“Vero come la finzione” di Matteo Balestieri, Stefano Caracciolo, Riccardo Dalle Luche, Paolo Iazzetta, Ignazio Senatore – Volume I – II “Traiettorie dello sguardo. Dal buio della sala cinematografica alla stanza della terapia” Capitolo: Cinema e Disturbi post- traumatici Capitolo: Cinema e gioco d’azzardo Capitolo: Cinema e disturbi sessuali e dell’identità di genere – Springer Editore

22 Maggio 2007 | Di Ignazio Senatore
“Vero come la finzione”  di Matteo Balestieri, Stefano Caracciolo, Riccardo Dalle Luche, Paolo Iazzetta, Ignazio Senatore – Volume I – II “Traiettorie dello sguardo. Dal buio della sala cinematografica alla stanza della terapia” Capitolo: Cinema e Disturbi post- traumatici Capitolo: Cinema e gioco d’azzardo Capitolo:  Cinema e disturbi sessuali e dell’identità di genere – Springer Editore
Scritti sul cinema pubblicati su altri volumi
0

“Sono sempre stato affascinato dal problema della cecità. Uno dei miei progetti più cari era quello di fare un film ambientato in una casa di ciechi. Là avrebbero dovuto esserci persone che andavano a sbattere di continuo nei muri tentando di afferrare oggetti che non potevano vedere. Credo che sarebbe stato interessante tentare un confronto con questo genere di problema con un mezzo, il cinema, che per sua natura è il solo che si occupa di ciò che è visibile.” (Douglas Sirk) 

 “C’è questo tizio, in Germania, Fritz qualcosa, non lo so, o forse mi pare Werner, comunque… La sua teoria è che se vuoi verificare qualcosa scientificamente, i pianeti che girano intorno al sole, di cosa sono fatte le macchie solari, perché l’acqua esce dal rubinetto, devi osservare il fenomeno. Ma, il semplice guardare, alcune volte, il guardare cambia il fatto e tu non puoi sapere cosa sia successo nella realtà o che cosa sarebbe successo se tu non avessi ficcato il tuo grosso naso. Perciò non ha senso chiederci cosa è successo. Il semplice guardare cambia il fatto. Si chiama principio   d‘indeterminazione. Sembra un’idea bislacca ma anche Einstein l’ha presa in considerazione. La scienza, la percezione, la realtà, il dubbio, il ragionevole dubbio. Sto dicendo che alcune volte più guardi e meno conosci.” (L’uomo che non c’era)

“Le angolazioni sono i pensieri del regista. L’illuminazione sono la sua filosofia. Dirò di più: il cinema l’ha mostrato molto prima che Wittgenstein e alcuni miei contemporanei imparassero a diffidare del linguaggio come autentico medium e interprete della realtà.  Così ho imparato a fidarmi dei miei occhi più che della vacuità delle parole.” (Douglas Sirk)

 

“Il cinema è una scuola di disattenzione: si guarda senza vedere, si ascolta senza sentire.” (Robert Bresson)

Introduzione

“Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima.”. Fedele a questa affermazione di Ingnar Bergman in questo scritto affronterò i temi complessi legati alla psicoterapia traslando delle affermazioni di registi sullo specifico filmico e lasciandomi cullare dal fascino di alcune pellicole tra le più suggestive prodotte negli ultimi anni.

Dal buio della sala cinematografica alla stanza della terapia

Patrice Leconte con il suo poetico Confidenze troppo intime, narra di Anna, una donna, smarrita e spaesata che decide di rivolgersi ad uno psicoanalista per tentare di rincollare i cocci della propria vita. Anna centra il piano (il sesto) ma sbaglia porta e si trova a raccontare le proprie “confidenze intime” a William Faber, un grigio e solitario fiscalista. L’equivoco è svelato ma i due decidono di proseguire lo stesso il “trattamento”. Il film, raffinato e delicato, narra di passioni (sopite), di sguardi languidi e trattenuti, di gesti silenziosi ed interrotti. Al regista francese non interessa proporre una parodia della psicoanalisi ma raccontare la vicenda di due persone (sole e svuotate) che sono alla disperata ricerca di qualcuno che li ascolti. L’elemento intrigante di tutta la vicenda è la scoperta (precoce) di Anna che Faber  non è un’analista. Ma perchè lei non fugge via? Leconte lo lascia intuire immediatamente; Anna s’affida al fiscalista perchè sente che William (un uomo solo e disperato quanto lei) è in grado di ospitare, in silenzio, le sue riflessioni ed i suoi tormenti ed accoglierla in maniera calda ed accogliente.

