The dreamers – I sognatori di Bernardo Bertolucci – Italia – 2003 – Durata 115’

15 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore

Cinema ovvio e delle storie narrate: Thèo ed Isabelle (due gemelli) conoscono un giovane coetaneo americano (Matthew) con il quale condividono la passione cinefilica ed, in assenza dei genitori (in vacanza a Trouville) lo invitano a trasferirsi a casa loro. E mentre si assiste alla relazione morbosa tra i due gemelli, Matthew s’innamora, ricambiato della ragazza… Sesso, cinefilia e torbide passioni, film scandalo sulla sessualità come fuga dalla realtà, sugli intrecci incestuosi tra Thèo ed Isabelle, sulle rivolte studentesche del 68 francese…
Cinema dell’altrove e dei percorsi immaginari della mente: metacinema e/o cinema sul cinema e nel cinema:

“La prima volta che ho visto un film alla Cinematheque Francaise …Il film era “Il corridoio della paura” di Sam Fuller. Avevo vent’anni. Ero venuto a Parigi per studiare francese….La massoneria dei cinefili, quelli che chiamano “malati di cinema”…Io ero uno degli insaziabili, uno di quelli che si siedono, in prima fila, vicinissimi allo schermo. Perché ci mettevamo così vicini? Forse perché volevamo ricevere le immagini per prima quando erano nuove, ancora fresche, prima che svolgessero verso il fondo, scavalcando fila dopo fila, spettatore dopo spettatore, finché sfinite, ormai usate, grandi come un francobollo, non fossero ritornate nella cabina di proiezione. Forse, lo schermo era veramente uno schermo; schermava noi.”

“The dreamers” (primo film dal titolo in inglese del regista parmense) è tutto condensato in questo incipit. Film sui desideri insaziabili degli spettatori cinematografici, sul bisogno di divorare e di nutrirsi d’immagini. Bertolucci, giunto alla sua sedicesima pellicola proclama la propria poetica cinematografica (come “8 e mezzo” lo fu per Fellini, “Stardust memories” per Allen) e non può che farlo alla sua maniera (romantica, dissacrante, scandalosa).
Film sull’educazione alla visione di un film dello spettatore cinematografico (non a caso, la prima penitenza che Isabelle fa compiere a Thèo è quella di masturbarsi da solo di fronte ad un’immagine filmica (la foto di Marlene Dietrich) e che la successiva (imposta da Thèo a Matthew ed Isabelle) sia quella di condividere l’esperienza amorosa (filmica) con un altro). Film sulla verginità di uno sguardo che, inevitabilmente, verrà perso (la verginità d’Isabelle non è certo quella sessuale ma quella di spettatrice) e sull’immancabile voyeurismo cinematografico:

“Ho letto sui “Cahiers” che un regista è come un guardone, un voyeur. E’ come se la macchina da presa fosse il buco della serratura della porta dei suoi genitori e tu li spii e sei disgustato e ti senti in colpa e non puoi fare a meno di guardare. Forse il film è un reato, un regista è come un criminale. Dovrebbe essere illegale.”

Film arcaico, primitivo e delle origini (non a caso le citazioni cinematografiche rimandano al cinema muto ed in bianco e nero di Chaplin, di Keaton ed al Bunuel de “L’age d’or” (Matthew succhia l’alluce ad Isabelle come Lya Lys a quello della statua).
Cinema-memoria, fetale, placentare (i tre giovani protagonisti sono ritratti nella vasca-utero) afasico, non ancora dotato della parola e del colore.

