“Occhi sgranati, accecati, appannati. La rappresentazione del transessuale sullo schermo” in “Sesso e genere” (a cura di Roberto Vitelli e Paolo Valerio) – Liguori Editore – 2012

22 Agosto 2012 | Di Ignazio Senatore
“Occhi sgranati, accecati, appannati. La rappresentazione del transessuale sullo schermo” in “Sesso e genere” (a cura di Roberto Vitelli e Paolo Valerio) – Liguori Editore – 2012
Scritti sul cinema pubblicati su altri volumi
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“Credo che la transessualità sia una condizione esistenziale evoluta.” (Transamerica)

Madre: “Sono contenta che tuo padre non ti veda così. Sai bene che a lui non sarebbe piaciuto. Era così contento di avere un maschio. Lo disse subito a tutti. Per fortuna non ti ha visto come sei ora. Non avrebbe sofferto.”

Stephanie: “Magari avrebbe preferito che io fossi contenta. Mi voleva tanto bene.”  (Wild side)

“Sono una donna intrappolata in un corpo di un uomo”.  (Fawless- Senza difetti)

Dottore: “E’ uomo o donna?”

La Miranda; “Dottore ma come può essere così schematico. La condizione che vivo è a metà tra mascolinità e femminilità e sarebbe la favolosità.”  (Stonewall)

Loren: Si figuri, madame, che quando ero un uomo non facevano altro che dirmi che ero donna ed ora che sono donna non fanno altro che ripetermi che sembro un uomo.” (Gloss. Cambiare si può)

Molte società nel corso della storia hanno onorato e venerato gli individui transessuali; gli zulù, gli Horuba, i nativi americani ci chiamavano “persone dai due spiriti”; poi sono arrivati i coloni e ci sparavano a vista.” (Transamerica)

Trans: “Dottore dica alla sua amica di non tagliarselo, se no non fa più una lira, creda a me.” (Gloss. Cambiare si può)

Introduzione

Al fianco delle pellicole che ruotano intorno all’incerta identità dei protagonisti (La mia vita in rosa, Una ragazza di nome Giulio, Tomboy…) agli ermafroditi (Eva Man, XXY- Uomini, donne o tutti e due?) agli omosessuali (Un affare di gusto, Il bacio della donna ragno, CRAZY, Lontano dal paradiso, …) alle lesbiche (L’altra metà dell’amore, High art, Lianna, un amore diverso, Quando cala la notte, Quelle due….), ai travestiti (Aria, Come una donna, Ed Wood, L’anniversario, Più bello di così si muore, Rosatigre, Splendori e miserie di Madame Royal, Tacchi a spillo, Vestito per uccidere, Il vizietto …), caduti pregiudizi e tabù moralisti, il cinema non poteva non offrire una variegata, variopinta ed ambivalente panoramica del complesso universo transessuale. In questo breve excursus sul tema analizzerò alcune pellicole prodotte dalle diverse cinematografie, suddividendole in alcuni sottogruppi.

  1. Film d’autore

 Seppur con cifre stilistiche differenti, diversi Maestri del cinema hanno affrontato il tema del transessualismo sullo schermo. Ne La moglie del soldato di Neil Jordan (1992)  Fergus (Stephen Rea), Jude (Miranda Richardson) e Peter, irriducibili componenti di un commando dell’IRA, prendono in ostaggio Jody (Forest Whitaker) un soldato inglese e chiedono in cambio del suo rilascio la liberazione di uno dei loro capi. Fergus ha il compito di sorvegliare Jody e tra i due, inevitabilmente, scatta una salda amicizia  Il governo non vuole negoziare ed il destino di Jody appare segnato. Prima di morire Jody chiede a Fergus di salutare per lui Dil (Jave Davidson), la donna alla quale è profondamente legato. Quando affidano a Fergus il compito di eliminarlo, lui tentenna; Jody scappa e nella fuga è travolto da un blindato. Per mantenere la promessa fatta a Jody, Fergus va nel negozio dove Dil lavora come parrucchiera e, celandole la propria identità, senza mai farle cenno alla sua amicizia con Jody, inizia a ronzarle intorno e finisce, inevitabilmente, per innamorarsi di lei. Ma lei è un trans e quando Fergus lo scopre si allontana bruscamente da lei. Ma i loro destini sono ormai irrimediabilmente intrecciati e quando Jude ricompare all’orizzonte, Dil non esisterà ad ammazzarla per salvare il suo uomo. Fergus s’incolperà del delitto e riceverà in carcere le visite dell’amata Dil. In questo splendido melò Jordan mescola una passionale storia d’amore alle complesse e spinose problematiche legate al terrorismo. Dopo aver commosso lo spettatore con il sincero e viscerale legame d’amicizia tra Fergus, rivoluzionario dal cuore d’oro, e Jody, il regista spiazza lo spettatore svelando, in una scena romantica e piena di tenerezza, la vera identità di Dil.

In Kitchen – Cucina di Yoshimitsu Morita (1994) il giovane Yuichi Tanabe (Kenji Matsuda) sbarca il lunario come tassista abusivo e vive con il padre Eriko (Isao Hashizume) che, dopo la morte della moglie, è diventato donna e gestisce un locale per gay. Dopo la scomparsa della nonna Mikage Sakurai (Ayako Kawahara), aspirante cuoca, va a vivere a casa di Yuichi. I due iniziano a legarsi ma quando Mami Okumo (Saki Matsura) confessa a Mikage di essere innamorata di Yuichi, abbandona il campo ed accetta un’offerta per andare a lavorare in Europa. Solo allora scopre che desidera restare solo accanto al suo amato Yuichi. Scialba trasposizione dell’omonimo romanzo di Banana Yohsimoto impaginato con dei dialoghi più leggeri di una piuma e con il cibo che fa da filo conduttore alla vicenda ma rimane anch’esso sullo sfondo. La scelta di Eriko di diventare donna è liquidata con una frettolosa confessione regalata a Mikage. “Per capire perché sono voluta diventare donna e madre, ho dovuto capire il mio corpo, il mio carattere, l’ambiente familiare che mi aveva formato. Tutte queste sono chiavi di lettura che è importante avere.”  Nel corso del film è ricoverata in una clinica psichiatrica ed a Mikage che le chiede come si sente, risponde, sorridente:“Il corpo è in forma perfetta ma è la testa che… Quando sono diventata donna e mamma ero consapevole e risoluta ma alla fine i nervi subiscono il contraccolpo..”.

In Gocce d’acqua su pietre roventi (1999) il diciannovenne Franz (Maliq Zidi) è sedotto da Leopold (Bernard Giraudeau), un agiato assicuratore cinquantenne, diventa il suo amante e si trasferisce a casa sua dove si trasforma in una perfetta massaia. Ma Leopold lo umilia, lo deride e lo squalifica e quando arrivano in casa Vera, la fidanzata di Franz ed Anna, un transessuale, ex fidanzato di Leopold, scatteranno litigi e tensioni. Nel drammatico finale Franz si suicida, ingerendo del veleno. Ozon ambienta la vicenda in Germania, negli anni Settanta, mette in scena la piece “Tropfen auf Heisse Steine” scritta a 19 anni e mai rappresentata da Reiner Fassbinder e per rimarcare ancor più il senso claustrofobico della pellicola sceglie di girare il film nella casa-prigione di Leopold. Suddiviso in quattro atti e confezionato con un taglio teatrale, il regista francese punta tutto sulla contrapposizione tra il gelido, cinico ed egoista Leopold ed il fragile, passivo ed insicuro Franz. A completare questo “torbido” quadro, Vera, la vecchia amante di Leopold, che seppur ripudiata, essendo ancora innamorata di lui, si fa operare e diventa “donna”, nella speranza di ri-conquistarlo. In questo dramma senza speranza Ozon sembra ricordarci come, in questa società borghese, regolata da rapporti di poteri e di dominio, nessuno potrà mai essere felice.

Ne Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek (2001) Massimo (Andrea Renzi), sposato da quindici anni con Antonia (Margherita Buy), muore travolto da un’auto. Grazie ad una dedica apposta dietro un quadro, Antonia scopre, per caso, che lui la tradiva da sette anni con Michele (Stefano Accorsi). Dibattuta tra il desiderio di conoscere la verità e rimuovere la dolorosa scoperta, Antonia frequenta la casa dove Michele vive in compagnia di una festante compagnia costituita tra gay, lesbiche e travestiti e finirà per elaborare il lutto per la morte del marito, gettandosi alle spalle pregiudizi e preconcetti. Pellicola che decretò il successo di pubblico del regista italo-turco e che si snoda a partire dallo sconcerto ed il disorientamento di una donna borghese che scopre che l’uomo, con il quale era sposato da anni, non solo era un bugiardo traditore ma un perfetto sconosciuto. Nel film compare Mara (Lucrezia Valia) un trans dalla chioma biondo platino in crisi per l’imminente matrimonio del fratello. Lei manca da dieci anni da casa ed ha celato a tutti di essere diventata “donna”. Dopo aver provato, invano, a fasciarsi il seno e ad indossare degli abiti maschili, decide di andare alla cerimonia senza nascondere la propria identità.

