Rifarsi il proprio volto è (forse) un sogno che cullano in molti; chi non sfumerebbe i propri zigomi, non assottiglierebbe una mandibola troppo sporgente o non rimodellerebbe un naso eccessivamente ingombrante? Il prolifico Kim Ki Duk, nella sua ultima pellicola, si spinge oltre. La giovane e bella See-hee (Sung Hyun-an) angosciata all’idea che il suo amato Ji –Woo (Ha yung- woo) possa lasciarla, decide di rivolgersi ad un chirurgo plastico per rimodellare il proprio volto. Dopo l’intervento estetico, sparisce nel nulla per sei mesi e si ripresenta sotto un’altra identità nell’isola, dove aveva trascorso insieme a lui dei momenti indimenticabili. Ji-Woo, inizialmente, non la riconoscerà ma, ben presto, incollati i pezzi del puzzle, scoprirà l’incredibile verità. Un finale drammatico e ricco di colpi di scena chiuderà la vicenda.
E’ questa in sintesi la trama di “Time”, pellicola struggente e poetica, diretta dal noto regista coreano. Sin dalle prima battute s’intuisce che See-hee non è ossessionata dalle rughe come Madeline Ashton de “La morte ti fa bella” o dall’ingravescente vecchiaia come Ida Lowry di “Brazil”. Più che smussare gli aspetti spigolosi del proprio carattere o imparare a contenere l’accecante gelosia (“Ogni volta che una donna ti guarda, le strapperei gli occhi”) See-hee decide di immolare la propria bellezza sul tavolo operatorio.
Disposta a tutto, pur di ridare linfa ad un rapporto ormai logoro ed asfittico, quando il sornione chirurgo plastico le chiederà perché si affida al bisturi, lei, con voce ferma e decisa, gli risponderà: “Non voglio essere più bella, voglio essere diversa.” Ed è proprio questa suo bisogno di presentarsi a Ji-Woo come un clone di se stessa, come un altro da sé, eguale ma dissimile, l’ossessione entro la quale si agita, senza via di scampo, la folle protagonista. E non sarà un caso che, con la mente in disordine ed in cuore infranto, chiederà al chirurgo di diventare simile ad una donna, il cui viso incollato su un foglio, è composto da ritagli di foto, mescolati alla rinfusa e rubati da una rivista di moda femminile.
Gli snodi narrativi non sono però oleati a perfezione e la ricerca visiva fin troppo estetizzante e di maniera (stancano e risultano prevedibili le continue citazioni a Magritte e gli ossessivi rimandi agli specchi) contribuisce a rendere la pellicola irrimediabilmente imperfetta ed irrisolta. Cifre stilistiche a parte, “Time” affascina e rapisce, non solo per la bizzarria della storia ma sopratutto per alcune invenzioni visive; su tutte la scena di See-hee che, dopo l’intervento chirurgico, si presenta all’appuntamento con Ji-woo con il volto ricoperto da una gigantesca foto che le ritrae come era prima dell’operazione. I dialoghi sono ben curati, gli attori sono calati perfettamente nel ruolo ma a ben vedere, il fascino della pellicola, risiede nella splendida ambientazione che l’avvolge. Kim Ki Duk sceglie di girare quasi tutto il film al chiuso in un anonimo bar o nell’incolore sala operatoria. Ed è proprio questa sua scelta claustrofobica la carta vincente del film.
Fedele all’asserzione che gli spazi fisici non sono altro che la proiezione di quelli mentali, il regista ci mostra un bar deserto, privo di anima e di calore umano ed una sala operatoria asettica ed illuminata solo dalla luce artificiale. E se questa scelta del regista, certamente non casuale, rimandasse ai non-luoghi, teorizzati da Marc Augé? Se riprendiamo, infatti, i tre capisaldi formulati dal famoso antropologo francese i conti tornano. Gli ambienti del film non sono “identitari” (non aiutano a strutturare l’identità dei due amanti) non sono “relazionali” (i due protagonisti non incontrano mai nessuno nel bar e quando questo accade See-hee litiga con due ragazze e Ji-woo finisce per fare a botte con un occasionale avventori) e non sono “storici” (il bar non riluce di un particolare passato, né è connotato con una spiccata caratterizzazione). Sposando questa tesi, Kim Ki Duk sembra ricordarci che il tempo, a cui fa riferimento il titolo del film, scorre via velocemente e può essere solo consumato, in anonimi luoghi di transito, da soggetti senza una chiara identità, incapaci di relazionarsi con l’esterno e privi di storia. Non a caso, in uno dei passaggi chiavi del film, See-hee brucerà le sue foto e cancellerà così, d’un tratto, ogni memoria del proprio passato. Ma Kim Ki Duk è un regista che sa come strizzare il cuore degli spettatori ed ogni qual volta i due amanti si incontrano sull’isola, luogo dell’anima e della memoria, perfino quelle statue fredde ed inerti, disseminate sulla sabbia, sembra riprendano a vivere e contribuiscano, magicamente, a far pulsare a mille il cuore dei protagonisti.
Recensione pubblicata sulla Rivista “Eidos , cinema, psyche ed arti visive” – Numero 7
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