Bertolucci, con astuzia e sagacia, dissemina (sottotraccia) questi indizi lungo il percorso filmico ma gioca contemporaneamente a negarli e a disconfermarli, offrendo allo spettatore la facile via di fuga della storia narrata. Film sotterraneo e non di superficie, film sulle ridondanze ininterrotte: Bertolucci ritorna a Parigi (dopo “Il conformista” e “L’ultimo tango”), gira un altro film in un appartamento (dopo “L’ultimo tango” e “L’assedio”), ripropone il tema dell’incesto (“La luna”) del doppio e sugli specchi (ne “La strategia del ragno”, “Partner”, “Ultimo tango a Parigi”, “Novecento”…) e rinnova le sue stesse citazioni cinematografiche (“Non esiste l’amore, esistono solo prove d‘amore” già citata in “Io ballo da sola”). Ma “The dreamers” ripropone ancora altre poetiche care al regista: film sul padre (“La strategia del ragno”, “Il conformista”. “Ultimo tango a Parigi”, “Io ballo da sola”…) sulla poesia (il padre di Thèo ed Isabelle è un poeta come era lo stesso regista, vincitore a vent’anni di un Premio Viareggio, figlio di Attilio) e che trae ancora ispirazione da un romanzo (“La comare secca” da Pasolini; “Partner” da “Il sosia” di Dostoevskij; “Strategia del ragno” da “Tema del traditore e dell’eroe “ di Borges; “Il conformista” da Moravia; “Il tè nel deserto” da Bowles; “L’assedio” da Lasdun).
“Che film è?”, il refrain del gioco che i tre protagonisti ripetono in continuazione nel film, sembra essere provocatoriamente la sfida che Bertolucci lancia allo spettatore.
Cinema come delizia e nutrimento degli occhi, lontano dai ripiegamenti nostalgici e melanconici di un certo cinema retrò.
Film-gioco (quale spettatore non ha provato ad indovinare da quale film era tratta la citazione e non ha pensato a Vincente Gallo che in “Arizona Dream” di Kustirica riproponeva le scene di Intrigo internazionale di Hitchcock?).
Film bugiardo e spiazzante (le clip citate de “Il corridoio della paura”, “Freaks”, La regina Cristina”, “Cappello a cilindro”, “Venere bionda”, “Mouchette”, “Il cameramen”, “Scarface”) non rimandano ai registi-cult di Bertolucci.
Film sulle dicotomie obbligate (Chaplin/Keaton…) e sugli immancabili tradimenti del testo (pur attingendo fedelmente al romanzo “The holy innocence” di Gilbert Adair, co-sceneggiatore del film, Bertolucci tace sull’omosessualità di Matthew e sulla sua successiva morte…). Film sulle declinazioni impossibili tra il cinema europeo (quello di Thèo ed Isabelle che dirigono i giochi e che dettano i tempi del film) e quello americano (Matthew). Cinema che diverge, inevitabilmente, sul finale del film (quello europeo più attento alle tematiche sociali e alla “lotta di classe”, che “scende in piazza”) quello americano pragmatico, razionale e concreto.
Film assolutamente immerso nel presente ma che rimanda, inevitabilmente, a quell’ambizione eroica ed adolescenziale di un tempo remoto quando si pensava che il cinema potesse (come il 68) trasformare e contagiare il mondo e compiere una radicale trasformazione dell’animo umano.
I tre giovani protagonisti Matthew ( Michael Pitt, musicista e cantante, già visto in Bully di Larry Clark e divo della serie tv Dawson’s Creek) Thèo (Louis Garrel, figlio del noto regista francese Philippe) Isabelle (l’esordiente Eva Green, figlia dell’attrice Marlene Jobert) sono disarmanti nella loro bravura.
Cinema, musica per gli occhi, con alcune scene da cineteca (Isabelle che appare come la Venere di Milo è indimenticabile). Bertolucci non vira in rosso (passione, sangue, comunismo) la pellicola ma la immerge in colori luminosi caldi ed avvolgenti, nutrendola di una colonna sonora contaminata nei generi e commista (Janis Joplin, Trenet, Piaf…).
Intenso, struggente, coinvolgente. Onirico, ipnotico, film sui graduali spostamenti della coscienza. Dedicato a chi sa ancora sognare.

Recensione pubblicata sulla Rivista “Eidos- Cinema, Psiche ed arti visive” Numero 0

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