Prefazione di Ignazio Senatore al volume “Miracolata” di Loredana Brigandi

1 Dicembre 2021 | Di Ignazio Senatore
Prefazione di Ignazio Senatore al volume “Miracolata” di Loredana Brigandi
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Il termine miracolo deriva dal latino “miraculum”, “cosa meravigliosa” e dal verbo “mirare”, meravigliarsi. Generalmente rimanda a qualcosa di sovrannaturale e, secondo una concezione cattolica, è di appannaggio solo della santissima Trinità, della Madonna o dei santi.

In un’accezione più laica, invece, suggerisce uno scampato pericolo o una disgrazia evitata per un pelo. E sposando proprio quest’ultima lettura che va letto l’appassionato titolo che l’autrice ha scelto di dare al suo volume.  Un testo coraggioso nel quale Loredana Brigandi narra la sua dolorosa esperienza di vita, segnata dal disturbo bipolare di cui era affetta e che l’ha  costretta a diversi ricoveri in un reparto di psichiatria, ad assumere dei farmaci e, soprattutto, a vivere lontano dal figlioletto Benjamin e dagli altri suoi cari.

In queste pagine, che sembrano scritte da uno specialista e che potrebbero essere ospitate in qualsiasi trattato di psichiatria, l’Autrice, con una precisione quasi chirurgica, descrive alla perfezione lo stato d’animo d’eccitazione e poi di depressione che l’ha colta negli anni passati.

Con un linguaggio semplice ed efficace, le sue parole arrivano dritto al cuore del lettore perché, sin dalle prime righe, s’intuisce che Loredana Brigandi non bara, non si nasconde, ma mettendo a nudo cuore ed anima, vuole raccontarsi senza tagli, né censura. Ne emerge il ritratto di una donna forte, nonostante le proprie debolezze, di una guerriera, una lottatrice che, seppure attraversata da potenti pensieri autolesionistici, é riuscita a scacciare i demoni dalla propria mente e a trovare serenità ed equilibrio.

In tutto il suo libro – confessione, l’Autrice, non accenna minimamente al suo prestigioso curriculum professionale che l’ha collocata tra le più grandi pianiste italiane e, invece, spogliandosi del prestigio che ammanta il suo nome e dei premi e dei successi che hanno costellato la sua luminosa carriera. si mostra al lettore, volutamente, come una paziente anonima e ordinaria.

Alcuni passaggi sono dolorosi, altri ispirano tenerezza e commozione. Non mancano, come giusto che sia, dei velati attacchi a una giovane psichiatra che, pur lavorando nel reparto dove lei è stata presa in cura, non ha saputo cogliere la sua sofferenza, banalizzandola, e mostrandosi incapace di sostenerla ed entrare in empatia con lei. Gli strali non sono frutto però di una sterile polemica, bensì sono evocati per suggerire a chi si occupa del disagio mentale di essere meno superficiale e di comprendere più a fondo la sofferenza di chi, con il buio nella mente, si sente completamente spenta e sente pesare dentro di sé, come un macigno, la fatica del vivere.

C’è da chiedersi cosa abbia spinto l’Autrice a mettere a nudo la propria anima e a rendere pubblica la propria sofferenza. Spesso, affidare alla carta le riflessioni legate ai momenti più dolorosi della propria esperienza, ha un sapore catartico e, in qualche modo terapeutico.

Il fatto stesso di evocare una malattia è un modo di distanziarla e di tenerla fuori da sé, ma credo che l’Autrice, come del resto tante altre persone cadute nel baratro della follia, nel rendere pubblica la sua storia, ha sentito il bisogno altruistico di sostenere chi è rimasto impigliato nella stessa rete e ha il timore di non poterne più uscirne. Leggere una testimonianza commovente come quella di Loredana Brigandi potrebbe fungere, infatti, d’aiuto e di sostegno a quei pazienti intrappolati in una malattia subdola, insidiosa, come quella del disturbo bipolare, che tende spesso a cronicizzarsi.

L’Autrice, saggiamente, non si lancia in interpretazioni di stampo psicoanalitico sull’origine del proprio male, né suggerisce di affidarsi a rimedi estemporanei, fantasiosi o falsamente miracolosi. La sua analisi rigorosa lascia intendere che, farmaci e psicoterapia a parte, è lo stesso paziente, se ne ha la forza, e non la volontà, che, per uscire dal baratro della follia, deve fare appello a tutte le proprie risorse interiori. Nel suo caso, a trascinarla fuori dall’oscurità è stato soprattutto l’affetto che la lega all’amatissimo figlio Benjamin. Ci si potrebbe chiedere come mai la musica non sia riuscita a fungere da medicamento per un’artista conosciuta in tutto il mondo. Parimenti c’è da immaginare quale possa essere stata la sofferenza di una pianista che, durante i suoi concerti, abituata a regalare a chi è in sala il fascino irresistibile dell’armonia dei suoni è stata costretta, invece, a sentire e percepire il rumore, il caos e il frastuono dei proprio pensieri malati.

Film come Shine di Scott Hicks (1996), interpretato da un monumentale Geoffrey Rush e Quattro minuti di Cris Kraus (2007), con la giovanissima Hannah Herzsprung nei panni della ribelle Jenny von Loeben, due film famosi, che hanno collezionato tantissimi premi, la cui trama ruota intorno a due pianisti dotati di un innegabile talento, ci ricordano che non basta essere devoti alla musa Euterpe per essere al riparo dagli urti della vita.

Dalla lettura del testo emerge la figura di una donna che, invece, di attendere passivamente il “miracolo”, come indica (impropriamente?) il titolo, é stata lei stessa artefice della propria guarigione, anche grazie all’aiuto di chi l’ha sostenuta. Un volume che si legge d’un fiato e che, grazie a una scrittura piana e semplice, si apprezza sin dalle prime battute, da consigliare non solo a chi è affetto dallo stesso disturbo che ha funestato un periodo della vita dell’Autrice, ma che vuole essere anche una guida per chi, come lei, si è trovata a lottare, con le unghie e con i denti, per non perdere contatto con la realtà e non si sia lasciata trascinare negli inferi della follia.

Napoli 2021

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