Tae –suk è uno strano ragazzo che ama abitare le case vuote degli altri. Sempre in sella ad una moto ed in compagnia di un’inseparabile mazza da golf, si introduce nelle abitazioni temporaneamente lasciate vuote dai proprietari e le vive come fossero sue. Si fa lo shampoo, si cucina da mangiare, ripara bilance ed orologi, innaffia le piante, fa il bucato ed ama immortalarsi con un autoscatto con alle spalle le foto dei proprietari degli appartamenti. Più che un ladro sembra una specie di angelo custode. In una di queste sue peregrinazioni diurne, entra in un appartamento ed incappa in Sun–kwa una donna sposata ed appena pestata a sangue dal marito. Senza battere ciglio, la ragazza lo seguirà nelle sue peregrinazioni, fino al giorno in cui verranno scoperti. Il ragazzo andrà in carcere ma poi ne uscirà e si aggirerà “come un fantasma” nella casa della sua amata Sun-kwa. La vicenda si chiude con una scritta chiarificatrice:”Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia realtà o sogno”. Il film è “Ferro tre. La casa vuota” di Kim Ki Duk che  passerà alla storia del cinema per i dialoghi talmente scarni che i due protagonisti non pronunciano una sillaba per tutta la durata del film. E la bellezza del film è (forse) proprio in questo magnetico silenzio che avvolge i due giovani protagonisti. Non è forse vero che Tae-suk ha imparato a farsi vedere solo da chi lo ama? Abitare uno spazio vuoto e renderlo vivo, renderle caldo, accogliente ed abitabile; non è forse questa uno dei nostri compiti in seduta?  Seppur con delle sostanziali differenze sul piano stilistico i due film citati narrano della capacità d’ascolto e di accoglimento come di due qualità indispensabile per la presa in cura del paziente.

Wim Wenders con delle affermazioni in merito allo spazio (filmico), sembra suggerirci dell’altro: “Esistono film che sono come spazi chiusi: non lasciano il minimo spazio vuoto tra le singole immagini, non permettono di vedere ciò che è rimasto “fuori” dal film, non consentono agli occhi e ai pensieri di muoversi liberamente. In questo genere di choc visivi lo spettatore non può riversarsi nulla di proprio, nessun sentimento, nessuna esperienza. E si esce dal cinema con un senso di delusione. Solo i film che lasciano spazi vuoti tra le immagini raccontano una storia, ne sono convinto, perché una storia si produce anzitutto nella testa dello spettatore o dell’ascoltatore. E gli altri film, quelli a sistema chiuso, fingono solo di raccontare una vicenda. Seguono la ricetta della narrazione ma usando ingredienti senza gusto.”

Il regista tedesco sembra consigliarci che, in terapia non dobbiamo posizionare la nostra mente in direzioni precise ma lasciarla vagabondare senza meta; solo così potremo lasciare degli spazi “aperti” al paziente affinché possa elaborare emotivamente l’esperienza della terapia.

Traiettorie dello sguardo

Per Jean Luc Nancy: “Essere all’ascolto significa essere disposti alla prima scalfittura del senso, ad un intaglio (…) Può essere uno sfregamento, uno stridore di denti prodotto da un movimento della gola, un gorgoglio, uno scricchiolio, una materia mormorante pensante (…) il grido nascente, la nascita del grido, appello o pianto, canto, spiegazzamento di sé fino all’ultimo mormorio. Ed è così che risuona, al di qua di un dire, un “voler dire” al quale non bisogna dare subito il valore di una volontà.” Lo studioso francese sembra ricordarci che in seduta, più che puntare al materiale verbale del paziente, dobbiamo porre grande attenzione a quegli impercettibili ed impalpabili segni che ci porta sottotraccia in seduta e con queste sue affermazioni sembra rimandare a quanto Freud, sollecitava in un suo scritto: “Molto tempo prima ch’io potessi sentir parlare di psicoanalisi venni a sapere che un esperto d’arte russo, Ivan Lermolieff aveva provocato una rivoluzione   nelle gallerie d’Europa rimettendo in discussione l’attribuzione di molti  quadri ai singoli pittori, insegnando a distinguere con sicurezza le imitazioni dagli originali. Egli era giunto a questo risultato prescindendo dall’impressione generale e dai tratti  fondamentali del dipinto sottolineando invece l’importanza caratteristica di dettagli secondari, di particolari insignificanti come la conformazione delle unghie, dei lobi auricolari, dell’aureola e di altri elementi che passano di solito inosservati. Io credo che il suo metodo sia strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica. Anche questa è avvezza a penetrare cose segrete e nascoste  in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti, ai detriti o “rifiuti” della nostra osservazione.”

