Jack McKee (William Hurt), brillante chirurgo quarantenne, è sposato con Anne (Christine Lahti) ed è padre del piccolo Nick. Antipatico, odioso e saccente, è abituato a fare battutine salaci sui pazienti e a trattarli con distacco e sufficienza.
Una fastidiosa tosse lo costringe a schiarirsi continuamente la gola e, nel corso degli accertamenti, la dottoressa Abbott (Wendy Crewson) gli diagnostica un tumore benigno ad una corda vocale e gli suggerisce di sottoporsi a un intervento di laringectomia parziale.
L’incontro con June Elllis (Elizabeth Perkins) una ragazza affetta da un tumore inoperabile al cervello, lo aiuta a scoprire il vero volto della sofferenza.
Da quel momento in poi il suo rapporto con i pazienti muta di colpo e diventa più umano e comprensivo.
Dramma mieloso che mette al centro della vicenda Jack, un chirurgo dal cuore di ghiaccio che, in apertura del film, si rivolge ai giovani assistenti e, in maniera lapidaria, afferma:
“E’ molto pericoloso provare qualsivoglia sentimento per un paziente E’ pericoloso farsi coinvolgersi troppo. La chirurgia implica un giudizio e per giudicare bisogna essere distaccati. Non c’è niente di naturale nella chirurgia; si tratta di tagliare un corpo umano. Il compito del chirurgo è di tagliare. Niente prove d’appello. Uno entra, aggiusta e se ne va. In sala operatoria non si ha tempo per i sentimenti., Quando si hanno a disposizione solo trenta secondi, prima che uno muoia dissanguato, meglio una mano ferma che un sorriso.”
La malattia gli fa scoprire le lunghe ed estenuanti attese nelle sale d’aspetto degli ospedali, le regole rigide e insensate a cui devono piegarsi i pazienti, i disservizi dell’ospedale, l’indifferenza dei colleghi e degli operatori sanitari e lo mette in contatto con la solidarietà tra ammalati, restituendogli il senso della vita e il rispetto della sofferenza altrui.
All’algida dottoressa Abbott dice:
“Secondo me, le converrebbe cambiare atteggiamento, dottoressa, perché oggi sono malato io. Domani o tra sei mesi o tra venti anni, toccherà a lei. Ogni medico diventa paziente, è una cosa naturale, ed allora, sarà dura, come lo è per me.”
Sul finale del film, farà spogliare i suoi giovani assistenti e dopo aver fatto indossare loro i camici che sono dati in dotazione ai pazienti, dirà loro:
“Avete studiato per lungo tempo a studiare i nomi in latino delle malattie che i vostri pazienti avevano, ora è il momento di imparare qualcosa di più semplice; i pazienti hanno tutti un nome.; Sara, Alan, Jack e si sentono impauriti, imbarazzati e vulnerabili; insomma sono malati. Quello che vogliono è soprattutto guarire ed è per questo che affidano a noi la loro vita. Potrei spiegarvi e dire “fino a perdere la voce”, ma so per esperienza che non lo capireste. Io, di sicuro non lo avevo capito. Ed allora per le prossime settantadue ore, a ciascuno di voi sarà assegnata una particolare malattia. Dormirete nei letti dell’ospedale e mangerete il vitto dell’ospedale e sarete sottoposti agli opportuni esami, esami che vi troverete un giorno a prescrivere. Ora non siete più dottori, siete semplici pazienti. Buona fortuna. Domani vengo a visitarvi.”
Anche se nel film si respira un’atmosfera pesante e mortifera, non mancano i momenti di sottile ironia e all’odioso ed antipatico Jack, prima di operarlo, il dottor Blumfield (Adam Arkin)gli dice: “Ho sempre avuto voglia di tagliarti la gola e ora ho l’occasione di poterlo fare”.
Sullo sfondo la triste vicenda di June che non è stata sottoposta in tempo alla risonanza magnetica perché i medici avevano ritenuto questa indagine troppo costosa per il sistema sanitario americano.
Dal romanzo autobiografico del dott. Ed Rosenbaum A taste of my own medicine.
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