Disconnect di Henry Alex Rubin – USA – 2012

15 Febbraio 2015 | Di Ignazio Senatore

Una coppia in crisi, dopo la morte del figlio, è vittima di un pirata informatico che prosciuga il loro conto in banca. Nina, un’ambiziosa giornalista televisiva, a caccia di scoop, entra in contatto con un minorenne che si spoglia a pagamento in Rete. Un ex poliziotto, inflessibile ed autoritario, scopre che il figlio adolescente, spalleggiato dall’inseparabile amichetto ha fatto credere ad un ingenuo ed indifeso ragazzino che una fantomatica Jessica si interessi a lui. Il ragazzino le apre il suo cuore ma, scoperto l’inganno, dopo essere stato vittima delle burle dei coetanei, sommerso dalla vergogna, tenta un gesto estremo. 

Ci sono dei film che, sin dal titolo, sembrano sfidarti. Disconnect, di Henry Alex Rubin ti impone immediatamente di scegliere tra due possibili direzioni. Quella più facilmente spendibile che rimanda, inevitabilmente, alle connessioni e disconnessioni legate all’era informatica dei giorni nostri e quella più classica, legata al suo etimo, che ti conduce, inconsapevolmente, alla ricerca di eventuali incongruità e contraddizioni che saltano agli occhi nel corso della fruizione della pellicola. Mi sono lasciato cullare da quest’ultima fascinazione e proverò a riportare le disconnessioni che il film di Henry Alex Rubin mi hanno evocato.

La prima, accecante quanto un raggio di sole, era quella di sentirmi spiazzato da una pellicola che immaginavo rivolta ad un pubblico giovanile e che ipotizzavo fosse ricca di improvvisi salti temporali, di tagli visivi vertiginosi e piena zeppa di repentini cambi di passo. Mi sono trovato, invece, sin dalle prime sequenze, di fronte ad una regia classicheggiante che, come in ogni dramma che si rispetti, faceva dei dialoghi e dello scavo psicologico dei personaggi il proprio cavallo di battaglia. La seconda disconnessione, luccicante come una moneta d’oro, era quella che non mi imbattevo  nell’ennesima pellicola a stelle e strisce, con la colonna sonora sparata a palla e con una storia che ruotava intorno a dei ragazzini foruncolosi e straripanti di ormoni che chattavano e smanettavano, come idioti, freneticamente sul web, per riempire le loro vuote ed insulse giornate.

Niente di tutto questo, Rubin, infatti, non lambisce i territori cari alle teen-comedy ma, seppur strizzando l’occhio al pubblico adolescente, ci mostra due ragazzini  (lo scaltro e spigliato Jason ed il suo amico Frye) che, per ammazzare il tempo, tramite un falso profilo di facebook, lasciano credere al tenero ed introverso Ben che una fantomatica Jessica sia interessato a lui.

La storia, che avrà un’evoluzione tragica, è però ben dosata e Rubin, intelligentemente, dona al “cattivissimo” Jason un’anima ed un cuore e lo descrive come un ragazzino che non si è ancora ripreso dalla morte della madre e che vive in casa con un padre burbero ed autoritario, con il quale è impossibile imbastire uno straccio di dialogo. Non se la passa meglio di lui, lo spavaldo e disinibito Kyle (Max Teriot), muscoloso ed aitante e minorenne, entrato in uno squallido giro di video chat per adulti, disposto a prostituirsi in Rete, in cambio di un pugno di dollari. Ingenuo e credulone, senza una famiglia alle spalle, vive, accampato in un appartamento con gli altri adolescenti che, come lui, sbarcano il lunario, spogliandosi e masturbandosi in chat.

Sin dalle prime immagini si intuisce che Rubin non vuole confezionare un pamphlet di stampo sociologico, né arenarsi nelle secche della psicoanalisi prèt à porter. Con il suo occhio, partecipe, ma distaccato, pur mostrandoci questi adolescenti allo sbando, ci ricorda che la Rete non va demonizzata e, pur sottolineando come le frenetiche innovazioni tecnologiche finiscono per influenzare, inevitabilmente, le loro vite di relazioni, non si scaglia contro i social network, né li accusa di essere i responsabili dell’alienazione contemporanea.

Rubin non sputa sentenze, né veste i panni del moralizzatore, ma cerca solo di mettere in guardia lo spettatore dagli eventuali rischi di chi rimane fatalmente intrappolato dalla Rete. Quasi per pareggiare i conti (e ribadire che il pericolo non è nel mezzo ma nell’uso che se ne fa), il regista mostra come la tenera Cindy (Paula Patton), dopo la morte del figlio, trovi rifugio e conforto in una chat di genitori che provano ad elaborare il lutto per la perdita di un loro caro e ci ricorda che, grazie alla Rete, Rich (Jason Bateman), il padre di Ben, e Mike (Frank Grillo), quello di Jason, si ritroveranno, inevitabilmente, faccia a faccia ed a fare i conti con il peso e la responsabilità di non essere stati, come genitore, un valido punto di riferimento per il proprio figliolo.

La terza disconnessione, infine, chiara e limpida come acqua di ruscello, era legata al netto contrasto tra la calda fotografia di Ken Seng e la monocroma piattezza emotiva nella quale si dibattevano i diversi protagonisti della vicenda, alla continua e vana ricerca di un contatto umano. In maniera forse un po’ scolastica il regista sottolinea come i protagonisti, pur chattando disperatamente tra loro, con tablet, personal computer e smartphone,, attanagliati dalla noia, dalla tristezza e dalla solitudine, non riescono a scrollarsi di dosso né l’angoscia, né il loro vuoto interiore. Un dramma con i fiocchi che, a dispetto del titolo accattivante, lascia che Rete funga solo da cornice alla vicenda e che fotografa alla perfezione il disagio esistenziale nella quale si dibattono i protagonisti della vicenda. 

Un plauso, dunque, ad Henry Alex Rubin, regista da tener d’occhio, già premiato con il suo documentario Murderball, (co- diretto insieme a Dana Adam Shapiro) al Sundance Film e nominato all’Oscar, che, pur  essendosi formato all’ombra di James Mangold, sembra essersi nutrito dei film corali diretti da Alejandro González Iñárritu, da Guillermo Arriaga e da Paul Haggis. A proposito di quest’ultimo il suo pluripremiato Crash Contatto fisico, è stato distribuito in Italia dalla Filmauro. proprio come Disconnect, Alla faccia di quelli che dicono che Aurelio De Laurentiis produce e distribuisce solo cine-panettoni.

Recensione pubblicata su Segno Cinema  n.186

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