e di contorno. Queste famiglie sono descritte come un assemblaggio d’individui, capaci di scambiarsi tra loro solo comunicazioni di servizio. Nel corso della narrazione possono anche comparire qua e là un fratello, una sorella o un lontano parente, ma il loro ingresso in scena non modifica il tessuto narrativo e non apporta sostanziali arricchimenti ai diversi personaggi.

  1. c) La famiglia dimenticata

Esistono una serie di pellicole “giovaniliste” incentrate su adolescenti inquieti, sbandati, alla ricerca della propria identità perduta ed incapaci di cancellare le violenze cui erano state vittime nel chiuso delle loro mura domestiche. Ecco come l’adolescente di “Parenti, amici e tanti guai” descrive il rapporto con suo padre:

“Io ce l’ho avuto in casa un uomo: mi svegliava tutte le mattine tirandomi una cicca accesa sulla mia testa e mi diceva: Ehi, stronzo, alzati e preparami la colazione. Ti richiedono una licenza per comprare un cane o per guidare una macchina o per andare a pesca e poi non gliene frega niente se un pezzo di merda ti fa da padre”.

  1. d) La famiglia anaffettiva

Innumerevoli pellicole hanno descritto l’aridità degli scambi emotivi circolanti all’interno delle mura domestiche e raccontato la frattura esistente tra il mondo degli adulti (distanti emotivamente dai loro figli) e quello dei figli (sommersi dalle loro paure, incertezze ed indecisioni). Su tutte due film. In “Gioventù bruciata”(film diretto da Nichoas Ray nel 1955) Jmmy Stark (James Dean) è un giovane adolescente inquieto, arrestato per ubriachezza. Al commissariato giungono i suoi familiari. Il padre di Jmmy è assalito verbalmente dalla moglie e dalla suocera. Jmmy dopo aver provato, inutilmente a mediare, si rivolge al poliziotto e gli dice:

“Se lo mangiano vivo e lui subisce. E’ un caos. Io gli voglio bene; in fin dei conti è mio padre. Non vorrei che facesse certe figure. Insomma non vorrei umiliarlo ma d’altre parte non so più davvero cosa fare se non  che togliermi di mezzo. Magari lui avesse il coraggio di dare una lezione a mia madre, forse lei sarebbe contenta, smetterebbe di beccarlo perché lo ha ridotto uno straccio.. Una cosa è certa! Io non voglio diventare come lui! Ma come si può vivere in una baraonda simile! Vorrei che ci fosse solo un giorno in cui non mi sentissi così confuso e non avessi la sensazione di vergognarmi di tutto. Se avessi intorno un vera famiglia, allora!”

“Splendore nell’erba” (diretto da Elia Kazan nel 1961) narra, invece, le vicende di Bud (Warren Beatty) e di Deannie, due giovani studenti che si amano alla follia ma sono entrambi succubi dei loro genitori. La scuola è l’unica oasi nella quale i due ragazzi possono rifugiarsi e sottrarsi, al lento ed inesorabile lavoro ai fianchi dei genitori. Bud prova a sedurre Deannie ma è ripetutamente respinto e su consiglio del padre si lancia alla ricerca di ragazze facili, “moderne” e disinibite. Deannie, sconfitta e delusa, tenta il suicidio ed é ricoverata in una casa di cura. Quando verrà dimessa scoprirà che Bud è sposato ed è padre di un bambino; non le rimane che sposare un dottore che ha conosciuto in clinica.

  1. e) La famiglia estremizzata

A questo sottotipo, fanno parte pellicole (“La famiglia Addams”, “Guai in famiglia” Mamma, mi si sono ristretti i ragazzi”) incentrate sulla rappresentazione estremizzata ed in chiave comica del nucleo familiare. All’opposto film (“The unsaid”, “Lantana”, “Le invasioni barbariche”) hanno come sfondo la morte accidentale, improvvisa o futura di un loro caro, sia esso un giovane adolescente o un anziano genitore. In entrambi i tipi di rappresentazioni, i registi rischiano di cadere nel banale o nell’eccesso di misura

  1. f) La famiglia folle

“La famiglia maledetta”, “Voci lontane sempre presenti”, “Bad Boy Bubby”, “Frances”, “Family life”, “Gente comune” sono solo alcune delle pellicole incentrate sulle modalità disfunzionali di gruppi familiari. In questi film non sono presenti dei minimi spiragli e queste famiglie, violente, lacerate ed anaffettive sono condannate ad implodere in loro stesse, con delle immaginabili e catastrofiche conseguenze.