Walter Murch (montatore di diversi film tra cui Apocalipse Now, La conversazione, American Graffiti) ci suggerisce sul tema altre fascinazioni:“Ho cominciato a osservare la gente, a vedere quando batteva gli occhi, e ho cominciato a scoprire qualcosa di molto diverso da quello che s’impara nelle classi di biologia al liceo, cioè che il batter d’occhi sarebbe semplicemente un mezzo per inumidire la superficie dell’occhio. (…) Quindi mi pare che il ritmo del battere gli occhi sia legato ai nostri stati emotivi e alla natura e frequenza dei nostri pensieri, più che all’ambiente atmosferico in cui ci capita di trovarci. Anche se non c’è un movimento della testa (…) il batter d’occhi aiuta la discriminazione interiore dei pensieri. E non solo la cadenza, ma anche il momento preciso del batter d’occhi è significativo. Cominciamo una conversazione con qualcuno e osserviamo quando questi batte gli occhi. Io credo che scopriremo che l’ascoltatore batterà gli occhi nel momento preciso in cui si sarà “fatto un’idea” di quello che stiamo dicendo, né prima, né dopo.(…) Il batter d’occhi avviene quando l’ascoltatore si rende conto che la nostra “introduzione” è finita e adesso diremo qualcosa di significativo, oppure quando sente che ci stiamo “scaricando” e non diremo più nulla di significativo per il momento. (…) Quando abbiamo un’idea o una sequenza d’idee collegate, battiamo gli occhi per puntualizzare e separare quell’idea dal resto.“

Con queste riflessioni Murch sembra ricordarci che il terapeuta deve affinare le proprie capacità d’osservazione, fino a cogliere, nell’altro, la più piccola sfumatura che occuparsi del battito di ciglia e, naturalmente, questa del paziente in seduta significa aderire ad un certo modello d’incontro orientato più all’osservazione ed all’ascolto che alle prescrizioni ed alla direttività.

Conclusione

Un tempo Jean Luc Godard affermava: “Ci sono due generi di artisti: alcuni camminano per la strada a capo eretto, guardando dritto in avanti. Osservano, progettano ed organizzano: i loro lavori sono interessanti, efficaci, ben svolti e talvolta anche splendidi. Questo è il gruppo dei sempre ammirati. Poi c’è l’altro tipo, quelli che camminano a testa bassa, persi nei propri pensieri e facendo sogni ad occhi aperti. Ogni tanto sono costretti a sollevar lo sguardo, sempre all’improvviso, e di colpo lanciano al mondo rapide occhiate trasversali. Questo è il gruppo che vede veramente: per quanto eccentrico o confuso sia il loro stile, essi vedono con meravigliosa chiarezza”.

Prendendo spunto da questa illuminante riflessione del regista della Nouvelle Vague francese, da anni invito i giovani terapeuti a coltivare la capacità di essere nella stanza ed altrove ed a riscoprire il fascino di guardare al di là del visibile. E se Cèzanne affermava: “Vedi come un bambino appena nato” e suggeriva di vedere il mondo senza il velo “corrotto” dell’interpretazione” ai giovani terapeuti non posso che dedicare l’illuminate consiglio che ne La giusta distanza, l’anziano giornalista regala ad un acerbo collega alle prime armi: “Ascolta, se questo mestiere lo vuoi fare sul serio, una cosa la devi imparare, subito. E’ la  giusta distanza, la misura che devi sempre tenere tra te che scrivi e le persone coinvolte nei fatti. Non troppo lontano, se no non c’è più pathos ma neanche troppo vicino, porca bestia, perché se il giornalista si perde nell’emozione, è  fritto.” 

Bibliografia

Sigmund Freud: Mosè e Michelangelo – Bollati Boringhieri – 1975

Henry Matisse: Scritti e pensieri sull’arte – Einaudi – 1979

Walter Murch: “In un batter d’occhi” – Lindau  – 2000

Jean Luc Nancy: :“All’ascolto” – Cortina – 2002

Ignazio Senatore: L’analista in celluloide – Franco Angeli – 1998

Ignazio Senatore: Curare con il cinema – Centro Scientifico Editore – 2001

Ignazio Senatore: Il cineforum del dottor Freud – Centro Scientifico Editore – 2004

Ignazio Senatore: Psycho cult – Centro Scientifico Editore – 2006

Wim Wenders: L’atto di vedere – Ubulibri – 1992

 

Filmografia

Confidenze troppo intime di Patrice Leconte – Francia – 2004

Ferro tre. La casa vuota di Kim KI Duk – Corea del Sud – 2004

La giusta distanza di Carlo Mazzacurati – Italia – 2007

L’uomo che non c’era di Joel Coen – USA – 2001

Comments are closed.

Questo sito utilizza strumenti di raccolta dei dati, come i Cookie. Questo sito utilizza Cookie tecnici e di terze parti per fornire alcuni servizi. Maggiori Informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi