“Cinema ed etnopsichiatria” – Psychomedia 27-5-2014

19 Dicembre 2014 | Di Ignazio Senatore
“Cinema ed etnopsichiatria” – Psychomedia 27-5-2014
Articoli di Ignazio Senatore sui rapporti tra Cinema e psiche
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Prima pensavo che l’uomo fosse composto di corpo e

di anima, adesso, vecchio, mi sono accorto che c’è il

corpo, l’anima e il passaporto!” (Stefan Zweig)

Joey ha ventitre anni ed è esattamente come noi

volevamo che diventasse. Lei ha imparato quello che noi

le abbiamo insegnato e cioè che era ingiusto che i bianchi

fossero, non si sa per quale ragione, superiori ai negri o

ai gialli e che quelli che la pensano così sono in errore.

Questo le abbiamo detto. Ma quando le abbiamo detto

questo non abbiamo aggiunto: “Però non t’innamorare di

un uomo di colore..” (dal film Indovina chi viene a cena?)

1. Cenni sull’etnopsichiatria

Prima di mostrare le pellicole che ruotano intorno al tema dell’etnopsichiatria, occorre ribadire alcuni concetti “chiave”. Per”cultura” si definisce “il complesso di rappresentazioni e principi, di norme negative e positive, di valori connessi ai particolari modi di pensare e di agire di un gruppo o di una società che, nel loro insieme orientano ed organizzano i differenti aspetti della vita sociale.” Far parte di una certa cultura significa, quindi, condividere credenze, modelli comunicativi, schemi mentali, costellazioni simboliche. Tajfel (1981) ha osservato che le persone sono portate ad accentuare le somiglianze fra i membri della propria cultura e ad accentuare le differenze tra altre culture ed a minimizzare le somiglianze. Per “etnocentrismo” si indica l’attitudine universale a considerarsi migliori e unici; per “relativismo culturale” si intende un termine che tende a valorizzare lo studio ed il riconoscimento del punto di vista dei nativi giungendo a considerare, fino alle estreme conseguenze, valide tutte le varie forme di organizzazioni culturali e sociali. Da questi assunti ne deriva che “la cultura non è dunque una sorta di “capriccio” o un accessorio secondario dell’evoluzione umana. Essa non è un abito , né un colore, ma rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano.” Sulla scorta di queste considerazioni un gruppo di studiosi ha attaccato la psichiatria tradizionale sostenendo che alcune malattie che colpivano le cosiddette popolazioni subalterne o marginali non potevano essere lette e comprese secondo gli schemi nosografici e diagnostici dogmatici della psichiatria elitaria occidentale, ma solo se calati nella dimensione culturale e simbolica nella quale essa si veniva a creare. In realtà, sin dalla fine dell’Ottocento, erano noti in Europa, grazie ai resoconti dei viaggiatori i nomi indigeni di quelle “folk-illness” o “sindrome esotiche”, in seguito conosciute come “culture – bound syndromes“ (sindrome culturalmente condizionata). Negli anni Sessanta, tra ì diversi studi, Risso aveva studiato complessivamente 709 pazienti italiani in 16 cliniche psichiatriche e Case di Cura della Svizzera e scoperto che molti ammalati meridionali si lamentavano di essere affetti da gravi sensazioni di modificazione corporea e di altri sintomi che facevano risalire ad influssi magici. Lo studio presentava il caso di 11 uomini. I giovani pazienti erano convinti di essere vittime di “una fattura”, somministrata loro da giovani ragazze o da donne mature nel paese d’accoglienza. Si sentivano “stregati” da una fattura d’amore o di morte, danneggiati nella loro forza vitale e spinti da un’angosciosa paura fino ad uno stato di panico psicotico. Secondo Risso con l’immigrazione in Svizzera di giovani provenienti in maggior parte dal Sud Italia, avviene uno scontro tra il mondo magico ed arcaico del Meridione d’Italia e il mondo razionalistico e individualistico dell’Europa Centrale anche perché, a ben vedere, a differenza del Meridione, la donna in Svizzera occupava un posto più elevato nella gerarchia sociale, lavora con gli stessi diritti dell’uomo, è finanziariamente indipendente, può presentarsi in pubblico senza essere accompagnata, condizione impossibile per molte ragazze nubili in molte regioni meridionali. In uno studio divenuto ormai storico, Hertz identifica nell’esperienza migratoria una sequenza di fasi. Egli individua una fase d’impatto, caratterizzata da una successione di brevi periodi di euforia seguiti da rilassamento, sensazione di realizzazione/soddisfazione. Ben presto seguirebbe la seconda fase, di “rebound” con sentimenti di delusione, scontentezza, collera, ritiro o depressione, loquacità. E’ il caso di tanti immigrati che passano da un piccolo villaggio del loro paese a una grande città occidentale sperimentando improvvisamente le differenze tra un contesto familiare protettivo e l’impersonalità delle periferie urbane, dove valori, costumi, abitudini, modi di fare, sono completamente nuovi. Come dice Schouler l’emigrato, dal punto di vista psicodinamico, resta tra l’illusione del nuovo mondo e l’illusione del ritorno a casa. Sotto questa luce può essere riletto anche il “fenomeno” di “harraga” che in arabo significa “incenerire”, che designa l’atto di bruciare i propri documenti da parte di immigrati illegali, in larga parte provenienti dall’Africa sub sahariana, prima di lasciare il proprio paese per l’Europa. Al di là della dimensione strategica (rendere impossibile o ritardare la propria identificazione) questo gesto assume una forte connotazione simbolica, evidenziando come molti degli immigrati clandestini, soprattutto i più giovani, sembrano mettere in atto una dimensione di invisibilità (sociale, culturale…) non molto diversa a quella dei riti di passaggio.