  1. g) La famiglia lacerata

All’immagine della famiglia “unita” che, aveva dominato per anni lo schermo, il cinema ne sostituisce un’altra; quella di nuclei familiari erosi, privi della loro compattezza e coesione e lacerati da divorzi e da separazioni. Di fronte a questi nuovi sconvolgimenti familiari, non possono mancare le reazioni dei figli che, con un sentimento misto di rabbia e di delusione, commentano la loro triste e confusa situazione. Ecco come la protagonista di Giovani-carini e disoccupati descrive il suo stato d’incertezza:

“I miei genitori hanno divorziato quando avevo quattordici anni e mio padre si é risposato sei mesi dopo il divorzio. Mia madre voleva suicidarsi davanti a me e Patty si è ubriacata, di nascosto, tutte le mattine, fino a che non é andata al liceo, ed io…Sai qualcuno doveva portare fuori la spazzatura, firmare le pagelle, comprare il latte, così tutte quelle cose sono toccate a me.”

Ma forse la testimonianza più drammatica di questa dispersione affettiva, è offerta dalla bambina protagonista di “Papà sei una frana“:

“Non ne posso più di questo via vai. Lo sapevi che ho una sorella naturale, sette fratellastri e sette sorellastre? Lo sapevi che ho più di venti zii e di ventisei zie? Ed io non esagero per niente. Ormai sono arrivata ad aver più di nove nonni e cinque bisnonni. Mi ritrovo con più di duecento cugini, soltanto in America. Come si fa a tornare indietro? “

  1. La famiglia come rappresentazione relazionale e immaginaria

Giunto alle conclusioni, desidero accennare ad un film molto particolare: “Toto le heroes”, diretto da Jaco Van Dormael nel 1991. Questo straordinario film illustra le complesse modalità psicologiche che sottendono la formazione della matrice familiare in ogni individuo. La pellicola narra di Thomas, un bambino di otto anni, convinto di essere stato scambiato (durante un incendio scoppiato nel nido dell’ospedale dove era ricoverato) con Alfred il suo vicino. I genitori di Thomas sono poveri, quelli di Alfred sono ricchi. Per poter tollerare questi aspetti indigeribili della realtà Thomas si rifugia in un mondo fantastico e sogna di essere un agente segreto, di nome “Toto le heroes”.  Al di là dello sviluppo del plot narrativo, quello che colpisce in questo film, è l’assoluta aderenza a quegli accadimenti mentali che scattano nella prima infanzia descritti, nel 1909 da Sigmund Freud, nel suo articolo “Il romanzo familiare dei nevrotici”. Nello scritto Freud sottolinea come in una certa fase del ciclo vitale, il mondo emozionale del bambino sia popolato da una serie di fantasie consce ed inconsce relative ai propri natali. Secondo Freud il bambino, di fronte al crollo delle immagini genitoriali idealizzate, reagisce immaginando di non essere figlio dei genitori che lo hanno allevato, ma di essere un trovatello, un figlio illegittimo sottratto con l’inganno o con il rapimento, alla sua “vera” famiglia, nobile, ricca, illustre, potente e di nobile casato.

Secondo Freud nel tempo, il bambino si affranca da questa condizione ed immagina (dopo aver compiuto delle gesta eroiche) di essere ricompensato per la sua infelice “condizione” con la conquista dell’amore, dell’onore, della ricchezza e del potere. Grazie a queste fantasie riparative il bambino può, infine, riconquistare l’identità perduta. In “Toto le heroes”, il regista ci mostra mirabilmente come grazie alle sue fantasticherie, il piccolo Thomas riesce a sopravvivere e ad affrontare il delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta ma soprattutto come l’identità familiare sia una tappa evolutiva fondamentale per lo sviluppo psichico dell’identità individuale.

Bibliografia

Ignazio Senatore: “L’analista in celluloide” – Franco Angeli (1995)

Ignazio Senatore: “Curare con il cinema” – Centro Scientifico Editore (2002)

Ignazio Senatore: “Il cineforum del dottor Freud” – Centro Scientifico Editore (2004)

 

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