L’isola dei noiosi

14 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
L’isola dei noiosi
Senatore giornalista
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C’era una volta Carosello, la TV degli agricoltori, la TV dei ragazzi e “Non è mai troppo tardi”, una rubrica condotta dal maestro Alberto Manzi che contribuì più di qualsiasi altra riforma scolastica ad abbattere l’analfabetismo in Italia. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti e il linguaggio ed il costume televisivo si sono trasformati radicalmente. Dopo l’avvento delle tivvù commerciali, abolita qualsiasi vocazione culturale, la televisione è diventata schiava delle pubblicità, dello zapping incontrollato, del mordi e fuggi mediatico, fino a diventare negli anni l’icona del vacuo intrattenimento. Mai come in questi anni il piccolo schermo si dibatte all’interno di due opposte realtà; da un lato la fiction, dall’altra il reality. La prima è spinta a rimarcare sempre più i confini di un altrove dove tutto è possibile, dove la finzione scenica ha il compito di far dimenticare allo spettatore la dura ed indigeribile realtà quotidiana. I personaggi di queste fiction si muovono in contesti palesemente artificiali e fingono di lacerarsi all’interno di storie melodrammatiche, condite da cocenti tradimenti e da sofferte delusioni. In questa sorta di ipnotismo mediatico, poco importa se il livello artistico è basso, le recitazioni approssimative e la scrittura filmica è ridotta allo scolastico campo-controcampo. Il reality, invece, si basa principalmente sull’esaltazione della pulsione scopica (dal greco, vedere) dello spettatore. In questo caso viene offerta al fruitore delle immagini la possibilità di osservare (non visto) qualcosa che sembri avere il vago sapore del proibito. Sfruttando questo inconscio desiderio sempre presente nello spettatore, la televisione, massima esperta della chimica delle emozioni, è diventata, ultimamente, la stratega occulta di noiosissimi tormentoni, non ultimo quello che ha visto Valeria Marini annunciare in diretta tivvù la fine della sua storia con Vittorio Cecchi Gori e Simona Ventura svelare ad Al Bano che la moglie l’aveva piantato. L’interesse che questo nuovo fenomeno di costume (il rendere pubbliche delle decisioni riguardanti la propria sfera affettiva) ha scatenato il solito fiume d’inchiostro e il prevedibile e stupido putiferio mediatico. In un epoca dove le televisioni, pur di raggranellare qualche punto di share sulle reti concorrenti, sono disposte a pagare fior di quattrini per uno scoop in diretta tivvù, perchè meravigliarsi che la star di turno mercifichi le proprie emozioni, dandole in pasto al pubblico che è a casa? Al di là degli aspetti economici legati alle vicende, l’exploit delle confessioni in diretta, merita (forse) un approfondimento maggiore. Attratto dall’illusione di poter spiare dal buco della serratura, lo spettatore resta incollato al piccolo schermo, in attesa di poter assistere ad un bacio rubato, ad un pianto dirotto, ad un litigio furibondo. La fantasia di poter vedere (finalmente) il proprio idolo cadere a pezzi, mostrare la propria vulnerabilità, essere lacerato da dubbi, tormenti e da incertezze, è il prezzo che si chiede alla star di pagare in cambio della notorietà. E se gli antichi romani si divertivano nell’assistere alla lotta tra leoni e gladiatori, in questa sorta di circo mediatico, lo spettatore è disposto a pagare il canone solo se sa che prima o poi uno dei suoi idoli verrà rosolato e fatto a pezzi in diretta tivvù.  Il reality sembra soddisfare in pieno questo patto finzionale e nutrire l’atteggiamento ambivalente dello spettatore che ama ed odia il proprio beniamino, lo venera, lo invidia per i suoi guadagni da favola e per la sua vita nel lusso e perennemente sotto i riflettori ma che, contemporaneamente, vorrebbe annientarlo per essere al suo posto. Il reality si muove all’interno di queste due polarità; innescare gli istinti sadici dello spettatore e preservarlo dalla sua furia distruttiva. Non importa che le telecamere entrano in azione solo grazie ad una sapiente ed occulta regia che, decide, di volta in volta, quali immagini mostrare e quali oscurare; non importa che nulla sia lasciato al caso, che sia tutto pianificato ed oleato, nei minimi particolari, al punto che le scene di maggior presa sul pubblico devono essere mandate in onda, nella fascia di massimo ascolto, quasi sempre prima o dopo, il passaggio di una pubblicità. Chi assiste ad un “reality” è, dunque, solo ai margini della storia ed è condannato a impaginare i racconti che qualcun altro ha già confezionato per lui. Nell’illusione che tutto quello che passa nel tubo catodico sia reale, spontaneo, e genuino, sbolliti gli ultimi tormentoni, avanti, sotto a chi tocca.

da “La Voce della Campania” – Numero 11- Novembre 2005

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