La tela del ragno di Vincente Minnelli – USA -1955- Durata 124’

17 Marzo 2019 | Di Ignazio Senatore
La tela del ragno di Vincente Minnelli – USA -1955- Durata 124’
Schede Film e commento critico di Ignazio Senatore
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“I guai ebbero inizio…”. Questa scritta, posta nella scena d’apertura del film, potrebbe gettare ombre sul prosieguo della narrazione. Minnelli, bravo a miscelare humour e drammaticità, ci tranquillizza subito, regalandoci, sin dalla prima scena, un folgorante scambio di battute. Steven, uno dei pazienti ricoverati (mezzo artista e mezzo svitato) si rivolge a Karen, la moglie di Luis, il direttore della Clinica:  “Nella clinica sono tutti matti… Non distingue i pazienti dai medici”. Karen prontamente gli risponde: “Io si, i pazienti migliorano.” Nel corso della narrazione, scopriamo che nella clinica occorre cambiare le tende nella sala di lettura dei pazienti. Vichy, la permalosa amministrativa (attenta solo alle spese di bilancio) è orientata a scegliere le tende meno costose; Louis, in nome della “terapia ambientale”, vuole che Steven si occupi dei disegni e che gli altri pazienti s’impegnino nella loro confezione; Karen (per sentirsi utile e stare più vicino al marito che la trascura) trama per imporre al Consiglio la stoffa di suo gradimento. In una girandola di colpi di scena, i pazienti sembrano spuntarla e si gettano anima e corpo nell’impresa ma Karen (per ripicca) tappezza nottetempo il salone con le tende che ha comprato. Steven, si sente tradito, fugge dalla clinica e tenta il suicidio. Alla fine, le ragioni terapeutiche trionfano sulle beghe e sulle rivalse personali. In chiusura Minnelli regala allo spettatore un ultimo sorriso. Steven, scampato ai flutti del fiume nel quale si era gettato, si presenta, notte fonda a casa del direttore della clinica. Prontamente soccorso, è adagiato sul divano del salotto; fungeranno da coperte le “famigerate” tende con cui Karen aveva tappezzato il salone della clinica..

Tratto da un romanzo di William Gibson, il titolo del film simbolizza la trappola nella quale si vengono a trovare tutti i protagonisti. Minnelli nel descriverci una delle tante anonime province americane, affonda il suo sguardo nell’animo umano e mette in scena un piccolo dramma borghese, popolato da eroi “tragici” ed infelici. Luis, è il classico psichiatra immerso nel lavoro, in crisi con la moglie ed incapace di avere un minimo contatto emotivo con i propri figli. (Alla domanda dell’insegnante su cosa avrebbe fatto da grande, la figlia aveva risposto: “L’ammalata”). Cercherà rifugio tra le braccia di Meg (Lauren Bacall), una sua collaboratrice. La clinica sembra un hotel a cinque stelle ed i ricoverati non hanno nulla di terrifico e di spaventoso e sembrano dei “sani” nevrotici, in villeggiatura alle terme. Al di là di queste note a margine, è assolutamente da apprezzare il primo serio tentativo (cinematografico) i sfangare i “folli” dai dalle “fosse dei serpenti” dei manicomi e di proporre un loro recupero con terapie occupazionali-riabilitative.

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