2. Il cinema, l’intercultura e l’integrazione razziale

L’industria cinematografica è presente per lo più nei paesi ricchi nei confronti delle minoranze etniche ha sempre avuto un atteggiamento discriminatorio e veniva affidato il ruolo di personale di servizio. Inizialmente al cinema i neri sono rappresentati con il volto e le mani annerite ed interpretate da attori bianchi. Il primo film sonoro è Il cantante di jazz di Alan Crosland (USA-1927) ed interpretato da Al Johnson, un attore bianco, truccato da nero. Una delle prime pellicole che provarono ad affrontare lo spinoso tema del razzismo e dell’integrazione razziale fu Uomo bianco tu vivrai di Joseph L. Mankiewicz (1950). Dopo aver tentato una rapina i fratelli Ray (Richard Widmark) e Johnny Biddle (Dick Paxton) sono feriti in uno scontro a fuoco con la polizia e trasportati d’urgenza in ospedale. Il dottor Luther (Sidney Poitier) giovane medico nero, intuisce che Johnny è grave e nel tentativo estremo di salvarlo effettua una puntura lombare ma l’uomo muore. Ray, presente all’intervento, accusa il dottore di avere ucciso volontariamente suo fratello perché era un bianco e gli giura eterna vendetta. Luther prova, invano, a spiegargli che suo fratello era affetto da un tumore al cervello e per dimostrargli la propria innocenza gli chiede di autorizzare l’autopsia del fratello ma Ray, accecato dall’odio, non sente ragioni. Daniel Wharton (Stephen McNally) un medico sensibile si schiera al fianco di Luther ma il dottor Moreland (Stanley Ridges) dirigente dell’ospedale, per evitare polveroni non autorizza l’autopsia ma Luther, cossiuto e testardo, per dimostrare la propria innocenza si accusa dell’omicidio di Johhny ed ottiene la sospirata autorizzazione. Grazie all’aiuto di George, il suo fratello sordomuto, Ray intanto riesce ad evadere e nella fuga si ferisce gravemente ad una gamba. Dopo aver teso una trappola a Luther gli spara ma lo colpisce di striscio e poi crolla a terra; seppure ferito il dottore gli blocca l’emorragia e gli salva la vita. Nonostante l’ottimo smalto della confezione questo dramma razziale, un po’ troppo enfatico e retorico, non regge alla distanza del tempo. Al cinico e violento Ray, Mankiewicz contrappone in maniera troppo scolastica Luther, un medico idealista dal cuore d’oro, costretto a combattere contro gli atavici pregiudizi razziali. In una scena simbolo, dopo una maxi rissa tra neri e bianchi, Luther sta prestando soccorso ad un ferito ma una madre lo blocca e, dopo avergli urlato in faccia: “Via quella mani negre da mio figlio” lo guarda con disprezzo e poi gli sputa in faccia.  E se Douglas Sirk nel 1959 con “Lo specchio della vita” aveva descritto il dramma di una madre, “ripudiata” ed abbandonata dalla figlia perché di “colore”, negli Anni Sessanta vincono premi Oscar e /o sbancano al botteghino pellicole come Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan (1962), La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jevison (1965), Indovina chi viene a cena di Stanley Kramer (1967). Quest’ultimo film narra le vicende di Joey Drayton (Katharine Houghton) che, durante un soggiorno alle Hawaii, si innamora del dottor John Prentice (Sidney Poitier) professore universitario nero ed autore di alcuni prestigiosi volumi sulle malattie tropicali. In un lampo i due decidono di sposarsi e volano a San Francisco, a casa dei genitori di lei. Joey è certa che avrà l’incondizionata approvazione di suo padre Matt (Spencer Tracy) proprietario di un giornale progressista e di sua madre Christina (Katharine Hepburn) direttrice di una galleria d’arte, liberal, moderna ed emancipata. Dopo mille dubbi e tormenti, Matt e Christina daranno la loro approvazione al loro matrimonio. Il film, che oggi fa sorridere per la sua schietta ingenuità, quando uscì nelle sale, scatenò il putiferio perché al tempo il matrimonio tra un bianco ed un nero era considerato reato in sedici stati d’America su diciassette.

Tutt’altra atmosfera si respira ne L’uomo caffellatte di Melvin Van Peebles (1970). Jeff Gerber (Godfrey Cambridge), agente di assicurazioni ed incallito razzista, vive con la moglie Altea (Estelle Parsons) ed i suoi due bambini in una piccola cittadina del sud dell’America. Jeff ha la passione per le lampade solari ed una mattina, magicamente, si ritrova con la pelle nera come un carbone. Prova, invano, a sbiancarsi con creme, saponi e detersivi e dopo essersi rintanato in casa per qualche giorno, decide di affrontare la realtà e di presentarsi in ufficio. Il signor Towsend (Howard Caine), il suo odioso principale, cerca di approfittare della paradossale situazione e gli propone di estendere le polizze assicurative nei quartieri dei neri. Ben presto le certezze di Jeff iniziano a vacillare; Althea è sempre più nervosa ed emotivamente distante, i vicini di casa rumoreggiano, i colleghi d’ufficio sono scostanti e Towsend è su tutte le furie perché Jeff sta facendo aprire gli occhi ai neri che avevano in passato stipulato dei contratti capestro con la sua agenzia. La conferma che Jeff ha un negro fra i suoi antenati è la goccia che fa traboccare il vaso; i vicini gli impongono di andare via e lo costringono a vendere casa ed Althea se ne va con i figli dalla sorella ad Indianapolis. Jeff ha una breve avventura con Erica (Kay Kimberly), una collega di lavoro ma quando scopre che lei va a letto con lui solo perché si eccita a far l’amore con un nero, la pianta. Dopo aver dato il benservito a Towsend, Jeff apre una propria agenzia assicurativa e sempre più risoluto e determinato, è pronto ad affrontare il futuro. Il regista, padre del cinema black americano, dirige una pellicola agrodolce; divertente e frizzante nella prima parte, amara e riflessiva nella seconda. Van Peebles non vuole confezionare un film militante ma è politicamente incisivo e con un tocco irriverente mette alla berlina l’ipocrisia e il razzismo strisciante dei bianchi. Jeff è descritto come uno sbruffone, antipatico, vuoto, e superficiale che lancia battute sprezzanti contro i neri ma, dopo aver mutato il colore della pelle, apre gli occhi sulla realtà e, passo dopo passo, acquisisca una maggiore coscienza di se stesso. Dura e sferzante la scena finale con il protagonista che insieme ai suoi amici neri si addestra in palestra con dei nerboruti bastoni di legno ed è pronto a combattere.