In “Carmela”, secondo episodio di Libera di Pappi Corsicato (1993), Sebastiano (Ciro Piscopo) non appena uscito dal riformatorio torna a casa ed alla madre Carmela (Cristina Donadio) chiede notizie del padre scomparso nel nulla. Lei glissa sull’argomento e gli racconta che l’uomo, un impenitente latin lover, li aveva abbandonati per correre dietro qualche sottana. Miriam (Cinzia Mirabella) una vicina di casa prova a sedurre Sebastiano ma lui ha puntato gli occhi su Vincenzo (Enzo Peluso), un ragazzo che ricambia le sue attenzioni. Sebastiano non disdegna di bucarsi di tanto in tanto ed un giorno, per caso, trova una vecchia foto che lo ritrae ancora bambino al fianco del padre e della madre. Comprende allora la sconcertante verità: Carmela è suo padre. Film ironico, grottesco, divertente, leggermente anticlericale, tappezzato con una colonna sonora trash, zeppa di canzoni neomelodiche napoletane. Corsicato non immerge la vicenda nelle sacche del melò e propone una narrazione fluida e moderna, lontana da psicologismi di maniera che esplode nel finale quando Carmela confessa al figlio l’amara verità.

In Alza la testa di Alessandro Angelini (2009) Antonio Mero (Sergio Castellitto), ex pugile dilettante, dopo l’abbandono della moglie Denise, vive nutrendosi del sogno che Lorenzo (Gabriele Campanelli), il figlio adolescente, diventi un giorno, un grande boxeur. Allenatore severo, esigente ed autoritario, si danna l’anima per insegnargli i trucchi del mestiere e, convinto che arriverà alle Olimpiadi, lo allena ogni giorno, da sette anni. Il ragazzo promette bene ed Antonio per favorire la sua carriera, con la morte nel cuore, si mette da parte e lo affida a Rinaldino, esperto coach di boxe. Lorenzo continua ad allenarsi con impegno, vince qualche incontro e quando Antonio scopre che fa il filo ad Ana (Laura Ilie), una simpatica ed estroversa ragazza romena, per evitare che lei possa deconcentrarlo e distrarlo dalla carriera sportiva, le chiede di star lontano dal suo campione. Lorenzo non gli perdona quest’intrusione nella sua vita privata, lo accusa di essere insensibile ed egoista e, dopo aver litigato ferocemente con lui, si allontana sotto una pioggia battente in sella al motorino che sbanda ed esce fuori strada. Lorenzo è ricoverato in ospedale in gravissime condizioni e sono vani gli sforzi dei medici per salvarlo. Spezzato dentro, Antonio autorizza l’espianto del cuore e qualche mese dopo poi si mette sulle tracce di Sonia, un trans che vive ai confini con la Slovenia e che ha in petto il cuore del figlio. Dopo altri colpi di scena, un finale consolatorio chiude la vicenda. Dopo L’aria salata, abbagliante film d’esordio, Angelini ripropone un’altra storia toccante, commovente e dolorosamente tragica che ruota intorno all’intenso ma ambivalente e conflittuale rapporto tra padre e figlio. Antonio, operaio di un cantiere nautico a Fiumicino, solo e senza amici, si batte come un leone, perché il figlio “alzi la testa” ed affronti, a muso duro, la vita come il ring. Lui gli snocciola negli anni frasi come “Ti devi proteggere, ti devi prendere cura di te”, “I vincenti non sono quelli che non cadono ma quelli che dopo ogni caduta sanno rialzarsi” e Lorenzo, per non deluderlo, suda, s’allena fino allo spasimo, stringe i denti, ma poi scoppia e si ribella quando sente su di sé la schiacciante presenza del padre. Macchina a spalla, Angelini compone una prima parte intensa, lirica e commovente ma poi non tiene adeguatamente a freno la vicenda che, dopo la morte di Lorenzo si disunisce, fino a divenire confusa e sfuocata. La figura di Sofia è tenera e disarmante. ma il regista non le cuce addosso un personaggio credibile ed il disperato tentativo di Antonio di rivedere in lei il fantasma del figlio sembra tirato troppo per i capelli. 

Un discorso a parte merita, infine, la produzione cinematografica di Pedro Almodovar che, nel corso della sua affermata carriera, ha più volte inserito nei film la figura di un trans. Ne La legge del desiderio (1986) Pablo Quintero (Eusebio Poncela), noto regista gay, si divide tra l’amore di Juan (Miguel Molina) e di Antonio Benitez (Antonio Banderas). Quest’ultimo geloso dell’amore che Pablo nutre per Juan, uccide il rivale, lasciandolo precipitare da una roccia a picco sul mare. Pablo perde la memoria a seguito di un incidente d’auto ed Antonio, sentendosi abbandonato, per riconquistarlo, gioca la sua ultima carta e sequestra Tina (Carmen Maura), la sorella di Pablo. Sul finale si scopre che Tina è il fratello di Pablo e si era sottoposta all’operazione per amore del padre di cui era innamorata e di cui era diventata l’amante. Il finale non può essere che tragico. Almodovar compone un melodramma visivamente piatto e non bastano i ripetuti colpi di scena per dar slancio ad una vicenda contorta e noiosa, appesantita da dialoghi fiume e dall’intreccio pasticciato e confuso. Lo svelamento dell’operazione di Tina ed il suo rapporto incestuoso con il padre appare slegato al resto della storia e sembra solo un espediente narrativo per sorprendere ancor più lo spettatore. In Tutto su mia madre di  Pedro Almodovar (1999) Huma (Marisa Paredes) è impegnata a recitare a Madrid nella pièce Un tram che si chiama desiderio. Esteban, il figlio diciassettenne di Manuela (Cecilia Roth), suo appassionato fan, le chiede, invano, un autografo e nel rincorrerla  a piedi è travolto da un’auto in corsa. Spezzata dentro, Manuela decide di andare alla ricerca del padre del ragazzo che vive a Barcellona ed è diventato un trans di nome Lola.(Toni Cantò). Manuela incontrerà Agrado (Antonia San Juan), un travestito sua vecchia conoscenza, diventerà amica di Manuela, che ha una tormentata storia d’amore con Nina, la sua assistente tossicomane e s’imbatterà in suor Maria Rosa Sanz (Penelope Cruz) rimasta incinta di Lola. Ennesimo melodramma statico e verboso del regista spagnolo che mette in scena i soliti personaggi “eccessivi” e dall’identità sessuale “incerta” e”confusa”. La trama mescola sciattamente vita e morte, illusioni e delusioni, lacrime e rimpianti e mostra Lola come un trans che per diciassette anni ha vissuto ignorando l’esistenza di Esteban e che, impunemente, trasmette l’HIV alla tenera Maria Rosa che, colpita dal morbo, morirà sul finale.

Ne La mala educacion (2004) Padre Manolo (Daniel Gimenez Cacho), direttore di un collegio, è innamorato di Ignacio, un ragazzino attratto da Enrique, un coetaneo. Padre Manolo si frappone ai due e muta, irrimediabilmente, il corso del loro destino; dopo aver allontanato Enrique dal collegio, abusa ripetutamente di Ignacio. Passano gli anni ed Ignacio (Gael Garcia Bernal) si mette sulle tracce di Enrique (Fele Martinez) divenuto regista di successo e gli propone una sceneggiatura imperniata sulle loro esperienze infantili in collegio. Enrique è affascinato da quel soggetto ed affida ad Ignacio il ruolo di Zaraha, la conturbante protagonista. Ma sotto le mentite spoglie di Ignacio si cela suo fratello Juan che con la complicità di Manolo, suo amante, aveva eliminato Ignacio, divenuto negli anni tossicomane. Almodòvar abbandona la solita dissacrante ironia, sferra un duro attacco agli abusi sessuali sull’infanzia perpetrati dal clero ma ingarbuglia inutilmente la matassa rendendola in più punti indigesta. La vicenda è, inizialmente, tenera e toccante ma, abbandonata l’ambientazione nel collegio, annaspa e perde, inevitabilmente, i colpi.

  1. Film dal taglio realistico

A questo raggruppamento appartengono quelle pellicole, dirette con uno stile crudo, asciutto ed abrasivo, che mostrano dei trans che vivono prostituendosi sui marciapiedi ed accettano, con disincanto e rassegnazione, una vita condita da botte e delusioni, ingiurie e soprusi.

In Mery per sempre  di Marco Risi (1988) Marco Terzi (Michele Placido) insegnante di liceo, in attesa del conferimento di un incarico in una scuola d Palermo, accetta di insegnare al Carcere Minorile  Rosaspina. Gli alunni sono delinquenti comuni arrestati per furto con scasso, spaccio, detenzione o per omicidio. Tra questi spiccano Pietro (Claudio Amendola) Natale, Antonio, Claudio (Maurizio Prollo) e Mario (Alessandro Di Sanzo), un transessuale che fa la vita, si fa chiamare Mery ed é rinchiuso per un tentato omicidio ai danni di un cliente. Inviso dalle guardie carcerarie dal direttore, dai ragazzi, ed in special modo da Natale che disturba continuamente le lezioni, Terzi è diviso dal desiderio di mollare tutto e quello di accreditarsi professionalmente, portando a termine programmi ed interrogazioni. Dopo le iniziali diffidenze, riesce a conquistare la fiducia degli allievi e quando gli si offre la possibilità di trasferirsi al liceo cittadino decide di continuare ad insegnare al Rosaspina al fianco dei giovani detenuti. Risi traspone sullo schermo l’omonimo romanzo di Aurelio Grimaldi, sceglie uno stile neo-realistico e, fatta eccezione per la presenza di Michele Placido, s’affida a degli attori non protagonisti, con un passato di emarginazione alle spalle. Seppur animato dalle migliori intenzioni il film non graffia, è scandalosamente retorico e si limita a mostrare un manipolo di sbandati vittime di un destino più grande di loro tra cui spicca Mery, un trans che vive la propria diversità con dramma e sofferenza.

In Stonewall (1995) Bostonia (Duane Boutte) gestisce lo “Stonewall” il locale di transessuali più rinomato del Greenwich Village di proprietà di Skinni Vinnie (Bruce MacVittie). Tra i frequentatori più assidui del locale Hector Leo Duarte, transessuale portoricano che si fa chiamare La Miranda (Guillermo Diaz) e Matty Dean (Fred Weller) un ragazzo gay giunto dalla provincia per cercare di organizzare un movimento in difesa dei transessuali e degli omosessuali. Nel corso di una retata della polizia un ispettore picchia selvaggiamente La Miranda e Matty, invaghitosi di lei, prende le sue difese e finisce in galera. C’è una legge dello stato americano che proibisce di vendere alcolici agli omosessuali e Matty, supportato da un giornalista, da un fotografo e da un  paio di gay, fan un giro per i bar per registrare le reazioni dei gestori dei locali. Come sempre, lo Stonewall è oggetto delle retate della polizia ma dopo aver assistito all’ennesima scena di violenza gratuita, La Miranda reagisce al poliziotto che l’aveva malmenata. E’ la classica scintilla; la rabbia dei gay e dei transessuali esplode e, dopo dei violenti scontri, messa alle strette, la polizia è costretta a rifugiarsi nello Stonewall. Liberamente tratto dal romanzo “Stonewall” di Martin Duberman il film è in bilico tra la denuncia sociale e la ricostruzione degli anni di lotta per i diritti dei gay e dei trans che culminò il 27 giugno 1969 alla loro rivolta dopo l’ennesima irruzione della polizia allo “Stonewall Inn” di Christopher Street e che fece così scalpore che da allora in tutto il mondo, in quella stessa data, si celebra il “Gay Pride”. Pur non adottando un taglio documentaristico, il regista descrive quel variopinto mondo che ruotava intorno allo Stonewall in quegli anni e sottolinea quel clima di violenza e di intimidazione nei quali erano costretti a vivere i frequentatori di quello storico locale. I personaggi sono abbozzati ma più che l’amore tra La Miranda e Matty colpisce quella tra Bostonia e Vinnie, un uomo che non potendo vivere quella relazione alla luce del sole, si spara un colpo di pistola alle tempie.

In Princesa di Henrique Goldman (2001) Fernanda (Ingrid de Sousa), in arte Princesa, diciannovenne travestito brasiliano, arriva a Milano per coronare il sogno di una vita; operarsi per diventare donna. Incontra Karin (Lulu Pecorari), una maitresse che l’ospita a casa sua e l’introduce nel giro della prostituzione. Tra i diversi clienti Princesa s’imbatte in Fabrizio (Mauro Pirovano), un ragazzone timido ed impacciato che le chiede principalmente ascolto e conforto ed in Gianni (Cesare Bocci), un avvocato che perde la testa, lascia la moglie Livia (Alessandra Acciai) e va a vivere con lei. Ma Livia è incinta, dopo anni che si era rifiutato di dare un figlio a Gianni; Princesa comprende che il suo sogno di vita “normale” non è più realizzabile; abbandona Gianni e, dopo aver pensato al suicidio, ritorna da Karin e riprende a fare la vita. Goldman traspone sullo schermo l’omonimo romanzo di Fernanda Farias de Albuquerque e Maurizio Jannelli che ispirò Fabrizio De André per la canzone Princesa ed impagina una pellicola che mescola inchiesta a melodramma ed alterna un taglio realistico a quello tipico dei fuilletton e dei fotoromanzi. Il regista non lesina le scene che mostrano il sesso mercenario tra clienti e prostitute ma il suo sguardo, seppur crudo non è né sordido, né malsano, né pruriginoso. Princesa attraverserà gli inferni del marciapiede, sognerà di poter vivere al fianco del suo Gianni ma poi precipiterà nuovamente negli abissi del Male. Goldman inserisce nella narrazione una psicologa che informa la protagonista dei rischi legati all’operazione ed all’assunzione di Androcur ma diserta lo scavo psicologico ed affida a Princesa una prevedibile storiella lacrimevole: “Da piccolo volevo giocare con le bambole e la madre lo costringeva a giocare a pallone. A scuola voleva fare la parte di una principessa in una recita ed allora mi mettevo davanti uno specchio e sognavo di essere una principessa. Gli altri bambini mi prendevano sempre in giro mi chiamavano sempre frocetto ma io me ne fregavo. Dentro di me sapevo di non essere frocio; ero una donna.”

In Wild side di Sebastien Lifshitz (2004) Stephanie (Stephanie Michelini), un transessuale che si guadagna da vivere come prostituta, accorre al capezzale della madre (Insiane Stoleru) morente. In quella fredda e gelida regione del sud della Francia, Stephanie è raggiunta dai suoi due amanti; Jamel (Yasmine Belmadi), gay di origine nordafricana che si prostituisce nelle toilette delle stazioni, e Mikhail (Edouard Niktine), un emigrato clandestino russo che sbarca il lunario come cameriere. I tre amanti rivivono insieme momenti felici e Stepanie riesce a recuperare il rapporto sfilacciato che aveva con la madre. Dopo il suo funerale Stephanie, Jamel e Mikhail faranno mestamente ritorno a casa in treno. Il regista si muove su un doppio registro; da un lato Stephanie che si prende cura teneramente della madre malata e dall’altro le scene, in odore hard, degli incontri sessuali prezzolati di Jamel ed impagina una vicenda che spiazza lo spettatore per la visione cupa e disperata dei rapporti umani messi in campo.

La bocca del lupo di Pietro Marcello (2009) racconta il ritorno a casa di Enzo (Vincenzo Motta), un immigrato catanese, condannato a ventisette anni di carcere. Ad aspettarlo in un piccolo appartamento nei pressi dell’angiporto genovese la sua Mary (Mary Monaco), un trans, ex tossicodipendente di eroina, conosciuto durante la detenzione. In questo docu-film, (il cui titolo allude a un noto romanzo ottocentesco di Remigio Zena, ambientato nei vicoli genovesi), il regista vuole narrare un’appassionata storia d’amore tra due emarginati ma raffredda la narrazione con gli insistiti filmati d’archivio, con dei lunghissimi squarci paesaggistici e con un prologo che rimanda alla spedizione dei Mille. Grazie alla voce fuori campo, Enzo e Mary si raccontano e descrivono le loro vite tribolate dalle quali emerge il carattere violento e passionale di Enzo che, accecato dalla passione per Mary, aveva minacciato di morte  sia le guardie che i carcerati se avessero mancato di rispetto alla sua amata che, dal suo canto, lo aveva ripagato, andandolo a trovare, per tutti quegli anni in carcere.

  1. Commedie

Il cinema non poteva non ironizzare sulla figura del trans che, come prevedibile, diviene il motore narrativo intorno al quale, si sviluppano situazioni divertenti ed irresistibili che scatenano l’inevitabile ilarità dello spettatore. In Nessuno è perfetto di Pasquale Festa Campanile (1981) Guerrino Castiglioni (Renato Pozzetto) giovane e ricco industriale, dopo la morte della giovane moglie, vive con la suocera (Lina Volonghi) tappato in casa, disertando svaghi e compagnie femminili. Una sera accetta l’invito di un amico ed incontra Chantal (Ornella Muti) un’affascinante indossatrice di cui s’innamora a prima vista. I due si sposano ma poco dopo Guerrino scopre che Chantal era un ex paracadutista della Wermacht e che si era sottoposto a delle operazioni chirurgiche per diventare donna. Confuso e smarrito non riesce più a far l’amore con lei e la suocera, segretamente innamorato di lui, per ripicca, spiattella in piazza lo scottante segreto. In breve tempo Guerrino e Chantal diventano la coppia più derisa e chiacchierata del paese. Guerrino non sa darsi pace e per tacere le male lingue pensa di adottare un bambino e di spacciarlo come il frutto del loro amore. Dopo un periodo di crisi,  Guerrino e Chantal ritornano insieme. E quando Chantal gli confessa di essere il padre di un bambino, Guerrino accetta che il piccolo vada a vivere con loro. Commedia delicata e ben costruita che non scivola mai nella volgarità e nelle cadute di stile e che affronta in maniera ironica ma onesta un argomento spinoso per il cinema italiano come quello dei  transgender. Il regista sceglie come simbolo dell’ambiguità sessuale Ornella Muti, una delle attrici italiane più sexy ed in voga al tempo e le affianca Pozzetto, il prototipo del maschio timido ed impacciato  ma dal cuore d’oro. Il titolo è uno spudorato riferimento alla battuta finale pronunciata da Tony Curtis in Gli uomini preferiscono le bionde che rimanda all’ambiguità del personaggio di Chantal.

In Belle al bar di Alessandro Benvenuti (1994) il preciso, metodico e riservato Leo (Alessandro Benvenuti), sposato da dieci anni con Simona (Assumpta Serna), è invitato a Piacenza dall’amico gallerista Guido (Andrea Brambilla) a restaurare un quadro del Cinquecento. Lì incontra Giulia (Eva Robbins) un trans che altri non è che il cugino Giulio, che non incontrava da anni, da sempre innamorato di lui e che vive prostituendosi. Leo si trasferisce a casa di Giulia, conosce Antonello (Augisto Terenzi) un gay che vuole cambiare sesso ed, abbattuti pregiudizi e preconcetti, dopo aver lasciato la moglie, si lascia travolgere dall’irresistibile passione per Giulia. Commedia godibilissima che punta tutto sulla conturbante presenza di Eva Robins, trans che assunse agli onori della cronaca e scandalizzò i bigotti ed i benpensanti del tempo. Benvenuti evita le battute da “bar dello sport” (il titolo fa riferimento al pub che Giulia sogna di aprire) e senza mai scivolare nel volgare o ne moralismo di maniera dirige, con garbo, la migliore commedia italiana sul tema. Il regista toscano gioca sul contrasto tra il timido ed impacciato Leo e la trasgressiva, esuberante e piena di vita Giulia. I dialoghi sono deliziosi e nel corso della narrazione Giulia si racconta all’amato cugino: “Sai Leo ci sono delle scelte che uno non fa con cognizione. Ce le hai dentro. Quando avevo sei anni prendevo tutti i foulard e me li legavo intorno alla vita e ne facevo una sottana. Mi mettevo in mezzo alla stanza “Sono una ballerina, sono una ballerina”. La mamma non diceva niente, a volti divertiva anche lei. Si faceva insieme le Kessler: “Dadaunpa, dadaumpa…” però cambiava subito espressione quando stava per tornare il babbo. “Dai levati questi cenci, su fai in fretta che arriva il babbo”. Io me li levavo ma dentro rimanevo una ballerina. Te lo ricordi come era severo il babbo. Mi guardava, mi guardava, fin quando ero piccolo faceva finta di non capire…Lo so che ho dato tanto dolore in famiglia, cosa credi?” Sul finale, a Leo che gli chiede  perché voglia sottoporsi all’operazione, Alessandro risponde:“Leo ce l’ho anche io una gran confusione però se tu mi metti all’improvviso uno specchio davanti, io non mi ci riconosco. Guarda che è duro tutte le volte dire: No, non quello non sono io. Uno poi non ce la fa più.”

In Come mi vuoi di Carmine Amoroso (1996) Pasquale (Vincent Cassel) un agente di polizia, nel corso di una retata notturna rincorre Desideria (Enrico Lo Verso) un transessuale che vive a Roma e nell’inseguimento finisce insieme a lei aggrappato su una roccia in bilico su un dirupo. In attesa dei soccorsi i due scoprono di essere amici d’infanzia, nati entrambi a Montenero, un piccolo paese abruzzese. Per Desideria è il colpo di fulmine ma Pasquale è fidanzato con Nellina (Monica Bellucci) ed è sul punto di sposarla. Don Pasquale (Memè Perlini) chiede a Pasquale di riportare Desideria sulla retta via ed a furia di frequentarlo i due diventano amanti. Nellina, scopre il tradimento, tenta il suicidio e Pasquale le promette di sposarla. Affranta e delusa, Desideria parte per Parigi per farsi operare dove Pasquale, dopo aver piantato Nellina, la raggiunge Desideria. Al debutto dietro la macchina da presa Amoroso dona ai personaggi uno sgangherato dialetto abruzzese., affonda nei luoghi comuni ma regala una rappresentazione allegra e spensierata del mondo dei transessuali. Il regista contrappone all’ossuta e disarmonica Desideria la bellezza statuaria di Nellina e lascia intendere che per Pasquale non c’è alcuna differenza tra l’andare a letto con Desideria o palpeggiare la formosa fidanzata. E quando Pasquale  chiede a Desideria come abbia fatto negli anni a nascondere alla famiglia, la sua condizione di trans si sente rispondere: “Lo sai qual’e la più grande ambizione della mia vita? Essere orfano”.

In Mater natura di Massimo Andrei (2005) Desiderio (Maria Pia Calzone) un giovane transessuale, che alla nascita si chiamava Salvatore, s’innamora perdutamente di Andrea (Valerio Foglia Manzillo) il gestore di un autolavaggio. Ma lui sta per sposare Maria e Desiderio va in crisi. Con Massimino (Vladimir Luxuria) Europa (Enzo Moscato) ed un altro paio di transessuali suoi amici Desiderio apre “Mater natura” un agriturismo alle falde del Vesuvio dove si coltivano biologicamente verdure ed agrumi e vengono offerte consulenze esistenziali- psicologiche per uomini in crisi. Desiderio è aggredita e stuprata da un gruppo di teppisti ed Andrea, accorso in sua difesa è ammazzato. In segno di affetto e di riconoscenza per il suo amato, Desiderio dona il proprio appartamento alla bambina di Andrea che Maria ha in grembo. Al debutto Andrei confeziona un film in bilico tra macchiettismo e folklore, tra il melodramma e la commedia leggera. Il personaggio di Desiderio, è eccessivamente caricato e risulta, nel complesso, stucchevole e decadente ed a Maria confida la sua incerta ma duttile condizione esistenziale: “Io mica so ommo. Mi sento una femmina e non sono una femmina. Io non sono né carne, né pesce. Sono una bugia. Io recito, tengo tutto finto. Mi vuoi vedere allegra? Io sono allegra. Mi vuoi vedere triste? Faccio pure la triste. Femmina? Femmina. Uomo? Saccio pure fa l’uomo.  Io posso diventare tutti quello che vuoi tu. Però solo una volta nella vita ti capita di incontrare qualcuno che ti vuole bene e basta ed non hai bisogno di inventarti proprio niente. Mi faceva sentire felice. Quando è amore te ne accorgi. “ Le scene più divertenti del film sono quelle che mostrano l’originale consultorio messo su dagli sgangherati protagonisti. Ad un uomo sposato che aveva chiesto una consulenza, uno dei transessuali gli risponde:“ Tu hai difetto e non lo sai. Tu per la psicologia ufficiale sei una cripto-checcca. Sei ricchione all’interno, all’esterno non si vede niente.”

  1. Trans che si sono sottoposti o che si sottoporranno all’intervento

Appartengono a questo sottogruppo quelle pellicole che mostrano dei trans che sono già finiti sotto i ferri o che vogliono ricorrere  all’intervento. In Un anno con tredici lune di Reiner Werner Fassbinder (1978) Elwin Weishaupt (Volker Spengler), dopo essersi sottoposto all’operazione a Casablanca, si fa chiamare Elvira. Picchiato duramente per aver provato ad andare con un gigolo, vestito da uomo, non appena ritorna a casa, è pesantemente ingiuriato ed offeso da Kristof, l’uomo che convive con lei che, stufo dei suoi bizzarri comportamenti, la pianta in asso. Zora la rossa (Ingrid Caven), una materna prostituta si prende cura di Elvira ma lei, spezzata dentro, cerca inutilmente conforto nella moglie Irene (Elisabeth Trissenar) e nella figlia. Dopo aver tirato in ballo in un’intervista Anton Saitz (Gottfried John), un oscuro personaggio, suo ex amante, sopravvissuto ai lager nazisti ed arricchitosi con la speculazione edilizia e la prostituzione, Elvira va da lui, nella vana ricerca di affetto ma, ferito dal suo gelido disprezzo, sola e disperata, si suicida. In questa pellicola, attraversata da un cupo pessimismo, il regista tedesco racconta gli ultimi cinque giorni dell’infelice protagonista, abbandonata da bambino in un convento dalla madre. Nel corso della narrazione la solitudine di Elvira addenta e trapassa le carni  ed è messo sullo sfondo l’amore cieco ed assoluto per Saitz, un uomo per cui aveva deciso a sottoporsi all’intervento e che negli anni non aveva più ricambiato il suo amore. Quando Zora chiederà a Saitz perché Elvira si era operata, lui freddamente le risponde: “Allora lavoravamo insieme, affari di secondo ordine. Carne ad esempio. Tutti e tre insieme; io Erwin e sua moglie. Lui mi guardava in maniera strana ed io gli chiesi il motivo. E lui disse che mi amava. Io rido e dico che anche lui mi piacerebbe se fosse una ragazza e lui lo è diventato. Così è andata. Non c’è altro.