Messe da parte le numerose pellicole a stelle e strisce sul tema anche la cinematografia europea ha prodotto film di culto come La paura mangia l’anima di Rainer Werner Fassbinder (1974),La promessa di Jean Pierre e Luc Dardenne (1996), Jalla! Jalla! di Josef Fares (2000), Welcome di Philippe Loiret (2009). In East is East di Damien O’Donnel (1999) George Khan (Om Puri), negoziante di origini pakistane, vive in un sobborgo di Manchester con i suoi sette figli e la moglie Ella (Linda Bassett), una donna inglese cattolica che, negli anni, pur di tenere unita la famiglia, con i suoi modi gentili e dimessi, ha imparato a piegare la testa ed a subire in silenzio le angherie del marito, un uomo di altri tempi, bisbetico e violento, convinto che tutti devono obbedirgli senza fiatare. Come le credenze religiose del suo paese impongono, George combina il matrimonio del primogenito Nazir (Ian Aspinall) con una giovane ragazza pakistana. Ma suo figlio è gay e, dopo un clamoroso dietro-front sull’altare, scappa di casa. Passa del tempo e George, in gran segreto, organizza il matrimonio di Abdul (Raji James) e di Tarik (Jimi Mistry) con le figlie di un macellaio. I due ragazzi, perfettamente integrati nel tessuto sociale, flirtano con ragazze inglesi e non hanno nessuna voglia di piegare la testa al suo volere ma finiscono per cedere e non battono ciglio quando scoprono che le loro future spose sono due bruttissimi rospi. La futura suocera è però odiosa, arrogante e criticona ed Ella, dopo aver assorbito in silenzio i suoi affondi, sbotta e, dopo avergliene cantate quattro, la caccia di casa.  Il matrimonio va all’aria e George, offeso, per il comportamento della moglie, reagisce, picchiandola. Ma i figli fanno quadrato intorno a lei e solo allora George comprende che non può più gestire la vita dei figli, maltrattare la moglie ed imporre le sue decisioni in famiglia. Commediola agro-dolce, dal ritmo fresco e vivace, ambientata negli Anni Settanta, che mette in scena il difficile processo d’integrazione degli emigrati pakistani di prima generazione sul suolo britannico. Il burbero George, soprannominato dai figli Gengis Khan, giunto a Manchester negli Anni Trenta, è descritto come un uomo di altri tempi ed educato al rigido rispetto delle leggi secolari che regolano il paese natio ed incapace di comprendere che in quegli anni nel Regno Unito è scoppiata la rivoluzione sessuale e che nelle discoteche impazza la musica beat. Fedele custode della tradizione, fa circoncidere il più piccolo dei suoi figli, conserva, come delle reliquie, i vestiti tradizionali pakistani da indossare nei matrimoni e, dopo il rifiuto di Nazir di sposare la donna che gli era stata data in moglie, toglie il suo ritratto che campeggiava, in salotto, insieme agli altri figli. In Un bacio appassionato di Ken Loach (2004) Casim (Atta Yaquib), un giovane D.J pakistano e musulmano, vive a Glasgow con i genitori ed ha un sogno nel cassetto: aprire una discoteca, senza alcuna discriminazione religiosa o razziale. Un giorno incontra Roisin (Eva Birthistle), l’insegnante di musica della sorella Takara (Shabana Bakhsh), una ragazza che studia in una scuola cattolica e tifa per i Rangers, la squadra della comunità protestante. Tra Casim e Roisin scocca l’amore ma lui è promesso sposo ad una cugina che vive in Pakistan e che non ha ancora mai conosciuto. Casim sarà costretto a scegliere tra la passione per la giovane donna (bianca e cattolica) ed il rispetto per i riti e la tradizione musulmana.

Per quanto attiene, infine, alla cinematografia nostrana, dopo aver citato Rocco ed i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960), Pane e cioccolato di Franco Brusati (1973), Pummarò di Michele Placido (1990) ed il recente Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi (2012) va segnalato Là-bas – Educazione criminale di Guido Lombardi (2011). Yssouf (Kader Alassane), giovane ragazzo africano, ha un sogno nel cassetto; raggranellare dei soldi per comprare un costoso programma di grafica e poter affinare così le sue già spiccate doti artistiche. Arrivato a Castelvolturno, n una cittadina a trenta chilometri da Napoli, è accolto in una piccola villa, detta la Casadelle Candele (perché spesso salta la luce) dove incontra un gruppo di extracomunitari che tirano a campare vendendo fazzoletti ai semafori. Grazie a loro riesce ad entrare in contatto con lo zio Moses (Moussa Mone), ricco, potente e rispettato boss della malavita, in combutta con i camorristi locali. Ben presto Yssouf comprende che la realtà è ben più dura di quello che immaginava e lavora per pochi spiccioli in un autolavaggio. Stanco di quella vita, chiede a Moses di entrare anche lui a far parte di quel grosso giro di spaccio di stupefacenti gestito dallo zio. Ma i clan camorristi, sono in lotta tra loro, e qualche malavitoso locale non vede di buon occhio la mole di  affari che ruota intorno a Moses. Un finale pieno di speranza chiude la vicenda. Guido Lombardi, all’esordio dietro la macchina da presa, impagina un piccolo capolavoro e prova, senza retorica, a descrivere le sofferenze di chi, abbagliato dall’idea di un facile guadagno, (Là-bas , come recita il titolo del film, significa in francese, “lì, laggiù”) sbarca nel Belpaese e deve fare i conti con la fame, la solitudine ed i soprusi dei bianchi. Il regista prende spunto da un evento realmente accaduto nel settembre 2008 a Castelvolturno (la strage di sei extracomunitari per mano del clan dei Casalesi) ed impagina una storia, toccante e commovente, vista con gli occhi dello smarrito e spaesato Yssouf, animo sensibile d’artista, innamorato della sensuale Saud (Esther Elisha), una prostituta che vorrebbe strappare dalle grinfie dei suoi sfruttatori. Intrappolato in una storia più grande di lui, Yssouf finirà per perdersi e per scontrarsi con una realtà dura e feroce che non fa sconti a nessuno. Saimir, opera prima di Francesco Munzi, narra, invece, di un ragazzo albanese, il sedicenne Saimir (Mishel Monuku) che sbarca il lunario aiutando il padre Edmond (Xhevedet Feri) a trasportare immigrati clandestini dalla costa adriatica a quella tirrenica. Saimir è un ragazzo s,ilenzioso ed ha imparato a non fare domande al padre, un uomo duro che è entrato in un giro losco ed illegale (forse) più grande di lui. E mentre il ragazzo sogna di cambiare vita, un giorno sulla spiaggia incontra Michela, una bella e timida studentessa che si lascia attrarre dal suo sguardo dolce ed indifeso. Il ragazzo crede di poter far breccia nel suo cuore ma l’illusione dura ben poco. Ripiombato nel suo sporco lavoro, sul finire del film, Saimir proverà a mutare il corso del proprio destino.

Chiude questo piccolo excursus sul tema il palpitante Cosimo e Nicole di Francesco Amato (2012). Cosimo e Nicole si incontrano, per caso, al G8 di Genova. Irregolari, vagabondi, cani sciolti senza collare, si piacciono, si amano e, prima di fare di nuovo tappa a Genova, decidono di fare un salto da Jean, il padre di Nicole, uno spiantato senza il becco di un quattrino. I due, senza perdersi d’animo, dopo aver improvvisato per strada la vendita di qualche oggetto che avevano al volo racimolato, partono per un viaggio che serberà per loro non poche sorprese e che cambierà per sempre la loro vita. In questa pellicola, macchina a mano, Amato ci mostra, in apertura, l’incontro burrascoso tra la fresca e solare Nicole, una ragazza francese e Cosimo, un italiano che, durante i tafferugli del G8, l’aveva soccorsa sanguinante a terra. Cupido schiocca le sue frecce e Cosimo e Nicole sono tolti dagli impicci da Paolo, un fonico ed organizzatore di concerti rock che offre ad entrambi la possibilità di lavorare per lui. Come ogni favola che si rispetti, il destino è però dietro l’angolo. Alioune, un immigrato clandestino della Guinea, cade da un’impalcatura mentre sta montando il palco al fianco di Cosimo. Tutti lo credono morto e Paolo, per evitare rogne, con la complicità dei due ragazzi, invece di portarlo in ospedale, lo abbandona in una baraccopoli di periferia, dimessa ed isolata. Giorno dopo giorno, Nicole è macerata dai sensi di colpa e, sempre più nervosa, irritabile e scontrosa accusa Cosimo di essere cinico ed insensibile. Lui l’ama, comprende la sua disperazione ma, concreto e realista, prova, invano, a convincerla che così va il mondo e che non è possibile cambiare le regole del gioco. Cocciuta e testarda, Nicole darà ascolto alla propria coscienza e, decisa, andrà alla ricerca di Alioune. E sarà proprio questo il punto di snodo della trama che condurrà lo spettatore in un viaggio pieno di speranza e di inattese sorprese. In questo road movie atipico, che procede senza intoppi con un ritmo agile e sincopato, Amato è bravo nel declinare un tema (le morti bianche, gli operai sfruttati e diseredati che cadono da un’impalcatura) mostrato già altre volte sul grande schermo. E se ne La promessa dei Dardenne era un bambino che succube del padre-padrone, finiva poi per denunciarlo, in questo film Amato lascia che sia una ragazzina, esplosiva e vitale, come Nicole ad urlare, scalpitare ed a condurre, da sola, una battaglia per il trionfo della giustizia, della gratitudine e della dignità umana.

 

Articolo pubblicato su Psychomedia 27-5-2014

 

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