In Jimmy Dean, Jimmy Dean di Robert Altman (1982) a McCarthy, uno sperduto paesino del Texas, Sissy (Cher), Edna Louise (Martha Eflin), Mona (Sandy Dennis), Stella Mae (Kathy Bates) e Joe (Mark Patton) fondano, nel piccolo drugstore di Juanita, un club di fans di James Dean, idolo cinematografico che, a pochi chilometri di distanza, sta girando il film Il gigante. L’attore muore in un incidente d’auto e le ragazze, per onorare la sua memoria, decidono di riunirsi a distanza di venti anni. Emergono amarezze e rimpianti, segreti e delusioni, accuse, rabbie e gelosie. Sissy, dopo una vita sregolata non ha trovato l’uomo della sua vita, Edna sta per scodellare il suo settimo bebè, Mona, ormai con la mente sempre più in disordine, continua a credere di aver avuto un figlio da James Dean, Stella Mae trascina la sua vita stancamente e Joe, dopo aver subito l’operazione è diventata Joanna (Karen Black). Nel minuscolo emporio, rievocati i tempi perduti, le vecchie amiche si daranno un nuovo appuntamento a distanza di venti anni. Ambientata a metà degli anni Cinquanta e, girata in un unico ambiente, nel rispetto dell’impianto teatrale dell’opera, la pellicola, verbosa, statica e noiosa, non regala molti palpiti allo spettatore. Altman mette in scena delle protagoniste frustate e depresse, deluse da una vita che non ha mai regalato loro un sorriso e lascia che su tutte spicchi la figura di Johanna, un trans coraggioso che ha avuto la forza di ritornare nel luogo dove era stata, da giovane, umiliata e derisa per la sua diversità. Più equilibrata e meno rancorosa delle vecchie amiche, si limiterà ad ascoltarle e proverà, invano, a convincere Mona dell’assurdità delle sue farneticazioni. A Stella May che le chiede se ha provato qualche rimpianto per essersi sottoposta all’intervento, risponde con un enigmatico e sommesso: “Solamente se mi accade di pensarci.”

In 20 centimetri di Ramon Salazar (2005) Marita (Monica Cervera), un esuberante transessuale, batte i marciapiedi di Madrid ed è solita, nell’attesa dei clienti, scambiare quattro chiacchiere con La Frío (Rossy De Palma), un trans affettuoso ed amorevole che si era sottoposta all’operazione dieci anni prima. Il sogno di Marita è quello di sbarazzarsi di quei venti centimetri di troppo che le rimandano ad un corpo maschile che vuole al più presto dimenticare. Pur di mettere da parte i soldi per pagarsi l’operazione vive in un modesto appartamento che divide con Tomás (Miguel O’Dogherty), un nano con la passione per il violoncello, con il quale litiga frequentemente. Marita trova lavoro in un’impresa di pulizia ed è sempre più attratta da Raul (Pablo Puyol), un fusto aitante e muscoloso che lavora come scaricatore al mercato della frutta e che ricambia il suo amore. Ma Raul non disdegna i genitali maschili di Marita e non vuole che lei si sottoponga all’operazione. Sul finale Lo Frio è ammazzata di botte da un camionista che le ruba tutti i soldi e Marita, in barba ai divieti del suo Raul, lo abbandona e decide di liberarsi del suo pene ingombrante e fastidioso.

Pellicola variopinta e colorata che alterna delle scene in odore hard che mostrano le evoluzioni amorose della protagonista a degli inserti musicali gustosi e divertenti dove Marita, che soffre di narcolessia, ogni qual volta sviene, sogna di danzare e volteggiare in compagnia dell’amato Raul e di un nutrito gruppo di ballerini.

In Transamerica di Duncan Tucker (2005) Stanley, un transessuale che si fa chiamare Bree (Felicity Huffman) sbarca il lunario occupandosi di telemarketing. Mentre è in febbrile attesa che la psichiatra che l’ha in cura le firmi l’autorizzazione per l’operazione, è informata  che il figlio Toby (Kevin Zegers), un adolescente che non vede da anni e che ha sempre ignorato che lei fosse il padre, è recluso nel carcere minorile di New York. Bree va a New York e celando la propria identità, paga la cauzione restituendo la libertà al ragazzo. Non potendo affidarlo né alla madre (che si è suicidata in garage con i gas di scarico dell’auto), né  al patrigno, che per anni, aveva abusato di lui, Bree decide di fare un salto dai propri genitori che non vedeva da anni, ai quali confida che Toby è suo figlio. Bree non se la sente di rivelare al figlio di essere suo padre ma il ragazzo scopre la verità, la pianta in asso e tira a campare facendo l’attore nei film porno. Bree si sottopone all’intervento e nell’happy end Toby ritorna da lei.

Classico road movie, ironico e divertente, giocato tutto sul contrasto tra Bree, che si muove sulla scena come un’elegante ed impeccabile signora d’alta classe e Toby, adolescente ribelle e trasgressivo, privo d’affetto, che dopo aver subito le violenze del patrigno, ha vissuto prostituendosi e sniffando coca. Il regista compone una commedia garbata che non scivola né nel patetico, né nel bozzettismo e ci mostra Bree dal piglio deciso che, pur non avendo mai fatto da padre al figlio, comprende che deve recuperare il proprio ruolo di genitore affettivo e normativo e, sin dalle prime battute, prova ad imporgli delle regole ed a proporsi come un valido punto di riferimento. I dialoghi non sono irresistibili ma sono conditi, di tanto in tanto da qualche battuta. La migliore è quella che ci regala Sidney, sorella di Bree, che non appena lo rivede dopo anni, trasformata in donna, le dice: “E’ talmente strano. Vedo ancora Stanley in te. E’ come se lo avessi passato in un colino per eliminare la polpa maschile.”

In Gloss – Cambiare si può di Valentina Brandolini (2009) Alex (Lucia Mascino) vuole cambiare sesso e, come la procedura impone, deve sottoporsi a delle sedute con il dottor Montini (Paolo Giovannucci), lo psichiatra che dovrà redigere una relazione per autorizzare o meno l’intervento. Nel corso delle sedute ipnotiche Alex rievoca il passato e con la memoria ritorna alla propria infanzia, età durante la quale amava truccarsi con smalto e rossetto. Con il riaffiorare dei ricordi rievoca alcuni dei momenti salienti della propria vita; un padre alcolizzato, una madre che l’ha abbandonata da piccola e Lola (Rosa Fumetto), un trans che l’aveva accolta, quando era ancora minorenne nel suo negozio di profumi “Perfume” e che, alla morte, le aveva lasciato la profumeria in eredità. Nel corso delle sedute, Alex prenderà consapevolezza del proprio passato e, grazie all’aiuto del dottore, accetterà, la sua parte maschile rimossa. Terminato l’iter terapeutico, Montini autorizzerà l’intervento ed Alex coronerà il suo sogno.

Pellicola onesta, venata dalle migliori intenzioni, che prova a scandagliare il tormentato animo della protagonista e che utilizza l’ipnosi-terapia solo come mero pretesto narrativo per narrare la vicenda della protagonista. La regista, infatti, non scava a fondo nell’inconscio di Alex  e si limita a narrare la solita infanzia tribolata di chi, sentendosi donna, è ingabbiato in un corpo maschile. Nel corso della narrazione compaiono Marco, il fidanzato di Alex e Loren (Gianluca Pezzino), un trans che batteva in passato il marciapiede e che si era fatta operare qualche anno prima. Quando Alex le chiede dell’intervento, Loren, inizialmente, glissa ma poi le parla di una cara amica che si era operata perché desiderava vivere un’esistenza  tranquilla con un marito e dei figli. Incapace di cancellare il proprio passato e di rimuovere la consapevolezza che un tempo era stata un uomo, la donna si era poi suicidata

In Beautiful boxer di Ekachai Uekkrongtham (2010) il piccolo Nong Toom, beffeggiato dai compagni perché giocava con i fiori, si truccava e vuole farsi crescere i capelli come una donna, vive con il padre, la madre ed il fratellino più piccolo in uno sperduto paesino della Thailandia. I genitori sono molto poveri ed allora per rimpolpare le magre finanze familiari, sotto la guida di un paterno maestro di kick-boxing, si allena duramente ed inizia a vincere a mani basse gli incontri, garantendo, in breve tempo, un futuro sereno ai genitori.  Ma la sua femminilità bussa alle porte e, divenuto adolescente (Asanee Suwan), decide di combattere sul ring con tanto di rossetto e nastrini tra i capelli. Divenuto una piccola celebrità ma beffeggiato dal pubblico e dagli avversari che considerano quello sport d’appannaggio esclusivamente maschile, Nong Toom non conoscerà ostacoli e combatterà a Bangkok e poi in Giappone. Messi da parte i soldi per l’intervento, realizzerà finalmente il suo sogno di abitare un corpo femminile.

Nel raccontare la vera storia di Parinya Charoenphol, uno dei più famosi kick-boxer tailandesi, il regista utilizza, in apertura, l’espediente di un giornalista americano che vuole intervistare la protagonista e, grazie a questo artificio narrativo, mediante dei flashback, ripercorriamo la sua storia. “Non voglio fare il monaco, Non sono un ragazzo. Voglio avere mani morbide, unghie curate, lunghi capelli, anche il seno.”  dichiara sin dalle prima battute il piccolo Nong Toom. Al padre che osserva il figlio, preoccupato per i suoi atteggiamenti femminili, la madre, con un pizzico di saggezza, risponderà:“Se questo è il suo destino, non possiamo farci nulla.” Con maestria il regista riesce a dosare le scene dure e cruente dei combattimenti a quelli delicati e poetici che mostrano il protagonista che, di nascosto, si imbelletta con il rossetto o il lucidalabbra, chiuso in un bagno e s’illumina ogni qual volta compra una nuova trousse di trucchi. Sul finale al padre che non vuole firmare il consenso per l’operazione, temendo che il figlio resti menomato, il dottore, replicherà: “Signore il cuore di suo figlio è menomato da troppo tempo ormai. Questa operazione permetterà che il suo corpo e la sua anima coesistano armoniosamente.”

In A soap di Pernille Fischer Christensen (2006) l’aspra e pungente Charlotte (Trine Dyrholm), responsabile di un salone di bellezza, stufa della relazione con Kristian (Frank Thiel) si trasferisce in un piccolo appartamento di periferia. Al piano di sotto vive Veronica (David Dencik), un trans fragile, smarrito ed introverso, appassionato di soap –opere, che vive prostituendosi e che attende con ansia il giorno in cui riceverà l’autorizzazione per sottoporsi all’intervento. Dopo qualche scaramuccia tra i due, Charlotte bussa alla porta di Veronica per lamentarsi del suo cane che, abbaiando, stava dando fastidio, ma trova il suo corpo semi-svenuto sul letto e, chiamata l’ambulanza, le salva la vita. Divenuti amici, trascorrono speso le giornate insieme e quando Kristian, ritornato alla carica, picchia violentemente Charlotte, Veronica interviene coraggiosamente in sua difesa. La loro amicizia è sempre più intima ed affettuosa e quando l’amore sembra trionfare Charlotte ritornerà con i piedi per terra e Veronica fatalmente andrà incontro, all’operazione.

Piccolo capolavoro, suddiviso in cinque capitoli, girato claustrofobicamente tra quattro mura e premiato alla Berlinale come migliore opera prima. In questo dramma sofferto e delicato, la regista danese all’esordio, impagina una vicenda che non scivola nel melenso melodramma, nè nella retorica e mette in scena due creature vivide e pulsanti, alla disperata ricerca della propria identità. Charlotte, una donna che sembra non credere più nell’amore e che, abbandonato Kristian, consuma, con indifferenza, una sessualità sbiadita, inappagante ed incolore con degli uomini che riceve in casa. Fredda, cinica e marmorea, non risparmia le battute taglienti alle persone che la circondano, scavando così, tra se ed il mondo, un solco sempre più profondo e distante. Veronica, un trans che riceve di tanto in tanto, di nascosto del padre, la visita della madre e sembra divorato da un mal di vivere che lo spinge a rinchiudersi in casa ed a drogarsi con delle stupide e romantiche soap televisive. Finiranno entrambi per appoggiarsi all’altro, nella speranza di sopravvivere e di avere la forza per affrontare un domani migliore. La regista filma con poesia ed eleganza i loro incontri più teneri e ravvicinati ed invece di  confezionare un lieto fine spiazza tutti riportando i protagonisti alla dura realtà.

 

 

  1. Transessuali ai margini della vicenda filmica

 

In questo sottogruppo compaiono dei transessuali che, seppur compaiono sulla scena, hanno un ruolo marginale rispetto alla vicenda.  

In Padre e figlio di Pasquale Pozzessere (1994) terminato il servizio di leva, Gabriele (Stefano Dionisi) vive in casa con Corrado (Michele Placido), ex operaio meridionale cassaintegrato dell’Ansaldo, custode notturno nel porto di Genova, cresciuto con il mito della fabbrica, della lotta sindacale, risposatosi, dopo la morte della prima moglie, con Angela, dalla quale ha avuto una bambina. Per tutta la vita Corrado ha lottato duramente senza mai chinare la testa e, per offrire al figlio un futuro lavorativo in fabbrica, non esita ad umiliarsi di fronte al suo ex capo. Spirito ribelle, Gabriele, vive male il clima che si respira in fabbrica e, dopo aver litigato con il responsabile del reparto, è licenziato in tronco. La sua storia con Chiara (Claudia Gerini) vacilla e lui inizia a frequentare sempre più assiduamente Valeria (Giusy Consoli) un transessuale che lavora in una sala giochi. Dopo aver commesso un paio di furti, finisce in prigione. Valeria parte e Gabriele, incapace di dare una direzione alla propria vita, sbollisce rabbia e delusione, sfrecciando con la moto, senza meta, per la città. I  rapporti in casa diventano più tesi; Gabriele vuole cambiare aria ma non ha soldi e decide di rubare i risparmi del padre. Corrado lo scopre; i due litigano, si prendono a botte e poi si guardano smarriti, con lo sguardo perso nel vuoto.

Piccolo capolavoro, passato purtroppo sotto silenzio, che ruota intorno all’insoddisfazione del giovane protagonista, incapace di trovare un proprio posto nel mondo, in perenne rotta di collisione con il padre, con Chiara e con il resto del mondo. La sua love story con Valeria, resta sullo sfondo, non sembra essere una scelta trasgressiva ma il frutto di un “cupio dissolvi” che lo spinge a rubare, a finire in prigione ed a distruggere, pezzo dopo pezzo, i cardini di una vita normale.

In Tutto torna di  Enrico Pitzianti (2008) il ventenne Massimo (Antonio Careddu), scrittore in erba, si trasferisce dal suo paese del nord della Sardegna a Marina, nel quartiere multietnico di Cagliari, ospite dello zio Giuseppe (Piero Marcialis), un uomo senza scrupoli che gestisce un rinomato locale al centro della città, frequentato da politici e notabili del luogo,. In quel palazzo abita una mendicante, invisa agli altri abitanti dello stabile che cercano, con ogni mezzo, di allontanarla, preoccupati che la sua presenza deprezzi l’immobile. Massimo s’appassiona alla storia di quella povera vecchia e grazie all’aiuto di Lorena (Yonaiki Broch) inizia a documentarsi sulla vita di quella sventurata ed a intervistare le persone che la conoscevano. Massimo ne trarrà una storia che gli verrà rubata da un noto scrittore che lo pubblicherà con il proprio nome. Deluso e frustrato, ritornerà a casa.

Film modesto visivamente che non rapisce lo spettatore, dotato però di un’autentica genuinità. Massimo finirà, inevitabilmente, per innamorarsi di Lorena ma quando scopre che è un trans cubano scapperà via, ferito e disgustato, ma, sul finale recupererà il rapporto d’amicizia con lei.

Iron Ladies di Yongyooth Hongkonthun (2001) è«continua Chaicharn Nimpulsawasditratto dalla vera storia di una bizzarra squadra di pallavolo tailandese, composta da omosessuali dichiarati e narra le travolgenti vicende sportive che la portarono a vincere il campionato nazionale nel 1996. L’idea è originale ma è irritante la modalità con la quale sono descritti i componenti della squadra che, invece di essere coinvolti dall’agone agonistico durante gli incontri sono preoccupati se il loro trucco è perfetto, se i loro capelli sono in disordine, se si rovinano lo smalto delle unghie. Pia (Kokkorn Beniathikoon) è la trans della squadra e, per dare un tocco di romanticismo alla vicenda, si strugge d’amore per un ragazzo che l’ha abbandonata per una ragazza.

 

 

  1. Le “drag queen”

 

In alcune divertenti ed esilaranti pellicole irrompono le “drag queen”, con i loro vestiti sgargianti, eccentrici ed attillati, le loro irresistibili, vaporose e coloratissime parrucche, i loro scambi verbali eccedenti e sopra le righe, conditi da evidenti doppi sensi. Dotati di un ritmo irresistibile, queste pellicole traggono ulteriore slancio e forza propulsiva  da una vivace e trascinante colonna sonora che fa da cornice all’intera vicenda.

Priscilla, la regina del deserto di Stephan Elliott (1994) narra di Ralph (in arte Bernadette) (Terence Stamp), transessuale di mezz’età, di Mitzi (Guy Pearce), in arte Tick, e di Felicia (Hugo Weaving), in arte Adam, due simpatiche “drag queen”, che attraversano l’Australia a bordo di un camper color rosa, battezzato per l’occasione “Priscilla le regina del deserto”, diretto ad Alice Spring, una località dove Marion, l’ex moglie di Tick ha organizzato per loro una tournèe. Bloccate nel bel mezzo del deserto, a causa di un guasto al camper, sono costrette a trascorrere qualche giorno in una località sperduta. Dopo aver trascorso una notte, festeggiando con gli aborigeni del luogo, incontrano Bob (Bill Hunter), un affettuoso meccanico che allestisce per loro uno spettacolo in un piccolo locale. Ma gli intolleranti ed omofobi minatori del luogo, non gradiscono la loro presenza e, dopo averle sbeffeggiate e derise, provano a linciarle. Bob ripara il mezzo e si aggrega a loro. Giunti ad Alice Spring, Bernadette e Felicia scoprono che Tick ha un figlio di otto anni, di nome Benjamin che lo accoglie affettuosamente e non vede l’ora di vederlo esibire sul palco. Lo spettacolo è un trionfo; Tick resterà al fianco di moglie e figlio e Bernadette e Bob, innamorati, andranno via insieme.

Pellicola sfacciata, dissacratoria, ironica e divertente che ha fatto scuola per l’umorismo che sprigiona e per la travolgente colonna sonora con brani degli anni Settanta. Elliott spezza la narrazione con dei flashback che ripropongono l’infanzia delle protagoniste e mostra Adam, molestato da piccolo dallo zio e Bernadette che, nel corso della narrazione, a chi le chiede il perché della sua scelta, sornionamente, risponde: “Non ho avuto possibilità di scelta.”

In A Wong Foo, grazie di tutto, Julie Newmar  di Beeban Kidron (1995) la bianca Vida Boheme (Patrick Swayze) e la nera Noxeema Jackson (Wesley Snipes) elette “Drag queen dell’anno” sono scelte per partecipare ad Hollywood al concorso “Drag queen d’America”. Abbandonata l’idea di volare, decidono di partire da New York per la California in una cadillac insieme a Chi Chi Rodriguez (John Leguizamo), un omosessuale ispanico, tutto pepe e mossettine. Lungo il viaggio l’auto ha un guasto e loro sono costrette a fermarsi a Snydersville, un piccolo paesino del Nebraska. Dopo aver superato le iniziali diffidenze degli abitanti, subìto i soliti sbeffeggiamenti di alcuni bulletti del luogo, grazie alla loro vitalità, porteranno una ventata di freschezza e di allegria in quel piccolo e sonnolente centro e diventeranno, in un lampo, le beniamine degli abitanti. Riparata l’auto, dopo aver ballato con loro nella festa annuale delle fragole, partiranno felici e contente, per Hollywood dove Chi Chi vincerà il primo premio.

Melenso road-movie che sembra fare il verso al più noto Priscilla la regina del deserto che narra le variopinte gesta delle eccentriche protagoniste. La trama è abbastanza scontata ed i dialoghi conditi da espressioni colorite e ad effetto tra le quali merita una citazione la definizione di “drag queen” che Noxeema regala alla vaporosa Chi Chi Rodriguez: “Quando un uomo etero si veste da donna per spassarsela sessualmente quello è un travestito. Quando un uomo è una donna intrappolata nel corpo di un uomo e si fa un’operazioncina, quello è un transessuale. Quando un gay, invece, è fornito di fin troppo senso dello stile per un solo sesso, quello è una drag queen e quando un ragazzetto ispanico si veste da donna è semplicemente un ragazzetto vestito da donna.”

In Flawless – Senza difetti (1999) Rusty (Philip Seymour Hoffman), eccentrico transessuale che si esibisce come “drag queen” in un locale notturno di New York ed ha un solo sogno nel cassetto; mettere da parte i soldi per farsi operare e diventare donna. Nello stesso palazzo vive Walt Koontz (Robert De Niro), ex poliziotto in pensione, severo e fedele alle regole militari che, dopo essere stato colto da un ictus, per riprendere più speditamente a parlare, pur detestandolo, si rivolge a Rusty per prendere delle lezioni di canto. Walt, è il classico conservatore maschilista e reazionario che odia i gay e travestiti e ben presto inizia a beccarsi con Rusty. I due, ben presto diventano amici e quando un gangster fa irruzione nell’appartamenti di Rusty per riprendersi una somma di denaro che appartiene ad un boss della zona,  Walt interviene in difesa dell’amico, uccide l’aggressore ma è ferito. Per pagargli l’intervento e la degenza in ospedale, Rusty dice addio ai soldi per l’intervento.

Commedia senza pretese che rispetto alle pellicole nelel quali compaiono generalmente le “drag queen” sceglie in passo diverso e contrappone Rutsy come il classico trans dal cuore d’oro che alterna pianti, risolini e scatti isterici all’insopportabile, respingente ed odioso Walt.

Un discorso a parte merita Kinky Boots di Julian Jarrold (2005). Dopo la morte del padre, Charlie Price (Joel Edgerton) eredita il calzaturificio di famiglia, sull’orlo del fallimento, specializzato nella produzione di eleganti, classiche ed indistruttibili scarpe inglesi per uomo. Il mercato è però saturo, Charlie è costretto a licenziare quindici operai ed intravede lo spettro del fallimento fino al giorno in cui incontra Lola  (Chiwetel Ejiofor), una drag queen che ama disegnare calzature femminili che lo convince a produrre una linea di eccentrici stivali per trans che riescano a sopportare il peso di un uomo. Dopo mille intoppi e traversie, grazie anche all’aiuto della tenera Lauren (Sarah- Jane Potts) Charles e Lola riusciranno a presentare alla Fiera della calzatura di Milano i loro singolari prodotti.

Favoletta senza grosse pretese, spruzzata da buoni sentimenti, ispirata ad una storia vera, che si sviluppa a partire da un’idea originale e che esplode nel prevedibile ma pirotecnico finale. “Non state producendo calzature, non state producendo stivali. State producendo ottanta centimetri di irresistibile, magnifico sesso” tuona Charlie per stimolare gli operai a confezionare degli stivaloni rossi e leopardati con tacchi da brivido. Tra le maestranze spicca Don (Nick Frost), un omone omofiobo che non sopportando la presenza in fabbrica di Lola, lo deride e lo sbeffeggia e Mike che, candidamente le chiede: “Se non vuoi andare a letto con gli uomini, perché ti vesti da donna?” Con un ineffabile sorrisino stampato sulle labbra, Lola gli risponderà: “Senti Mike se chiedi ad una donna che cosa le piace di più di un uomo: comprensione, tenerezza, sensibilità, tradizionali virtù femminili. Magari segretamente le donne desiderano un uomo che sia essenzialmente una donna.” A differenza delle altre pellicole sulle drag queen il regista limita al massimo le esibizioni canore di Lola a cui regala una sfavillante performance nel corso della sfilata a Milano al fianco di un corteo di ballerine che le fanno da contorno.

 

 

Conclusioni

 

Nel passare in rassegna alcune tra le pellicole più significative sul tema emerge come la figura del transessuale sullo schermo insista su alcune stereotipate rappresentazioni. Al fianco del trans libero e senza padroni che batte i marciapiedi per raggranellare i soldi e sottoporsi all’operazione, si sovrappone quella della donna di gran classe, che veste in maniera eccentrica, indossa delle sfavillanti acconciature e sforna caustiche e corrosive battute al vetriolo che lasciano stecchiti quei maschietti che, in nome di inveterati pregiudizi e preconcetti, provano a deriderla o a sbeffeggiarla. Pur non risparmiando loro gridolini e crisi isteriche, generalmente i trans  sullo schermo sono descritti come delle persone generose, tenere, altruiste e dal cuore d’oro (Belle al bar, Fawless…). Se le circostanze lo impongono, inoltre, non disdegnano di azionare i bicipiti e di vestire i panni della paladina che difende donne vittime di uomini violenti e maneschi (A wong foo.. A soap…). In alcune pellicole i trans sono sposati (Un anno con tredici lune, The Badge – Inchiesta scandalo, Libera, Tutto su mia madre, ), in altre hanno messo al mondo dei figli (Un anno con tredici lune, Kitchen, Nessuno è perfetto, Priscilla la regina del deserto, Transamerica, Tutto su mia madre…) e per lo più sono descritti come dei genitori affettuosi che, a loro modo, cercano di prendersi cura di chi hanno messo al mondo. Vittime di un’infanzia tribolata alle spalle sono stati allevati da genitori anaffettivi e da madri gelide ed anaffettive che li hanno abbandonati da piccoli (Un anno con le tredici lune, Gloss Cambiare si può).

Nel complesso registi e sceneggiatori non giudicano la loro scelta di sottoporsi all’intervento così drammaticamente irreversibile e sembrano rispettare chi, coraggiosamente ha deciso di liberare il proprio corpo, dalla schiavitù di una virilità vissuta come estranea ed ingombrante. Fatta eccezione per alcuni film dal taglio troppo crudo e realistico (20 centimetri, Princesa, Wild side…), la narrazione è depurata di solito da scene erotiche e, banditi sguardi proibiti, pruriginosi e fantasie voyeuristiche, il trans non è (quasi) mai esibito come un vero e proprio oggetto di desiderio.

In alcuni film (Belle al bar, La moglie del soldato) i registi mostrano i loro genitali maschili e questa scelta prelude, generalmente, come sviluppo della trama, ad una passionale storia d’amore che finirà, inevitabilmente, per travolgere i due amanti. E proprio a partire da quest’ultima “marginale” considerazione, che proverò a svelare il titolo dell’articolo, analizzando dei passaggi tratti da alcuni film precedentemente citati. Ne La moglie del soldato Fergus e Dil sono insieme nella stanza da letto di lei. Il clima diventa sempre più caldo ed intimo e Dil inizia a spogliarsi. Non appena Fergus scopre che lei ha i genitali maschili, Fergus si ritrarrà di scatto, spaventato e disgustato. Dopo aver “sgranato” gli occhi ed essere rimasto per qualche istante sconcertato e senza parola, fuggirà via, al pari di Massimo, il giovane protagonista di Tutto torna che, in una circostanza simile, s’imbatterà nei genitali maschili della dolce Lorena.

A questi due amanti delusi non resta che depurare il proprio sguardo, provare a cancellare quanto di “proibito” hanno visto, nella speranza di non incorrere in una sorta di atavica punizione che potrebbe abbattersi su chi si è reso colpevole di aver sfidato una legge non scritta che vieta di “vedere” ciò che non doveva e non può essere visto.

Mi riferisco in qualche modo a quella proibizione interna che evoca fantasmi di castrazione e di “accecamento” che evocano la punizione subita dalla tragica figura di Edipo

Seguendo queste fascinazioni il cinema suggerisce però vie di fughe più soffici e meno violenta dell’accecamento per coloro s’imbattono nei genitali maschili dei trans.

In Belle al bar, per tutta la durata del film, Benvenuti lascia che tra Giulia ad Alessandro ci sia sempre una certa distanza di sicurezza che non permetta loro di avvicinarsi e di scambiare anche la più innocente effusione. In due scene Giulia bacia candidamente il cugino, ripetendo lo stesso giocoso e divertente rituale; gli toglie occhiali dal viso, appanna le lenti, soffiandoci sopra con il proprio respiro, e dopo avergli rimesso gli occhiali, lo bacia. In entrambe le occasioni Alessandro, con la vista “appannata” rimane lì immobile, impietrito, senza battere ciglio e senza commentare l’accaduto.

Nell’ultima scena, dopo aver abbandonato la moglie, Alessandro si toglierà da solo gli occhiali, li appannerà con il proprio fiato e, dopo averli inforcati, troverà, il coraggio di baciare Giulia. Ed in questo semplice gesto che, a mio avviso, si racchiude il senso di tutto il film.

Solo “appannando” il proprio sguardo Alessandro potrà far finta di “non vedere” che l’oggetto d’amore sia un trans ed allucinarlo, a proprio piacimento, secondo i propri desideri.

Io vidi, e la follia s’impossessò di me” affermava Teocrito. “Al primo sguardo perii: così un malvagio inganno rapì il mio cuore”  gli faceva eco Virgilio.

E se la passione amorosa prima ancora di essere una schermaglia di corpi sembra essere soprattutto una schermaglia di sguardi, il cinema sembra ricordarci che quando compare un trans sulla scena, il darsi con gli occhi. non è più necessario.

E’ forse preferibile, in questi casi “offuscare”, “velare”, “appannare” ancor più il proprio sguardo e lasciarsi guidare da quel groviglio di proiezioni che, partendo dalla mente dell’innamorato, tende a travolgere ed inglobare l’oggetto d’amore ed a impigliarlo in una fitta ed intricata rete di fantasie inconsce oscure ed imperscrutabili.

 

 

Filmografia consigliata 

 

20 centimetri di Ramon Salazar – Spagna – 2005

Agnes and his brothers di Oskar Roehler – Germania – 2004

Alza la testa di Alessandro Angelini – Itala – 2009

Amici complici amanti di Paul Bogart – USA – 1988

Anime veloci di Pasquale Marrazzo – Italia – 2006

Un anno con 13 lune dì Rainer Werner Fassbinder – Germania – 1978

Assassini dei giorni di festa di Damiano Damiani – 2002

The Badge – Inchiesta scandalo di Robby Henson – USA – 2002

Beautiful boxer di Ekachai Uekrongtham.- Thailandia -2010

Belle al bar di Alessandro Benvenuti – Italia – 1994

Bob’ new suit di Alan R- Howard – USA – 2011

La bocca del lupo di Pietro Marcello – Italia – 2009

Connie e Carla di Michael Lembeck – USA – 2004

Diventeranno famosi di Todd Graff – USA – 2003

Le donne non sono tutte uguali di Richard Spence – G.B – 1996

Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek – Italia – 2001

Flawless – Senza difetti (Flawless) di Joel Schumacher  Hoffman – USA – 1999

Frankie & Ben – Una coppia a sorpresa di Susan Seidelman – USA- 2001

Gocce d’acqua su pietre roventi di Francois Ozon – Francia – 1999

Gloss Cambiare si può di Valentina Brandolini – 2009

Gun hill road di Rashaad Ernesto Green – USA – 2011

Iron Ladies diYongyooyh Thongkonthun – Thailandia – 2001

Jimmy Dean, Jimmy Dean di Robert Altman – USA – 1982

Kinky Boots – Decisamente diversi di Julian Jarrold – GB- 2005

Kitchen – Cucina di Yoshimitsu Morita  – Giappone. 1994

La legge del desiderio di Pedro Almodovar – Spagna – 1987

Libera di Pappi Corsicato – Italia – 1993

Like a virgin di Hae Jun Lee – Corea del Sud – 2006

La mala educacìon di Pedro Almodovar – Spagna – 2004

Mater natura di Massimo Andrei – Italia – 2005

Mery per sempre di Marco Risi – Italia – 1989

La moglie del soldato di Neil Jordan – G.B – 1992

Normal di Jane Anderson – USA – 2003

Padre e figlio di Pasquale Pozzessere – Italia – 1994

Party Monster di Fenton Bailey, Randy Barbato – USA- 2003

Princesa di Enrique Goldman – Italia – 2001

Priscilla la regina del deserto di Stephan Elliott – Australia – 1994

Ruby Blue di Jan Dunn – GB- 2008

Saved by the bells di Ziad Touma – Canada – 2003

Il segreto dell’uomo sbagliato di John Dexter – USA 1972

A soap di Pernille Fischer Christensen– Danimarca – 2006

Stonewall di Nigel Finch – GB – 1995

Strella di Koutras H. Panos – Grecia – 2009

Tacchi a spillo di Pedro Almodovar – Spagna – 1992

Ticked- Off  trannies with knives di Israel Luna – USA – 2010

To die like a man di Joao Pedro Rodriguez – Francia -2009

Transamerica di Duncan Tucker – USA – 2005

Tutto su mia madre di Pedro Almodovar – Spagna – 1999

Tutto torna di  Enrico Pitzianti – Italia – 2007

Vite di ballatoio di Daniele Segre – Italia – 1984

Wild side di Sebastien Lifshitz – Francia -2004

A Wong Foo. Grazie di tutto Julie Newmar di Beeban Kidron – USA – 1995

 

Bibliografia

 

  1. Senatore: “L’analista in celluloide” – Franco Angeli Editore- 1994
  2. Senatore: “Curare con il cinema” Centro Scientifico Editore – 2002
  3. Senatore: “Il cineforum del dottor Freud” Centro Scientifico Editore – 2004
  4. Senatore: “Psycho cult” Centro Scientifico Editore – 2006
  5. Senatore: “Cinema, Mente e Corpo” – Zephyro Editore – 2010
  6. De Bernart, I. Senatore: “Cinema e terapia familiare” – Franco Angeli – 2011
  7. Senatore: “Roberto Faenza, uno scomodo regista” – Falsopiano – 2011

www.cinemaepsicoanalisi.com

 

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